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29/06/2016

“La Brexit può mettere a rischio anche l’euro”

Sondaggi smentiti, borse in caduta libera e il premier britannico David Cameron che annuncia le dimissioni: il referendum sancisce la vittoria dei “sì” all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Di questo risultato storico e delle sue possibili conseguenze parliamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica presso l’Università del Sannio e promotore del “monito degli economisti” pubblicato nel 2013 sul Financial Times, un documento che viene oggi ricordato per l’estremo scetticismo sulla tenuta del processo di unificazione europea.

Professore, i sondaggi e i mercati davano per scontata la vittoria del “no” all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. L’onda della Brexit invece non si è fermata. Che lezione possiamo trarre da questo esito dai più definito inatteso?

«Non era inatteso per tutti. I sondaggi, in casi simili, non aiutano. Quanto ai mercati, smettiamola di pensare che gli speculatori siano dei veggenti: come diceva il premio Nobel James Tobin, al di là di rare eccezioni di solito quelli non sanno guardare oltre i prossimi dieci minuti».

Il “leave” ha vinto anche nel collegio elettorale della deputata laburista Jo Cox, il cui omicidio si pensava avrebbe spostato consensi a favore dell’Unione...

«È stato un delitto atroce che ha inquinato gli ultimi giorni della campagna referendaria. Ma trovo ingenuo ritenere che il corso degli avvenimenti storici possa esser deviato da singoli episodi, per quanto efferati: la guerra dei trent’anni non fu scatenata dalla defenestrazione dei governatori imperiali, e il primo conflitto mondiale non fu certo causato da Gavrilo Princip. La verità è che la vittoria della Brexit è solo uno degli innumerevoli riflessi di una tendenza destabilizzante più profonda, di lungo periodo, nella quale i fattori economici hanno un ruolo importante».

La crisi, la disoccupazione, l’immigrazione anche interna all’Unione Europea?

«L’immigrazione è stata al centro del dibattito referendario, i partiti xenofobi ci hanno sguazzato e ci guadagneranno sul piano politico. Ma la crescita dei flussi migratori, a ben guardare, è solo il sintomo di un problema più di fondo: un’eccezionale divaricazione tra i tassi di occupazione anche nei diversi Paesi dell’Unione europea, che costringe tanti lavoratori a spostarsi dalle aree in crisi verso quelle caratterizzate da andamenti economici migliori o comunque meno disastrosi».

Quindi tra le cause di fondo della Brexit ci sarebbero gli squilibri economici tra i paesi dell’Unione?

«Ovviamente sì. Gli opinionisti che in queste ore riducono la questione a una querelle interna ai Tories, tra Cameron e Johnson, dovrebbero dedicarsi al gossip, non alla politica. Chi vuol capire davvero cosa sia successo dovrebbe interrogarsi sui motivi per cui pezzi rilevanti della società britannica, rappresentativi dell’industria del Nord e non solo, hanno scelto di andare contro la City di Londra aderendo alla campagna per l’uscita dall’Ue. Una delle ragioni è che in Gran Bretagna si sta diffondendo una crescente preoccupazione verso la tendenza del Paese ad importare molti più beni e servizi di quanti ne riesca ad esportare. Finora questo deficit è stato coperto con ingenti prestiti di capitale dall’estero, ma una tendenza del genere non può durare all’infinito e prima o poi sfocerà in una crisi commerciale. Molti considerano il deficit britannico come uno specchio dell’enorme surplus commerciale tedesco ma ritengono che la mera svalutazione della sterlina sarebbe insufficiente a rimettere in equilibrio gli scambi: per questo vedono la Brexit come un’occasione per intervenire, al limite anche rivedendo gli accordi commerciali con la Germania e il resto della Ue».

Dobbiamo cioè aspettarci che la Gran Bretagna possa virare verso la via del protezionismo contro la Ue?

«Non lo sappiamo, è presto per dirlo. Di certo, negli ultimi tempi nel Regno Unito circolano idee che non sarebbero piaciute a David Ricardo, il grande teorico del libero commercio. Ma non è solo un problema britannico: la Commissione europea ha calcolato che dal 2008 ad oggi sono state introdotte più di ottocento nuove misure protezionistiche a livello mondiale. È un effetto degli squilibri causati dal liberismo sfrenato degli anni passati e della grande recessione che ne è seguita. Che ci piaccia o meno, la crisi della globalizzazione fa parte di questa fase storica, e il travaglio del processo di unificazione europea costituisce un esempio emblematico».

Il leader dei Labour, Jeremy Corbyn, aveva sostenuto la campagna per il “No” all’uscita. A quanto pare molti lavoratori, elettori storici del partito laburista, gli sono andati contro.


«Non amo essere irriguardoso, ma temo che gli eredi della tradizione del movimento operaio non ci stiano capendo molto di questa fase dello sviluppo capitalistico».

Però Corbyn ha conquistato il Labour proprio chiedendo di archiviare le politiche liberiste figlie della “Terza via” blairiana, che in Italia sono invece ancora un modello, rinnovato, per il Pd di Matteo Renzi.

«Vero, ed è stata una novità positiva nella visione laburista della politica economica. Ma bisognerebbe rendersi conto che le svolte interne che non siano accompagnate da una visione dei rapporti internazionali realistica e adatta ai tempi, rischiano rapidamente di entrare in contraddizione e di esaurire la loro forza. Il punto da comprendere è che il regime di accumulazione del capitale sta cambiando, c’è una lotta in corso tra le tendenze liberoscambiste del grande capitale e le pulsioni protezioniste dei proprietari più piccoli e maggiormente in affanno. Invece di incunearsi in questo scontro con un punto di vista autonomo e delle proposte originali, gli esponenti della sinistra si gettano ogni volta tra le braccia dell’una o dell’altra parte in causa come dei pugili suonati. Per il lavoro e per le sue residue rappresentanze è un’epoca durissima, ma proprio per questo forse sarebbe ora di avviare un lavoro collettivo per rimettere in moto il pensiero critico e allacciarsi alla realtà del tempo presente».

L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione potrebbe creare problemi anche alla sopravvivenza dell’euro?

«Vedremo, di sicuro questo episodio aprirà un’altra crepa sulle mura del fortino monetario creato dalla Bce. Se ci saranno forti ripercussioni sul settore bancario la situazione potrebbe precipitare anche nei rapporti interni all’eurozona».

All’inizio della crisi lei propose uno “standard retributivo” che interrompesse la competizione salariale al ribasso e aiutasse a ridurre il surplus tedesco e a riequilibrare i rapporti interni all’eurozona. Funzionerebbe ancora, o per fermare l’onda del Brexit è troppo tardi?

«L’idea di uno “standard del lavoro sulla moneta” resta valida in generale, come tassello di una possibile visione lavorista della crisi internazionale. Ma come possibile salvagente per l’euro sarebbe tardiva. Allo stadio in cui siamo i problemi dell’eurozona si sono incancreniti. Con il governo tedesco ostile a qualsiasi mutualizzazione dei debiti, l’Unione non dispone di strumenti adeguati per affrontare una nuova crisi bancaria. Non so se sarà la Brexit, ma l’intero progetto di unificazione europea potrebbe cadere ormai anche con una sola spallata».

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