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28/06/2016

Noam Chomsky: Trump e il crollo della società americana

Su Truth-out, una lunga intervista a Noam Chomsky, emerito linguista e intellettuale dissidente americano. Chomsky analizza il successo di Trump come effetto delle trasformazione indotta dalla trentennale lotta di classe liberista contro la working class americana, e fa una fotografia dei punti di faglia dell’equilibrio globale in vista della prossima crisi. Quello che emerge dal suo racconto è la lotta di classe dichiarata dalle élite occidentali contro la propria stessa società, e come il motore primo di questa guerra sia la potenza egemone, gli Stati Uniti, in cui potere statale e capitale oligarchico sono ormai un tutt’uno.

di CJ Polychroniou, 12 giugno 2016

Gli Stati Uniti stanno affrontando tempi incerti. Anche se restano l’unica superpotenza globale, non sono più in grado di influenzare eventi e risultati a proprio piacimento, almeno non del tutto. La frustrazione e la preoccupazione per il rischio di disastri imminenti sembrano superare di gran lunga le speranze degli elettori statunitensi per un ordine mondiale più razionale e giusto. Nel frattempo, secondo Noam Chomsky, la crescita e la popolarità di Donald Trump è dovuta al fatto che la società americana sta collassando.

In questa intervista esclusiva con Truthout, Noam Chomsky prende in esame gli sviluppi contemporanei sia negli Stati Uniti che in tutto il mondo e sfida i punti di vista predominanti sulla lotta di classe, il neoliberismo come risultato delle leggi economiche, il ruolo degli Stati Uniti come potenza globale, lo stato delle economie emergenti e il potere della lobby israeliana.

CJ Polychroniou: Noam, lei ha detto che l’ascesa di Donald Trump è in gran parte dovuta al tracollo della società americana. Che cosa intende con questo?

Noam Chomsky: I programmi statali-aziendali degli ultimi 35 anni o giù di lì hanno avuto effetti devastanti sulla maggior parte della popolazione, e i risultati più diretti sono stati la stagnazione, il declino e il netto avanzamento della disuguaglianza. Questo ha creato paura e ha fatto si che la gente si sentisse isolata, indifesa, vittima di forze potenti che non comprende né può influenzare. Il crollo non è causato da leggi economiche. Sono scelte politiche, una sorta di guerra di classe avviata dai ricchi e potenti contro la popolazione attiva e i poveri. Questo è ciò che definisce il periodo neoliberista, non solo negli USA ma in Europa e altrove. Trump è attraente per coloro che sentono e sperimentano il collasso della società americana – per profondi sentimenti di rabbia, paura, frustrazione, disperazione, probabilmente tra settori della popolazione che stanno vedendo un aumento della mortalità, qualcosa di inaudito eccetto che in guerra.

La guerra di classe rimane violenta e unilaterale come sempre. L’amministrazione neoliberista nel corso degli ultimi trent’anni, a prescindere se fosse in carica un governo repubblicano o democratico, ha intensificato enormemente i processi di sfruttamento e indotto divari sempre più grandi tra ricchi e poveri nella società americana. Inoltre, non vedo ritrarsi la politica di classe neoliberista, nonostante le opportunità che si sono aperte a causa dell’ultima crisi finanziaria e con un democratico centrista alla Casa Bianca.

Le classi imprenditoriali, che fondamentalmente controllano il paese, hanno un’elevata coscienza di classe. Non è una distorsione descriverli come rozzi marxisti, con valori e dedizione invertite. Solo 30 anni fa il capo del più potente sindacato riconobbe e criticò la “lotta di classe unilaterale” inesorabilmente condotta dal mondo imprenditoriale. E’ riuscita a raggiungere i risultati che descrivi. Tuttavia, le politiche neoliberiste sono nel caos. Sono arrivate a danneggiare la parte più potente e privilegiata (che all’inizio ha accettato solo parzialmente questo stato di cose per sé stessa), di conseguenza non possono più essere sostenute.

E’ piuttosto sorprendente osservare che le politiche che i ricchi e i potenti adottano per se stessi sono l’esatto contrario di quelle che impongono ai deboli e poveri. Così, quando l’Indonesia attraversa una profonda crisi finanziaria, le istruzioni dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti (attraverso il Fondo Monetario Internazionale) sono di pagare il debito (verso l’Occidente), alzare i tassi di interesse e quindi rallentare l’economia, privatizzare (in modo che le aziende occidentali possano acquistare le loro ricchezze), e il resto del dogma neoliberista. Per noi, le politiche sono di dimenticarci del debito, ridurre i tassi di interesse a zero, nazionalizzare (ma senza usare la parola) e versare fondi pubblici nelle tasche delle istituzioni finanziarie, e così via. Colpisce inoltre che questo drammatico contrasto passi inosservato, insieme al fatto che queste politiche sono in accordo con la testimonianza della storia economica degli ultimi secoli, la ragione principale per la separazione tra il primo e il terzo mondo.

La politica di classe finora è stata a malapena sotto attacco. L’amministrazione Obama ha evitato misure anche minime per porvi fine e invertire l’attacco ai sindacati. Obama ha anche indirettamente indicato il suo sostegno a questo tipo di attacco, in modo interessante. Vale la pena ricordare che il suo primo viaggio per dimostrare la sua solidarietà con i lavoratori (chiamati “la classe media”, nella retorica statunitense) è stato allo stabilimento Caterpillar in Illinois. È andato lì a dispetto delle preghiere della chiesa e delle organizzazioni per i diritti umani, a causa del ruolo grottesco di Caterpillar nei territori occupati israeliani, dove è uno strumento privilegiato nella devastazione della terra e dei villaggi del “popolo sbagliato”. Ma non sembra essere stato notato neanche che, adottando le politiche anti-operaie di Reagan, Caterpillar è diventata la prima società industriale da generazioni a spezzare un sindacato potente impiegando crumiri, in radicale violazione delle convenzioni internazionali sul lavoro. Questo lasciò gli Stati Uniti i soli nel mondo industriale, insieme col Sud Africa dell’apartheid, a tollerare tali mezzi per indebolire i diritti dei lavoratori e la democrazia – e ora presumo gli Stati Uniti siano da soli. E’ difficile credere che la scelta sia stata casuale.

C’è una convinzione diffusa, almeno tra alcuni strateghi politici ben noti, che le elezioni americane non siano definite dai problemi – anche se la retorica è che i candidati hanno bisogno di capire l’opinione pubblica per corteggiare gli elettori – e naturalmente sappiamo che i media forniscono una serie di informazioni false su questioni critiche (prendiamo il ruolo dei mass media prima e durante il lancio della guerra in Iraq), o omettono del tutto qualsiasi informazione (sui temi del lavoro, per esempio). Tuttavia, vi è una forte evidenza che indica che il pubblico americano si preoccupa per le grandi questioni di politica sociale, economica ed estera che il paese affronta. Ad esempio, secondo una ricerca pubblicata alcuni anni fa dall’Università del Minnesota, gli americani classificano l’assistenza sanitaria tra i problemi più importanti del paese. Sappiamo anche che la stragrande maggioranza degli americani è a favore dei sindacati. O che giudicava la guerra al terrore un fallimento totale. Alla luce di tutto questo, qual è il modo migliore per capire il rapporto tra media, politica e opinione pubblica nella società americana contemporanea?

E’ ben noto, che le campagne elettorali sono concepite in modo tale da marginalizzare le questioni e concentrarsi sulla personalità, lo stile retorico, il linguaggio del corpo, ecc. e ci sono buone ragioni. I dirigenti di partito leggono i sondaggi, e sono ben consapevoli del fatto che su una serie di questioni importanti, entrambi i partiti sono ben più a destra della popolazione – non a caso, essi dopo tutto, sono partiti del mondo imprenditoriale. I sondaggi mostrano che una grande maggioranza degli elettori disapprova, ma quelle sono le uniche scelte loro offerte nel sistema elettorale gestito dal business, in cui il candidato finanziato più pesantemente vince quasi sempre.

Allo stesso modo, i consumatori potrebbero preferire un trasporto di massa decente alla scelta tra due automobili, ma questa opzione non è fornita dai pubblicitari – anzi, dai mercati. La pubblicità in TV non fornisce informazioni sui prodotti; piuttosto, distribuisce illusioni e immagini. Le stesse aziende pubblicitarie che cercano di indebolire i mercati, garantendo che consumatori disinformati faranno scelte irrazionali (contrariamente ai modelli economici astratti), parimenti cercano di sovvertire la democrazia. E i dirigenti aziendali sono ben consapevoli di tutto questo. Figure di spicco del settore hanno gioito nella stampa economica affermando che stanno commercializzando candidati come materie prime fin dai tempi di Reagan, e questo è anche il loro più grande successo, che predicono fornirà un modello per i dirigenti aziendali e l’industria del marketing in futuro.

Lei ha citato il sondaggio del Minnesota per l’assistenza sanitaria. E’ tipico. Per decenni, i sondaggi hanno dimostrato che l’assistenza sanitaria è in testa o quasi tra le preoccupazioni del pubblico – non a caso, dato il fallimento disastroso del sistema di assistenza sanitaria privato, con costi pro capite alti due volte quelli di paesi comparabili e con alcuni tra i risultati peggiori. I sondaggi mostrano anche costantemente che ampie maggioranze vogliono un sistema nazionalizzato, denominato “pagatore singolo”, un po’ come il sistema Medicare esistente per gli anziani, che è molto più efficiente rispetto ai sistemi privatizzati o a quello introdotto da Obama. Quando si menziona tutto questo, cosa che avviene raramente, si dice che è “politicamente impossibile” o “manca il sostegno politico” – il che significa che l’industria assicurativa e farmaceutica, e altre che beneficiano del sistema attuale, sono in disaccordo. Abbiamo ottenuto un interessante spaccato sul funzionamento della democrazia americana dal fatto che nel 2008, a differenza del 2004, i candidati democratici – prima Edwards, poi Clinton e Obama – si fecero avanti con proposte che almeno iniziavano ad avvicinarsi a ciò che l’opinione pubblica ha voluto per decenni. Perché? Non a causa di un cambiamento di atteggiamento dell’opinione pubblica, che è rimasta stabile. Piuttosto, l’industria manifatturiera stava venendo danneggiata dal costoso e inefficiente sistema sanitario privatizzato, e dagli enormi privilegi concessi per legge alle industrie farmaceutiche. Quando un ampio settore del capitale oligopolistico favorisce qualche programma, diventa “politicamente possibile” e ha “sostegno politico”. Che queste dinamiche non vengano notate è rivelatore come i fatti stessi.

Più o meno lo stesso vale su molte altre questioni, nazionali ed internazionali.

L’economia statunitense si trova ad affrontare una miriade di problemi, anche se i profitti per i ricchi e le aziende sono tornati ormai da tempo ai livelli antecedenti alla scoppio della crisi finanziaria del 2008. Ma il singolo problema sul quale la maggior parte degli analisti accademici e finanziari sembrano concentrarsi, in quanto più critico, è il debito pubblico. Secondo gli analisti mainstream, il debito degli Stati Uniti è già fuori controllo, e questo è il motivo per cui hanno costantemente messo in discussione i grandi pacchetti di stimolo economico per rilanciare la crescita, sostenendo che tali misure non faranno altro che indebitare ancora di più gli Stati Uniti. Qual è il probabile impatto che che la crescita del debito avrà sull’economia americana e sulla fiducia degli investitori internazionali, in caso di una nuova crisi finanziaria?

Nessuno lo sa veramente. Il debito è stato di gran lunga superiore in passato, in particolare dopo la seconda guerra mondiale. Ma quella fase è stata superata grazie alla notevole crescita economica sotto l’economia semi-pianificata del tempo di guerra. Così sappiamo che se lo stimolo pubblico incoraggia una crescita economica sostenuta, il debito può essere controllato. E ci sono altri meccanismi, come ad esempio l’inflazione. Ma il resto, per la gran parte, è congettura. I principali finanziatori – in primo luogo la Cina, il Giappone, i produttori di petrolio – potrebbero decidere di spostare i loro fondi altrove per avere profitti più elevati. Ma vi sono pochi segnali di questi sviluppi, e non sono troppo probabili. I finanziatori hanno interesse a sostenere l’economia degli Stati Uniti per le proprie esportazioni. Non c’è modo di fare previsioni sicure, ma sembra chiaro che il mondo intero è in una situazione precaria, per non dire altro.

Lei sembra credere, a differenza di tanti altri, che gli Stati Uniti restano una superpotenza globale economica, politica e, naturalmente, militare anche dopo l’ultima crisi – e anche io ho la stessa impressione, poiché il resto delle economie del mondo non solo non può in alcun modo sfidare l’egemonia degli Stati Uniti, ma guarda ad essi come ad un salvatore dell’economia globale. Quali vede come vantaggi competitivi del capitalismo statunitense rispetto all’economia dell’Unione Europea e alle economie emergenti in Asia?

La crisi finanziaria del 2007-08 in larga misura ha avuto origine negli Stati Uniti, ma i suoi principali concorrenti – Europa e Giappone – hanno finito per soffrirne più seriamente, e gli Stati Uniti sono rimasti il paese scelto dagli investitori che sono alla ricerca di sicurezza in un momento di crisi. I vantaggi degli Stati Uniti sono sostanziali. Hanno ampie risorse interne. Sono unificati, un fatto importante. Fino alla guerra civile nel 1860, l’espressione “Stati Uniti” era plurale (come è ancora nelle lingue europee). Ma da allora l’espressione è stata singolare, in inglese standard. Le politiche pianificate a Washington dal potere statale e del capitale oligopolistico si applicano a tutto il paese. Questo è molto più difficile in Europa. Un paio di anni dopo lo scoppio della più recente crisi finanziaria globale, la task force della Commissione Europea ha pubblicato un rapporto dicendo che “l’Europa ha bisogno di nuovi organismi che monitorino il rischio sistemico e coordinino la supervisione delle istituzioni finanziarie attraverso il mosaico degli enti di supervisione regionali”, anche se la task force, guidata allora da un ex banchiere centrale francese, “si è fermata ben prima di suggerire un unico controllore europeo” – che gli Stati Uniti possono avere in qualsiasi momento vogliano. Per l’Europa, sarebbe “una missione quasi impossibile”, ha detto il leader della task force. [Diversi] analisti, tra cui il Financial Times, hanno descritto tale obiettivo come politicamente impossibile, “un passo troppo lungo per molti Stati membri, riluttanti a cedere autorità in questo settore”. Ci sono molti altri vantaggi nell’unità. Alcuni degli effetti pericolosi dell’incapacità europea di coordinare le reazioni alla crisi sono stati ampiamente discussi dagli economisti europei.

Le radici storiche di queste differenze tra Europa e Stati Uniti sono conosciute. Secoli di... conflitti hanno imposto un sistema di stati-nazione in Europa, e l’esperienza della seconda guerra mondiale ha convinto gli europei di dover abbandonare il loro sport tradizionale, scannarsi l’un l’altro, perché il prossimo tentativo sarebbe stato l’ultimo. Così abbiamo ciò che agli scienziati politici piace chiamare “una pace democratica”, anche se non è affatto chiaro se la democrazia abbia molto a che fare con essa. Al contrario, gli Stati Uniti sono uno stato colonizzatore-coloniale, che [ha ucciso] la popolazione indigena e ha spedito ciò che ne rimaneva nelle “riserve”, mentre conquistava metà del Messico, espandendosi poi oltre. Molto più che in Europa, la ricca diversità interna è stata distrutta. La guerra civile ha cementato l’autorità centrale, e in altri ambiti, parimenti, l’uniformità: lingua nazionale, modelli culturali, enormi progetti di ingegneria sociale tra stato e aziende, come la sub-urbanizzazione della società, il massiccio sovvenzionamento centrale dell’industria avanzata attraverso ricerca e sviluppo, acquisizione e altri meccanismi, e molto altro.

Le nuove economie emergenti dell’Asia hanno problemi interni incredibili, sconosciuti in Occidente. Sappiamo più sull’India che sulla Cina, in quanto è una società più aperta. Ci sono buone ragioni per le quali si classifica al 130° posto nell’Indice di Sviluppo Umano (dove all’incirca era anche prima delle parziali riforme neoliberiste); la Cina è 90°, e la classifica potrebbe essere peggiore se se ne sapesse di più. Questo scalfisce solo la superficie. Nel 18 ° secolo, la Cina e l’India sono stati i centri commerciali e industriali del mondo, con sofisticati sistemi di mercato, livelli di salute avanzati per gli standard comparativi, e così via. Ma la conquista imperiale e le politiche economiche (intervento dello stato per i ricchi, libero mercato spinto giù per la gola ai poveri) li ha lasciati in condizioni miserabili. È importante notare che l’unico paese del Sud [del mondo] che si è sviluppato è stato il Giappone, l’unico paese che non è stato colonizzato. La correlazione non è casuale.

Gli Stati Uniti dettano ancora le politiche del FMI?

E’ poco chiaro, ma la mia impressione è che gli economisti del FMI dovrebbero essere, forse sono, in qualche modo indipendenti dai politici dell’organizzazione. Nel caso della Grecia, e dell’austerità in generale, gli economisti se ne sono usciti con alcuni documenti fortemente critici verso i programmi di Bruxelles, ma i politici sembrano averli ignorati.

Sul fronte della politica estera, la “guerra al terrore” sembra essere un’impresa senza fine e, come con il mitologico mostro Idra, quando si taglia una testa, ne spunta fuori una nuova. Massicci interventi militari possono spazzare via le organizzazioni terroristiche come l’ISIS?

Al suo insediamento, Obama ha ampliato le forze di intervento e intensificato le guerre in Afghanistan e in Pakistan, proprio come aveva promesso che avrebbe fatto. C’erano opzioni pacifiche, alcune raccomandate proprio dal mainstream: in Foreign Affairs, per esempio. Ma non sono state prese in considerazione. Il primo messaggio del presidente afghano Hamid Karzai a Obama, rimasto senza risposta, era una richiesta di fermare i bombardamenti sui civili. Karzai ha inoltre informato la delegazione delle Nazioni Unite di volere un calendario per il ritiro delle truppe straniere (intendendo quelle statunitensi). E’ caduto immediatamente in disgrazia a Washington, e di conseguenza, dall’essere il preferito dai media, è diventato “inaffidabile”, “corrotto”, ecc – il che non era più vero di quanto lo fosse quando venne festeggiato come “il nostro uomo” a Kabul. Obama ha inviato molte più truppe e intensificato i bombardamenti su entrambi i lati del confine afghano-pakistano – la linea Durand, un confine artificiale stabilito dagli inglesi, che taglia l’area pashtun in due e che i popoli non hanno mai accettato. L’Afghanistan nel passato ha spesso premuto per cancellarlo.

Questa è la componente centrale della “guerra al terrore”. Era certo che stimolasse il terrore, proprio come l’invasione dell’Iraq, e come in termini generali succede col ricorso alla forza. La forza può vincere. L’esistenza degli Stati Uniti ne è un esempio. I russi in Cecenia ne sono un altro. Ma deve essere schiacciante, e ci sono probabilmente troppi tentacoli del mostro terrorista da spazzare via, mostro che è stato in gran parte creato da Reagan e dai suoi collaboratori, anche se alimentato da altri. L’ISIS è il più recente, ed è una organizzazione molto più brutale di al-Qaeda. E’ anche diversa, nel senso che ha rivendicazioni territoriali. Può essere spazzata via attraverso una massiccia occupazione di truppe terrestri, ma questo non porrà fine all’emergere di organizzazioni con mentalità simile. La violenza genera violenza.

Le relazioni degli Stati Uniti con la Cina sono passate attraverso diverse fasi nel corso degli ultimi decenni, ed è difficile capire a che punto stiano oggi. Prevede che i futuri rapporti sino-americani miglioreranno o si deterioreranno?

Gli Stati Uniti hanno un rapporto di amore-odio con la Cina. I salari tremendi, le condizioni di lavoro, e la mancanza di vincoli ambientali in Cina sono un grande vantaggio per Stati Uniti e altri produttori occidentali che trasferiscono le operazioni là, e per l’enorme settore della vendita al dettaglio, che può ottenere merci a basso costo. E gli Stati Uniti si appoggiano ora alla Cina, al Giappone e ad altri paesi per sostenere la propria economia. Ma la Cina pone anche problemi. Non si fa intimidire facilmente... Quando gli Stati Uniti agitano i pugni verso l’Europa e dicono di smettere di fare affari con l’Iran, solitamente gli europei vi si attengono. La Cina invece non ci presta molta attenzione. Questo spaventa. C’è una lunga storia di minacce cinesi immaginarie che vengono evocate. Questa storia continua.

Vede la Cina nella posizione di rappresentare una minaccia nel breve termine per gli interessi globali degli Stati Uniti?

Tra le grandi potenze, la Cina è stata la più riservata nell’uso della forza, anche nei preparativi militari. Tanto che preminenti analisti strategici americani (John Steinbrunner e Nancy Gallagher, scrivendo sulla rivista dell’ultra-rispettabile Accademia Americana delle Arti e delle Scienze) hanno invitato la Cina qualche anno fa a guidare una coalizione di nazioni amanti della pace che affronti il militarismo aggressivo degli Stati Uniti, che essi pensano ci stia portando all'”apocalisse finale”. Ci sono poche tracce di qualsiasi cambiamento significativo in tal senso. Ma la Cina non segue gli ordini, e si sta adoperando per ottenere l’accesso all’energia e ad altre risorse in tutto il mondo. Ciò costituisce una minaccia.

I rapporti indo-pakistani rappresentano chiaramente una sfida importante nella politica estera degli Stati Uniti. Si tratta di una situazione che gli Stati Uniti possono effettivamente avere sotto controllo?

In misura limitata. E la situazione è altamente esplosiva. In Kashmir è in corso una costante violenza – terrore di stato da parte dell’India, e terroristi con base in Pakistan. E molto altro ancora, come i recenti attentati di Mumbai hanno rivelato. Ci sono anche possibili modi per ridurre le tensioni. Uno è un gasdotto verso l’India, attraverso il Pakistan, dall’Iran, la fonte naturale di energia per l’India. Presumibilmente, la decisione di Washington di indebolire il Trattato di Non Proliferazione Nucleare concedendo all’India l’accesso alla tecnologia nucleare è stato in parte motivato dalla speranza di invalidare questa opzione, portando l’India ad aderire alla campagna di Washington contro l’Iran. Può anche essere un problema correlato con l’Afghanistan, in cui si è a lungo discusso di un oleodotto (TAPI) dal Turkmenistan attraverso l’Afghanistan fino al Pakistan e poi in India. Probabilmente non è una questione molto viva, ma sta sullo sfondo. Il “grande gioco” del 19° secolo è vivo e vegeto.

In molti ambienti, vi è una diffusa impressione che la lobby israeliana conduca le danze nella politica estera americana in Medio Oriente. Il potere della lobby israeliana è così forte che può avere influenza su una superpotenza?

Il mio amico Gilbert Achcar, un noto specialista del Medio Oriente e di affari internazionali in generale, descrive l’idea come “fantasmagorica”. Giustamente. Non è la lobby che intimidisce l’industria statunitense ad alta tecnologia per fargli espandere gli investimenti in Israele, o che torce il braccio del governo degli Stati Uniti in modo che posizioni preventivamente i rifornimenti per le successive operazioni militari degli Stati Uniti e intensifichi gli stretti rapporti militari e di intelligence.

Quando gli obiettivi della lobby sono conformi agli interessi strategici ed economici percepiti dagli USA, ottiene quel che vuole: annientare i palestinesi, per esempio, una questione di scarso interesse per il potere statale-aziendale degli Stati Uniti. Quando gli obiettivi divergono, come spesso accade, la lobby scompare rapidamente, non essendo così ingenua da affrontare il potere autentico.

Concordo totalmente con la sua analisi, ma penso anche che sarà d’accordo che la lobby israeliana è abbastanza influente, e al di là di qualunque influenza economica e politica abbia, le critiche ad Israele ancora causano reazioni isteriche negli Stati Uniti – e certamente lei è stato un obiettivo della destra sionista per molti anni. A cosa attribuiamo questa influenza immateriale della lobby israeliana sull’opinione pubblica americana?

Questo è tutto vero, anche se molto meno rispetto agli ultimi anni. In realtà non è potere sull’opinione pubblica. In numeri, il più grande sostegno per le azioni di Israele è di gran lunga indipendente dalla lobby: [è venuto dal] fondamentalista religioso cristiano. Il sionismo inglese e americano ha preceduto il movimento sionista, basato su interpretazioni provvidenzialiste delle profezie bibliche. La popolazione in generale sostiene la soluzione a due stati, ma è senza dubbio all’oscuro che gli Stati Uniti l’hanno bloccata unilateralmente. Tra le classi istruite, tra cui gli intellettuali ebrei, c’era poco interesse verso Israele prima della sua grande vittoria militare nel 1967, che in realtà ha stabilito l’alleanza USA-Israele. Questo ha portato a una grande storia d’amore con Israele, da parte delle classi colte. Il valore militare di Israele e l’alleanza USA-Israele hanno fornito una tentazione irresistibile a combinare il supporto per Washington con il culto del potere e i pretesti umanitari ... Ma per dirla in prospettiva, le reazioni alle critiche dei crimini degli Stati Uniti sono almeno altrettanto serie, spesso di più. Se io conto le minacce di morte che ho ricevuto nel corso degli anni, o le diatribe su riviste di opinione, Israele è ben lungi dall’essere il fattore principale. Il fenomeno è niente affatto limitato agli Stati Uniti. Nonostante molta auto-delusione, l’Europa occidentale non è molto diversa – anche se, naturalmente, è più aperta alle critiche delle azioni degli Stati Uniti. I crimini degli altri di solito tendono ad essere benvenuti, offrendo l’opportunità per atteggiarsi coi propri profondi impegni morali.

Sotto Erdogan, la Turchia vive un processo di dispiegamento di una strategia neo-ottomana verso il Medio Oriente e l’Asia centrale. Il dispiegarsi di questa grande strategia si svolge con la collaborazione o con l’opposizione degli Stati Uniti?

La Turchia, naturalmente, è stata un alleato molto importante degli Stati Uniti, tanto che sotto Clinton è diventato il principale destinatario delle armi degli Stati Uniti (dopo Israele ed Egitto, in una categoria a parte). Clinton ha riversato armi in Turchia per aiutarla a realizzare una vasta campagna di omicidi, distruzione e terrore contro la sua minoranza curda. La Turchia è stata anche un importante alleato di Israele dal 1958, parte di un’alleanza generale di stati non arabi, sotto l’egida degli Stati Uniti, con il compito di garantire il controllo sulle fonti di energia più importanti del mondo proteggendo i dittatori al potere contro quello che viene chiamato ”nazionalismo radicale“ – un eufemismo che sta a significare le popolazioni. Le relazioni turco-americane sono state a volte tese. Questo era particolarmente vero nel crescendo dell’invasione americana dell’Iraq, quando il governo turco, cedendo alla volontà del 95% della popolazione, ha rifiutato di aderire. Questo ha causato la furia degli Stati Uniti. Paul Wolfowitz fu spedito ad ordinare al governo disobbediente di riparare alle sue azioni malvagie, di scusarsi con gli Stati Uniti e di riconoscere che il suo compito è quello di aiutare gli Stati Uniti. Questi eventi, ben pubblicizzati, non hanno minato in alcun modo nei media liberali la reputazione di “capo idealista”, totalmente dedicato alla promozione della democrazia, di Wolfowitz, all’interno dell’amministrazione Bush. Le relazioni sono un po’ tese anche oggi, anche se l’alleanza è a posto. La Turchia ha relazioni potenziali del tutto naturali con l’Iran e l’Asia centrale e potrebbe essere incline a perseguirle, forse aumentando di nuovo le tensioni. Ma non sembra troppo probabile al momento.

Sul fronte occidentale, sono ancora all’opera i piani per l’espansione verso est della NATO, che risalgono ai tempi di Bill Clinton?

Uno dei principali crimini di Clinton a mio parere – e ce ne sono stati molti – è stato quello di ampliare la NATO ad Est, in violazione di un risoluto impegno preso dai suoi predecessori con Gorbaciov, dopo che questi aveva fatto la sorprendete concessione di consentire alla Germania unita di partecipare ad una alleanza militare ostile. Queste provocazioni molto gravi sono state portate avanti da Bush, insieme ad un atteggiamento militarista aggressivo che, come previsto, ha suscitato forti reazioni dalla Russia. Ma le linee rosse americane sono già collocate sui confini della Russia.

Quali sono le sue opinioni circa l’Unione Europea? E’ ancora fondamentalmente l’apripista del neoliberismo, e a malapena un bastione per aggressività statunitense. Ma si vede qualche segno che possa emergere ad un certo punto come attore costruttivo e influente sulla scena mondiale?

Potrebbe. Si tratta di una decisione che devono prendere gli europei. Alcuni hanno preferito prendere una posizione autonoma, in particolare De Gaulle. Ma nel complesso le élite europee hanno preferito la passività, seguendo praticamente le orme di Washington.

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