Un ottimo e sintetico articolo apparso sul Corriere della Sera, dal titolo inequivocabile, centra uno dei problemi-chiave del mondo contemporaneo: quale rapporto c’è tra necessità del capitale e risoluzione dei bisogni? Nessuno, è la risposta implicita.
In realtà l’articolo si propone un obiettivo più limitato (Per quanto tempo ancora ci potremo permettere di curare i tumori?, appunto), ma i meccanismi che mette in luce sono identici in qualsiasi settore cui si si rivolga l’attenzione.
Anche volendo restare nel solo ambito sanitario, infatti, scopriamo quel che sapevamo:
a) i prezzi dei farmaci (antitumorali, ma anche gli altri) non hanno alcun rapporto con i costi di produzione. Saltano dunque alcuni dei criteri fondamentali della stessa economia liberale (rapporto domanda-offerta, costi-prezzi-ricavi, ecc). I prezzi negli Usa sono fissati “dirigisticamente” dalle stesse multinazionali del farmaco, lo Stato si preoccupa solo di verificare che il farmaco sia utile per le patologie indicate. Ma negli Usa la sanità è di fatto completamente privata: ti curi se hai i soldi per farlo, sennò crepi. In Europa ci sono ancora dei sistemi sanitari nazionali, c’è un minimo tentativo di calmierare l’arbitrarietà folle di certi prezzi (è lo Stato a dover pagare...), ma i tagli imposti dalle politiche di austerità stanno producendo la stessa situazione Usa: se hai i soldi ti puoi curare, sennò crepi. Il problema è che, anche per chi un po’ di soldi li ha, quei prezzi sempre in rialzo stanno diventando insostenibili. Anche perché le terapie antitumorali sono di lunga durata.
b) la ragione del costante aumento dei prezzi farmaceutici è nella dipendenza dalla finanza: «Le multinazionali hanno bisogno di attrarre investimenti per la ricerca così devono dimostrare che ogni anno fatturano almeno il 10 per cento in più rispetto a quello precedente. Come? Aumentando, appunto, il prezzo dei farmaci». Il meccanismo, dunque, è indipendente dalla materia trattata, ma totalmente dipendente dalla logica del fatturato crescente. Vale per i farmaci come per le automobili, per il cibo, per l’elettronica di consumo (con dinamiche di mercato diverse, ma convergenti). Per i farmaci, ovviamente, c’è in più la potentissima molla della volontà di vivere che rende molto meno attenti ai prezzi...
c) non esistono soluzioni in ambito capitalistico. La pur ottima giornalista si ferma infatti davanti a una realtà immodificabile senza che qualcuno dei protagonisti ci rimetta l’osso del collo: “due considerazioni. La prima: non si può fare a meno dell’industria farmaceutica. La seconda: l’industria deve prendere atto che i sistemi pubblici e privati sono a fine corsa e che occorrono correttivi per cambiare rotta”.
Tradotto in pratica: le industrie dovrebbero diventare “responsabili” e contenere i prezzi in una misura che non devasti i sistemi sanitari nazionali o i patrimoni privati di quanti si possono permettere di pagare alcune cure.
Dov’è l’errore? Nella premessa (“non si può fare a meno dell’industria farmaceutica”), che non contempla il caso – pur esistente in diversi paesi del mondo – di un’industria farmaceutica pubblica. È banale dire che per produrre un farmaco serve ricerca scientifica (con costi che possono essere calcolati solo ex post, a risultati raggiunti) e una struttura industriale. Ma si possono avere le due cose sia in forma privatistica, sia in forma pubblica. La differenza a monte diventa sempre una differenza a valle, ovvero prezzi più bassi.
E paradossalmente sono le stesse industrie farmaceutiche a livello mondiale a render noto, nei loro report, che il tempo di rientro dalla spesa per ricerca arriva mediamente ai 18 mesi, “il resto è solo guadagno”. E invece tutti i farmaci vengono venduti in base a un brevetto dalla durata pluridecennale (a seconda dei vari continenti), con costi spesso crescenti anziché in riduzione.
Il paradosso apparente è palpabile: di questo passo le multinazionali del farmaco arriveranno a produrre antitumorali che pochissimi al mondo potrebbero comprare, in una spirale di prezzi che punta alle stelle perché il mercato solvibile si va riducendo drasticamente man mano che il prezzo sale (se l’aspirina costasse 1.000 euro a pasticca, ben pochi ne farebbero uso). Una follia anche per un capitalista avido...
La “legge” che emerge da questa dinamica può esser nominata in molti modi. Ma è comunque una dimostrazione empirica di come, in questo inizio di terzo millennio, i “rapporti di produzione” capitalistici siano in violento conflitto con lo sviluppo delle “forze produttive”. Ovvero: con le nuove tecnologie (dai robot in fabbrica alla farmaceutica) si può fare praticamente tutto, e a costo sempre più basso; ma quel che si può fabbricare trova un mercato sempre più ristretto, quanto a redditi disponibili. E in ogni caso i bisogni delle popolazioni – stiamo parlando di cure sanitarie per restare in vita – non costituiscono una variabile di cui l’economia capitalistica possa tener conto.
Se hai i soldi ti curi, sennò crepi...
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Per quanto tempo ancora ci potremo permettere di curare i tumori?
I prezzi delle terapie oncologiche sono in continua crescita. Le aziende farmaceutiche si appellano alla ricerca, ma i sistemi sanitari sono al collasso. Le ipotesi allo studio per affrontare una crisi annunciata
di Adriana Bazzi (inviata a Chicago dal Corriere della Sera)
C’è un effetto collaterale delle nuove terapie anticancro che gli americani chiamano «financial toxicity», tossicità finanziaria. La sua incidenza è maggiore negli Stati Uniti, ma non risparmia i Paesi europei, Italia compresa. Il problema è che gli antitumorali costano sempre di più e i pazienti rischiano di non avere più accesso alle cure. L’esplosione dei costi è anche dovuta ai nuovissimi immunomodulanti che vanno somministrati a tutti e per sempre, perché non si possono ancora selezionare i pazienti a differenza delle targeted therapy (cioè dei farmaci a bersaglio molecolare, costosi sì, ma che sono prescritti in maniera mirata in base alle caratteristiche genetiche del tumore e ai biomarcatori). Un anno di terapia con queste molecole, negli Usa, costa 100 mila dollari a paziente (circa 90 mila euro).
I parametri degli Stati Uniti
Di nuovi farmaci e di costi si è parlato all’Asco, il Congresso della Società Americana di Oncologia Medica, che ha visto a Chicago la partecipazione di oltre 30 mila esperti da tutto il mondo. Negli Stati Uniti sono le aziende che decidono il prezzo di vendita del prodotto, la sanità è in mano alle assicurazioni e spesso i pazienti devono pagare di tasca propria extra- costi per le medicine. E i medici hanno tutto l’interesse a usare farmaci costosi perché sono loro che li comprano e poi li rivendono ai pazienti, guadagnandoci. «In America esiste un algoritmo — spiega Pierfranco Conte, direttore dell’Oncologia Medica all’Università di Padova — che viene sottoposto ai pazienti e suggerisce loro di dare un voto ad alcuni parametri fra cui: l’efficacia del farmaco antitumorale che viene loro proposto, gli effetti collaterali e, infine, il costo. In base al punteggio ottenuto, il medico prescrive la cura».
Perché il prezzo è alto (ma non sempre è giustificato)
Diverso è il discorso per i Paesi europei con sistemi sanitari pubblici, dove sono le istituzioni a contrattare il prezzo con le aziende e a decidere la rimborsabilità del farmaco. Le terapie sono, comunque, care: oggi curare un malato di cancro costa, in media, cinquantamila euro all’anno. Occorre, perciò, ripensare alle modalità di «pricing» cioè ai parametri attraverso i quali si decide il prezzo di un farmaco e ai correttivi per ridurne i costi. L’industria ha sempre sostenuto che il prezzo dipende dagli elevati investimenti in ricerca e ai fallimenti cui vanno incontro molte molecole prima di arrivare in clinica. Ma oggi sono entrati in gioco altri parametri: quanto, per esempio, un farmaco può far risparmiare su altri interventi terapeutici, quanto aumenta la sopravvivenza di un paziente e a quali condizioni per la qualità della vita. «C’è però un dato di fatto, certificato dai Report delle industrie farmaceutiche a livello mondiale — continua Conte —. Già dopo 18 mesi dall’immissione in commercio di un farmaco l’industria rientra dagli investimenti. Il resto è tutto guadagno».
Ma perché i prezzi sono così elevati? «Le multinazionali — argomenta Conte — hanno bisogno di attrarre investimenti per la ricerca così devono dimostrare che ogni anno fatturano almeno il 10 per cento in più rispetto a quello precedente. Come? Aumentando, appunto, il prezzo dei farmaci». A questo punto due considerazioni. La prima: non si può fare a meno dell’industria farmaceutica. La seconda: l’industria deve prendere atto che i sistemi pubblici e privati sono a fine corsa e che occorrono correttivi per cambiare rotta. «In tutti i Paesi del mondo occidentale la mortalità per molti tumori è diminuita nonostante l’aumento dell’incidenza — commenta Conte —. E questo è in parte attribuibile alle nuove terapie, ma solo l’industria, non l’accademia, ha le risorse finanziarie per svilupparle».
Che cosa si può fare
Quali sono allora i correttivi? «Va ridiscusso tutto il processo di sperimentazione, di approvazione e di accesso ai farmaci — continua Conte —. In primo luogo non ha senso che le autorità regolatorie, come l’Fda americana (la Food and Drug Administration) o l’Ema (l’Agenzia europea per i farmaci), che approvano l’immissione in commercio dei farmaci, non si preoccupino dei costi. Sono loro che dovrebbero fissare il valore del beneficio clinico, come l’aumento di sopravvivenza o il miglioramento della qualità della vita, e includerlo nella valutazione economica». Ma questo aspetto, da solo, non è sufficiente: «Occorre obbligare l’industria a finanziare studi post-marketing — conclude Conte —. In altre parole studi che valutino l’efficacia dei farmaci nel mondo reale e cioè su pazienti non selezionati (come, invece, sono negli studi clinici) che possono avere caratteristiche diverse: essere anziani, per esempio, o seguire altri trattamenti per patologie concomitanti che possono interferire con l’effetto dell’antitumorale. Solo così si può valutare l’effettivo beneficio di una terapia».
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