di Michele Paris
I bombardamenti condotti dalla Turchia contro le postazioni curde in
territorio siriano hanno segnato in questi giorni un pericoloso
aggravamento della guerra in corso nel paese mediorientale. L’escalation
dello scontro è la diretta conseguenza dell’avanzata delle forze del
regime di Damasco con l’appoggio dell’aviazione russa, il cui intervento
ha capovolto gli equilibri del conflitto, smascherando nel contempo il
gioco dei regimi mediorientali impegnati nella lotta contro Assad dietro
il paravento di quella al terrorismo.
I sentimenti che meglio
descrivono lo stato d’animo dei regimi di Turchia, Arabia Saudita,
Emirati Arabi e Qatar in queste settimane sono il panico e la
disperazione. Gli investimenti che questi paesi hanno fatto in Siria,
con la supervisione – se non l’aperta collaborazione – di Washington,
ammontano a svariati miliardi di dollari, destinati a sostenere
finanziariamente e militarmente gruppi fondamentalisti nel tentativo di
rovesciare il regime di Damasco.
Questi piani rischiano ora di
essere completamente spazzati via dall’intervento della Russia e la
prospettiva del tracollo definitivo dei “ribelli” armati, da giorni
sotto “assedio” delle forze governative soprattutto ad Aleppo, ha spinto
Ankara, Riyadh e i loro alleati a valutare la possibilità di giocare il
tutto per tutto nella crisi siriana.
D’altra parte, la
liberazione di Aleppo e delle località circostanti da parte
dell’esercito siriano chiuderebbe il corridoio che collega quest’area
alla Turchia e che è stato utilizzato per assicurare i rifornimenti e il
transito di uomini verso le postazioni “ribelli”. Senza questa
componente logistica vitale, le varie formazioni dell’opposizione armata
si ritroverebbero con poche alternative oltre alla morte e alla resa.
La
loro sorte sarebbe quindi segnata, visto che i gruppi che combattono
contro il regime di Assad non hanno virtualmente alcun sostegno tra la
popolazione siriana, tanto che la maggior parte di essi sono formati da
guerriglieri provenienti da altri paesi e, appunto, hanno potuto
resistere così a lungo e ottenere successi significativi solo grazie a
sostenitori e finanziatori stranieri.
L’evoluzione del conflitto
favorevole a Damasco ha così scatenato un’offensiva su più fronti tra i
nemici del regime alauita. Quella manifestatasi in maniera più ambigua è
l’iniziativa degli Stati Uniti. A Washington, secondo alcuni
commentatori, in molti sarebbero ormai giunti ad accettare il successo
delle operazioni russe, in grado di combattere efficacemente la minaccia
dello Stato Islamico (ISIS) che, dopo essere stato più o meno
direttamente coltivato e promosso, rischiava di trasformarsi in un
boomerang per gli interessi e la sicurezza dell’Occidente.
Allo
stesso tempo, però, la rivalità ormai a tutto campo con Mosca, nonché la
speranza di ottenere il massimo ricavo strategico dal conflitto siriano
dopo gli sforzi per rimuovere Assad in questi anni, si sono tradotte in
un impegno per una qualche soluzione diplomatica della crisi. Il
risultato è per ora l’accordo, annunciato venerdì scorso dal segretario
di Stato USA, John Kerry, e dal ministro degli Esteri russo, Sergey
Lavrov, su un incertissimo piano per lo stop ai combattimenti,
significativamente non sottoscritto né da Damasco né dal Fronte al-Nusra
o dall’ISIS.
La
doppiezza dell’atteggiamento americano, dettata verosimilmente dalla
mancanza di un piano coerente per la Siria, è evidente anche
nell’approccio alle iniziative di Turchia e Arabia Saudita, i cui regimi
sono sempre più vicini a un ingresso diretto nelle ostilità.
L’eventuale impegno in territorio siriano di questi due paesi dipenderà
infatti dall’approvazione di Washington, le cui intenzioni in proposito
non appaiono per il momento chiare.
Il governo USA ha accolto
favorevolmente, almeno a parole, i progetti di intervento turco e
saudita, ma l’amministrazione Obama si rende conto perfettamente che
un’evoluzione di questo genere rischia di innescare un conflitto di
vasta scala, ovvero, secondo le parole del primo ministro russo, Dmitry
Medvedev, in riferimento a una possibile invasione delle forze di terra
di Riyadh in Siria, niente meno che “una nuova guerra mondiale”.
La
Turchia, comunque, nei giorni scorsi ha iniziato a colpire le Unità di
Protezione Popolari curde (YPG) in Siria, con la scusa che esse
avrebbero fornito armi – ottenute dagli Stati Uniti – ai guerriglieri
del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) attivi entro i propri
confini. Le operazioni militari turche hanno il chiaro obiettivo di
fermare l’offensiva contro i gruppi islamisti anti-Assad, tra cui lo
stesso ISIS, combattuti dai curdi siriani.
Non solo: le bombe di
Erdogan aggiungono un’ulteriore complicazione al conflitto, visto che le
YPG, oltre che a collaborare con Damasco e la Russia, sono alleate
degli Stati Uniti nella guerra all’ISIS. Secondo i media occidentali,
Ankara avrebbe agito nonostante le pressioni americane, ma anche di
Francia e Germania, ad astenersi dal colpire le formazioni curde.
Questi
ultimi sviluppi indicano dunque un aggravamento anche delle tensioni
tra Turchia e Stati Uniti, dovuto alle differenze tattiche nella lotta
contro il regime di Assad. Da tempo, infatti, Erdogan chiede un
intervento diretto degli USA o della NATO contro Damasco e per ottenere
ciò ha messo in atto svariate provocazioni, come l’abbattimento
deliberato di un aereo da guerra russo lo scorso novembre o la
collaborazione con i “ribelli” per condurre attacchi con armi chimiche
in Siria e attribuirne la responsabilità al regime.
L’Arabia
Saudita, intanto, ha da parte sua confermato di avere inviato i propri
jet presso la base di Incirlik, in Turchia, per intensificare l’impegno
ufficialmente contro l’ISIS in Siria. Riyadh ha però attenuato i toni in
relazione al possibile impiego di forze speciali in territorio siriano,
affermando che una simile mossa dipenderà dalla decisione dei membri
della coalizione anti-ISIS guidata dagli Stati Uniti.
Tanto per
complicare gli scenari, infine, il numero uno del Pentagono, Ashton
Carter, ha detto recentemente di aspettarsi l’invio di forze speciali
saudite e degli Emirati Arabi in Siria per assistere i combattenti
“ribelli” nello sforzo per riconquistare la città di Raqqa, considerata
la capitale dello pseudo-califfato dell’ISIS.
In definitiva, le
sconfitte subite sul campo in questi mesi dalle forze di opposizione
anti-Assad, assieme alla prospettiva di essere tagliate fuori dal
controllo di Aleppo e dalle importanti località al confine con la
Turchia, hanno provocato reazioni isteriche tra i loro sponsor, tali da
costringerli a vere e proprie acrobazie retoriche per giustificare
interventi palesemente a sostegno di quelle stesse forze fondamentaliste
che vorrebbero far credere di combattere.
Anche grazie a organi
di stampa in larga misura compiacenti, Turchia e Arabia Saudita possono
così affermare di voler fare la guerra ai terroristi dell’ISIS o del
Fronte al-Nusra attraverso una campagna militare che prende di mira
quelle stesse forze che li stanno combattendo in maniera efficace e che
potrebbero forse garantire il ritorno a un minimo di stabilità in Siria.
L’intervento
russo, prevedibilmente deciso per salvaguardare gli interessi
strategici di Mosca in Medio Oriente e non solo, ha dato insomma un
contributo fondamentale a chiarire senza più nessun ombra di dubbio le
posizioni degli attori impegnati sul fronte siriano.
Al
di là di come si valutino le operazioni militari della Russia, in ogni
caso legittime dal punto di vista del diritto internazionale, a
differenza di quelle condotte dalla “coalizione” guidata dagli USA, in
seguito ad esse le ambiguità dei governi occidentali e dei loro alleati
mediorientali hanno finito per essere smascherate.
La fine della
sanguinosa guerra in Siria, perciò, non sarà risolta dal fantomatico
tavolo delle trattative di Ginevra o da improbabili tregue negoziate
altrove, bensì sul campo e dalle forze armate di Mosca e Damasco, con
tutti i drammatici effetti collaterali del caso, come ha dimostrato il
possibile bombardamento avvenuto lunedì di una scuola e di un ospedale
di Medici Senza Frontiere rispettivamente nella province di Aleppo e
Idlib. L’unica alternativa, la cui praticabilità risulterà evidente in
tempi molto brevi, resta il coinvolgimento diretto di Turchia, Arabia
Saudita ed Emirati Arabi, se non degli stessi Stati Uniti.
Una
prospettiva di questo genere, tuttavia, avrà conseguenze difficili da
calcolare, poiché non farà che aggravare la situazione e favorire il
fondamentalismo sunnita, senza contare il rischio concreto di scatenare
una guerra totale dagli effetti potenzialmente catastrofici.
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