di Chiara Cruciati il Manifesto
Aswan è lontana dal Cairo,
le voci delle proteste arrivano attutite. O non si sentono affatto.
Eppure sono centinaia gli egiziani scesi in piazza nei giorni scorsi per
ottenere qualcosa di fondamentale: acqua. L’emergenza idrica che
colpisce il sud dell’Egitto è allarmante e solleva questioni ben più
ampie: l’inflazione incontrollabile, la carenza di infrastrutture,
l’incapacità del governo di intervenire.
Ma se la situazione peggiore si registra nei distretti
meridionali, ora anche la costa settentrionale vive la sua crisi: da
Aswan a Dakahlia, da sud a nord, la gente è scesa in strada perché di
acqua non ce n’è. E il periodo è cruciale: al caldo estivo si
aggiunge il Ramadan, mese sacro musulmano in cui l’acqua non serve più
solo alla sopravvivenza quotidiana, ma anche alla preghiera e alla
rottura del digiuno al tramonto.
Sono ormai due settimane che l’acqua potabile non è più sufficiente.
La reazione è immediata: durante le manifestazioni dei giorni scorsi la
gente ha chiuso le strade e riempito le proprie cisterne “attingendo”
da quelle statali, furiosa sia per la mancanza d’acqua che per il
silenzio dei vertici. Gli stessi che per mesi hanno annaffiato di
promesse (solo di quelle) le comunità più povere dell’Egitto millantando
una prossima soluzione ad un problema che li affligge ogni estate da
anni.
«I nostri bambini moriranno di sete ma al governo non interessa»,
diceva un manifestante sabato scorso a Dakahlia al quotidiano egiziano
al-Masry al-Youm. «Abbiamo denunciato [la questione] ai responsabili –
gli faceva eco un secondo – La compagnia dell’acqua ci ha detto che non
ha una soluzione. Possiamo solo usare le cisterne». Che però non
bastano, tanto che in molti temono presto che la rabbia verso le
autorità si trasformi in faide interne.
Le ragioni a monte della crisi degli ultimi anni sono tante,
dalla crescita della popolazione alla diga “Renaissance” costruita
dall’Etiopia sul Nilo, fino ai limiti dei sistemi di irrigazione: a
causa dell’evaporazione i canali aperti usati per i campi fanno perdere
tre miliardi di metri cubi d’acqua all’anno solo alla diga di Aswan.
E mentre l’Onu avverte del pericolo (l’Egitto rischia la siccità entro
il 2025, quando la popolazione passerà dagli attuali 82 milioni a 116),
il governo del golpe non prende provvedimenti sufficienti considerando –
aggiungono le Nazioni Unite – che negli ultimi 40 anni la media pro
capite di consumo d’acqua è diminuita del 60%. Se l’Onu indica in mille
metri cubi l’anno il minimo per la sopravvivenza umana, in Egitto ne
consumano solo 600 (per fare un paragone: in Italia ne consumiamo 2.232,
secondi solo agli Stati Uniti con 2.483).
A subirne le conseguenze sono le aree rurali: «I
tagli dell’acqua corrente dipendono da dove vivi – spiega Amir Mamdouh,
avvocato di Aswan, a Middle East Eye – Nelle zone più ricche, dove
vivono uomini d’affari, ufficiali di polizia e esercito l’acqua manca
mezz’ora al giorno. In quelle più povere per 4-5 ore. A Kom Ombo o Aswan
manca per giorni». Nonostante ciò le bollette vanno pagate lo stesso.
Lo spiega Eman (nome di fantasia) all’agenzia stampa: i contatori che
calcolano i consumi girano anche se l’acqua non arriva. E così le
famiglie pagano quello che non consumano.
L’apatia istituzionale fa il paio con l’inflazione dilagante che, in tempo di Ramadan, non fa che aumentare. E i
più colpiti sono di nuovo i poveri: secondo le statistiche della Banca
Centrale egiziana, i prezzi dei beni alimentari sono cresciuti del 12,7%
rispetto al 2015 (il tasso d’inflazione più alto degli ultimi 7 anni),
ma ci sono prodotti il cui costo è raddoppiato anche a causa della
svalutazione della sterlina egiziana sul dollaro che fa salire alle
stelle il costo delle importazioni. Come il grano e il riso, base dei
piatti tradizionali mediorientali e nordafricani.
Il governo prova a salvare la faccia o accusando i
commercianti di pompare i prezzi o mandando in giro mercati mobili in
cui prodotti di base vengono venduti a prezzi scontati. Ma è una pezza insufficiente alla crisi economica, mai realmente affrontata nel post-Mubarak.
La rabbia della gente monta ogni giorno di più. Non
solo al Cairo, dove attivisti e giornalisti si battono per libertà e
democrazia, ma anche nelle aree rurali dove si lotta spesso per una vita
dignitosa. Il regime dovrebbe ascoltare le loro parole. Come quelle di
Mohammed el-Sayed di Aswan, raccolte dall’agenzia Masr al-Arabiya: «Come
può il presidente al-Sisi dire ‘Lunga vita all’Egitto’ quando noi
moriamo di sete? Non siamo anche noi cittadini di questo paese?».
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