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16/02/2016

Siria, verso la resa dei conti

di Michele Paris

I bombardamenti condotti dalla Turchia contro le postazioni curde in territorio siriano hanno segnato in questi giorni un pericoloso aggravamento della guerra in corso nel paese mediorientale. L’escalation dello scontro è la diretta conseguenza dell’avanzata delle forze del regime di Damasco con l’appoggio dell’aviazione russa, il cui intervento ha capovolto gli equilibri del conflitto, smascherando nel contempo il gioco dei regimi mediorientali impegnati nella lotta contro Assad dietro il paravento di quella al terrorismo.

I sentimenti che meglio descrivono lo stato d’animo dei regimi di Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar in queste settimane sono il panico e la disperazione. Gli investimenti che questi paesi hanno fatto in Siria, con la supervisione – se non l’aperta collaborazione – di Washington, ammontano a svariati miliardi di dollari, destinati a sostenere finanziariamente e militarmente gruppi fondamentalisti nel tentativo di rovesciare il regime di Damasco.

Questi piani rischiano ora di essere completamente spazzati via dall’intervento della Russia e la prospettiva del tracollo definitivo dei “ribelli” armati, da giorni sotto “assedio” delle forze governative soprattutto ad Aleppo, ha spinto Ankara, Riyadh e i loro alleati a valutare la possibilità di giocare il tutto per tutto nella crisi siriana.

D’altra parte, la liberazione di Aleppo e delle località circostanti da parte dell’esercito siriano chiuderebbe il corridoio che collega quest’area alla Turchia e che è stato utilizzato per assicurare i rifornimenti e il transito di uomini verso le postazioni “ribelli”. Senza questa componente logistica vitale, le varie formazioni dell’opposizione armata si ritroverebbero con poche alternative oltre alla morte e alla resa.

La loro sorte sarebbe quindi segnata, visto che i gruppi che combattono contro il regime di Assad non hanno virtualmente alcun sostegno tra la popolazione siriana, tanto che la maggior parte di essi sono formati da guerriglieri provenienti da altri paesi e, appunto, hanno potuto resistere così a lungo e ottenere successi significativi solo grazie a sostenitori e finanziatori stranieri.

L’evoluzione del conflitto favorevole a Damasco ha così scatenato un’offensiva su più fronti tra i nemici del regime alauita. Quella manifestatasi in maniera più ambigua è l’iniziativa degli Stati Uniti. A Washington, secondo alcuni commentatori, in molti sarebbero ormai giunti ad accettare il successo delle operazioni russe, in grado di combattere efficacemente la minaccia dello Stato Islamico (ISIS) che, dopo essere stato più o meno direttamente coltivato e promosso, rischiava di trasformarsi in un boomerang per gli interessi e la sicurezza dell’Occidente.

Allo stesso tempo, però, la rivalità ormai a tutto campo con Mosca, nonché la speranza di ottenere il massimo ricavo strategico dal conflitto siriano dopo gli sforzi per rimuovere Assad in questi anni, si sono tradotte in un impegno per una qualche soluzione diplomatica della crisi. Il risultato è per ora l’accordo, annunciato venerdì scorso dal segretario di Stato USA, John Kerry, e dal ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, su un incertissimo piano per lo stop ai combattimenti, significativamente non sottoscritto né da Damasco né dal Fronte al-Nusra o dall’ISIS.

La doppiezza dell’atteggiamento americano, dettata verosimilmente dalla mancanza di un piano coerente per la Siria, è evidente anche nell’approccio alle iniziative di Turchia e Arabia Saudita, i cui regimi sono sempre più vicini a un ingresso diretto nelle ostilità. L’eventuale impegno in territorio siriano di questi due paesi dipenderà infatti dall’approvazione di Washington, le cui intenzioni in proposito non appaiono per il momento chiare.

Il governo USA ha accolto favorevolmente, almeno a parole, i progetti di intervento turco e saudita, ma l’amministrazione Obama si rende conto perfettamente che un’evoluzione di questo genere rischia di innescare un conflitto di vasta scala, ovvero, secondo le parole del primo ministro russo, Dmitry Medvedev, in riferimento a una possibile invasione delle forze di terra di Riyadh in Siria, niente meno che “una nuova guerra mondiale”.

La Turchia, comunque, nei giorni scorsi ha iniziato a colpire le Unità di Protezione Popolari curde (YPG) in Siria, con la scusa che esse avrebbero fornito armi – ottenute dagli Stati Uniti – ai guerriglieri del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) attivi entro i propri confini. Le operazioni militari turche hanno il chiaro obiettivo di fermare l’offensiva contro i gruppi islamisti anti-Assad, tra cui lo stesso ISIS, combattuti dai curdi siriani.

Non solo: le bombe di Erdogan aggiungono un’ulteriore complicazione al conflitto, visto che le YPG, oltre che a collaborare con Damasco e la Russia, sono alleate degli Stati Uniti nella guerra all’ISIS. Secondo i media occidentali, Ankara avrebbe agito nonostante le pressioni americane, ma anche di Francia e Germania, ad astenersi dal colpire le formazioni curde.

Questi ultimi sviluppi indicano dunque un aggravamento anche delle tensioni tra Turchia e Stati Uniti, dovuto alle differenze tattiche nella lotta contro il regime di Assad. Da tempo, infatti, Erdogan chiede un intervento diretto degli USA o della NATO contro Damasco e per ottenere ciò ha messo in atto svariate provocazioni, come l’abbattimento deliberato di un aereo da guerra russo lo scorso novembre o la collaborazione con i “ribelli” per condurre attacchi con armi chimiche in Siria e attribuirne la responsabilità al regime.

L’Arabia Saudita, intanto, ha da parte sua confermato di avere inviato i propri jet presso la base di Incirlik, in Turchia, per intensificare l’impegno ufficialmente contro l’ISIS in Siria. Riyadh ha però attenuato i toni in relazione al possibile impiego di forze speciali in territorio siriano, affermando che una simile mossa dipenderà dalla decisione dei membri della coalizione anti-ISIS guidata dagli Stati Uniti.

Tanto per complicare gli scenari, infine, il numero uno del Pentagono, Ashton Carter, ha detto recentemente di aspettarsi l’invio di forze speciali saudite e degli Emirati Arabi in Siria per assistere i combattenti “ribelli” nello sforzo per riconquistare la città di Raqqa, considerata la capitale dello pseudo-califfato dell’ISIS.

In definitiva, le sconfitte subite sul campo in questi mesi dalle forze di opposizione anti-Assad, assieme alla prospettiva di essere tagliate fuori dal controllo di Aleppo e dalle importanti località al confine con la Turchia, hanno provocato reazioni isteriche tra i loro sponsor, tali da costringerli a vere e proprie acrobazie retoriche per giustificare interventi palesemente a sostegno di quelle stesse forze fondamentaliste che vorrebbero far credere di combattere.

Anche grazie a organi di stampa in larga misura compiacenti, Turchia e Arabia Saudita possono così affermare di voler fare la guerra ai terroristi dell’ISIS o del Fronte al-Nusra attraverso una campagna militare che prende di mira quelle stesse forze che li stanno combattendo in maniera efficace e che potrebbero forse garantire il ritorno a un minimo di stabilità in Siria.

L’intervento russo, prevedibilmente deciso per salvaguardare gli interessi strategici di Mosca in Medio Oriente e non solo, ha dato insomma un contributo fondamentale a chiarire senza più nessun ombra di dubbio le posizioni degli attori impegnati sul fronte siriano.

Al di là di come si valutino le operazioni militari della Russia, in ogni caso legittime dal punto di vista del diritto internazionale, a differenza di quelle condotte dalla “coalizione” guidata dagli USA, in seguito ad esse le ambiguità dei governi occidentali e dei loro alleati mediorientali hanno finito per essere smascherate.

La fine della sanguinosa guerra in Siria, perciò, non sarà risolta dal fantomatico tavolo delle trattative di Ginevra o da improbabili tregue negoziate altrove, bensì sul campo e dalle forze armate di Mosca e Damasco, con tutti i drammatici effetti collaterali del caso, come ha dimostrato il possibile bombardamento avvenuto lunedì di una scuola e di un ospedale di Medici Senza Frontiere rispettivamente nella province di Aleppo e Idlib. L’unica alternativa, la cui praticabilità risulterà evidente in tempi molto brevi, resta il coinvolgimento diretto di Turchia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, se non degli stessi Stati Uniti.

Una prospettiva di questo genere, tuttavia, avrà conseguenze difficili da calcolare, poiché non farà che aggravare la situazione e favorire il fondamentalismo sunnita, senza contare il rischio concreto di scatenare una guerra totale dagli effetti potenzialmente catastrofici.

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