Su Truth-out, una lunga intervista a Noam Chomsky,
emerito linguista e intellettuale dissidente americano. Chomsky
analizza il successo di Trump come effetto delle trasformazione indotta
dalla trentennale lotta di classe liberista contro la working class
americana, e fa una fotografia dei punti di faglia dell’equilibrio
globale in vista della prossima crisi. Quello che emerge dal suo
racconto è la lotta di classe dichiarata dalle élite occidentali contro
la propria stessa società, e come il motore primo di questa guerra sia
la potenza egemone, gli Stati Uniti, in cui potere statale e capitale
oligarchico sono ormai un tutt’uno.
di CJ Polychroniou, 12 giugno 2016
Gli Stati Uniti stanno affrontando tempi incerti. Anche se restano
l’unica superpotenza globale, non sono più in grado di influenzare
eventi e risultati a proprio piacimento, almeno non del tutto. La
frustrazione e la preoccupazione per il rischio di disastri
imminenti sembrano superare di gran lunga le speranze degli elettori
statunitensi per un ordine mondiale più razionale e giusto. Nel
frattempo, secondo Noam Chomsky, la crescita e la popolarità di Donald
Trump è dovuta al fatto che la società americana sta collassando.
In questa intervista esclusiva con Truthout, Noam Chomsky prende in
esame gli sviluppi contemporanei sia negli Stati Uniti che in tutto il
mondo e sfida i punti di vista predominanti sulla lotta di classe, il
neoliberismo come risultato delle leggi economiche, il ruolo degli Stati
Uniti come potenza globale, lo stato delle economie emergenti e il
potere della lobby israeliana.
CJ Polychroniou: Noam, lei ha detto che l’ascesa di Donald
Trump è in gran parte dovuta al tracollo della società americana. Che
cosa intende con questo?
Noam Chomsky: I programmi statali-aziendali degli
ultimi 35 anni o giù di lì hanno avuto effetti devastanti sulla maggior
parte della popolazione, e i risultati più diretti sono stati la
stagnazione, il declino e il netto avanzamento della disuguaglianza.
Questo ha creato paura e ha fatto si che la gente si sentisse isolata,
indifesa, vittima di forze potenti che non comprende né può influenzare.
Il crollo non è causato da leggi economiche. Sono scelte politiche, una
sorta di guerra di classe avviata dai ricchi e potenti contro la
popolazione attiva e i poveri. Questo è ciò che definisce il periodo
neoliberista, non solo negli USA ma in Europa e altrove. Trump è
attraente per coloro che sentono e sperimentano il collasso della
società americana – per profondi sentimenti di rabbia, paura,
frustrazione, disperazione, probabilmente tra settori della popolazione
che stanno vedendo un aumento della mortalità, qualcosa di inaudito
eccetto che in guerra.
La guerra di classe rimane violenta e unilaterale come
sempre. L’amministrazione neoliberista nel corso degli ultimi
trent’anni, a prescindere se fosse in carica un governo repubblicano o
democratico, ha intensificato enormemente i processi di sfruttamento e
indotto divari sempre più grandi tra ricchi e poveri nella società
americana. Inoltre, non vedo ritrarsi la politica di classe
neoliberista, nonostante le opportunità che si sono aperte a causa
dell’ultima crisi finanziaria e con un democratico centrista alla Casa
Bianca.
Le classi imprenditoriali, che fondamentalmente controllano il paese,
hanno un’elevata coscienza di classe. Non è una distorsione descriverli
come rozzi marxisti, con valori e dedizione invertite. Solo 30 anni fa
il capo del più potente sindacato riconobbe e criticò la “lotta di
classe unilaterale” inesorabilmente condotta dal mondo imprenditoriale.
E’ riuscita a raggiungere i risultati che descrivi. Tuttavia, le
politiche neoliberiste sono nel caos. Sono arrivate a danneggiare la
parte più potente e privilegiata (che all’inizio ha accettato solo
parzialmente questo stato di cose per sé stessa), di conseguenza non
possono più essere sostenute.
E’ piuttosto sorprendente osservare che le politiche che i ricchi e i
potenti adottano per se stessi sono l’esatto contrario di quelle che
impongono ai deboli e poveri. Così, quando l’Indonesia attraversa una
profonda crisi finanziaria, le istruzioni dal Dipartimento del Tesoro
degli Stati Uniti (attraverso il Fondo Monetario Internazionale) sono di
pagare il debito (verso l’Occidente), alzare i tassi di interesse e
quindi rallentare l’economia, privatizzare (in modo che le aziende
occidentali possano acquistare le loro ricchezze), e il resto del dogma
neoliberista. Per noi, le politiche sono di dimenticarci del debito,
ridurre i tassi di interesse a zero, nazionalizzare (ma senza usare la
parola) e versare fondi pubblici nelle tasche delle istituzioni
finanziarie, e così via. Colpisce inoltre che questo
drammatico contrasto passi inosservato, insieme al fatto che queste
politiche sono in accordo con la testimonianza della storia economica
degli ultimi secoli, la ragione principale per la separazione tra il
primo e il terzo mondo.
La politica di classe finora è stata a malapena sotto attacco.
L’amministrazione Obama ha evitato misure anche minime per porvi fine e
invertire l’attacco ai sindacati. Obama ha anche indirettamente indicato
il suo sostegno a questo tipo di attacco, in modo interessante. Vale la
pena ricordare che il suo primo viaggio per dimostrare la sua
solidarietà con i lavoratori (chiamati “la classe media”, nella retorica
statunitense) è stato allo stabilimento Caterpillar in Illinois. È
andato lì a dispetto delle preghiere della chiesa e delle organizzazioni
per i diritti umani, a causa del ruolo grottesco di Caterpillar nei
territori occupati israeliani, dove è uno strumento privilegiato nella
devastazione della terra e dei villaggi del “popolo sbagliato”. Ma non
sembra essere stato notato neanche che, adottando le politiche
anti-operaie di Reagan, Caterpillar è diventata la prima società
industriale da generazioni a spezzare un sindacato potente impiegando
crumiri, in radicale violazione delle convenzioni internazionali sul
lavoro. Questo lasciò gli Stati Uniti i soli nel mondo industriale,
insieme col Sud Africa dell’apartheid, a tollerare tali mezzi per
indebolire i diritti dei lavoratori e la democrazia – e ora presumo gli
Stati Uniti siano da soli. E’ difficile credere che la scelta sia stata
casuale.
C’è una convinzione diffusa, almeno tra alcuni strateghi
politici ben noti, che le elezioni americane non siano definite dai
problemi – anche se la retorica è che i candidati hanno bisogno di
capire l’opinione pubblica per corteggiare gli elettori – e naturalmente
sappiamo che i media forniscono una serie di informazioni false su
questioni critiche (prendiamo il ruolo dei mass media prima e durante il
lancio della guerra in Iraq), o omettono del tutto
qualsiasi informazione (sui temi del lavoro, per esempio). Tuttavia, vi è
una forte evidenza che indica che il pubblico americano si preoccupa
per le grandi questioni di politica sociale, economica ed estera che il
paese affronta. Ad esempio, secondo una ricerca pubblicata alcuni anni
fa dall’Università del Minnesota, gli americani classificano
l’assistenza sanitaria tra i problemi più importanti del paese. Sappiamo
anche che la stragrande maggioranza degli americani è a favore dei
sindacati. O che giudicava la guerra al terrore un fallimento totale.
Alla luce di tutto questo, qual è il modo migliore per capire il
rapporto tra media, politica e opinione pubblica nella società americana
contemporanea?
E’ ben noto, che le campagne elettorali sono concepite in modo tale
da marginalizzare le questioni e concentrarsi sulla personalità, lo
stile retorico, il linguaggio del corpo, ecc. e ci sono buone ragioni. I
dirigenti di partito leggono i sondaggi, e sono ben consapevoli del
fatto che su una serie di questioni importanti, entrambi i partiti sono
ben più a destra della popolazione – non a caso, essi dopo tutto, sono
partiti del mondo imprenditoriale. I sondaggi mostrano che una grande
maggioranza degli elettori disapprova, ma quelle sono le uniche scelte
loro offerte nel sistema elettorale gestito dal business, in cui il
candidato finanziato più pesantemente vince quasi sempre.
Allo stesso modo, i consumatori potrebbero preferire un trasporto di
massa decente alla scelta tra due automobili, ma questa opzione non è
fornita dai pubblicitari – anzi, dai mercati. La pubblicità in TV non
fornisce informazioni sui prodotti; piuttosto, distribuisce illusioni e
immagini. Le stesse aziende pubblicitarie che cercano di indebolire i
mercati, garantendo che consumatori disinformati faranno scelte
irrazionali (contrariamente ai modelli economici astratti), parimenti
cercano di sovvertire la democrazia. E i dirigenti aziendali sono ben
consapevoli di tutto questo. Figure di spicco del settore hanno gioito
nella stampa economica affermando che stanno commercializzando candidati
come materie prime fin dai tempi di Reagan, e questo è anche il loro
più grande successo, che predicono fornirà un modello per i dirigenti
aziendali e l’industria del marketing in futuro.
Lei ha citato il sondaggio del Minnesota per l’assistenza sanitaria. E’
tipico. Per decenni, i sondaggi hanno dimostrato che l’assistenza
sanitaria è in testa o quasi tra le preoccupazioni del pubblico – non a
caso, dato il fallimento disastroso del sistema di assistenza sanitaria privato,
con costi pro capite alti due volte quelli di paesi comparabili e con
alcuni tra i risultati peggiori. I sondaggi mostrano anche costantemente
che ampie maggioranze vogliono un sistema nazionalizzato, denominato
“pagatore singolo”, un po’ come il sistema Medicare esistente per gli
anziani, che è molto più efficiente rispetto ai sistemi privatizzati o a quello introdotto da Obama. Quando si menziona tutto questo, cosa che
avviene raramente, si dice che è “politicamente impossibile” o “manca
il sostegno politico” – il che significa che l’industria assicurativa e
farmaceutica, e altre che beneficiano del sistema attuale, sono in
disaccordo. Abbiamo ottenuto un interessante spaccato sul funzionamento
della democrazia americana dal fatto che nel 2008, a differenza del
2004, i candidati democratici – prima Edwards, poi Clinton e Obama – si
fecero avanti con proposte che almeno iniziavano ad avvicinarsi a ciò
che l’opinione pubblica ha voluto per decenni. Perché? Non a causa di un
cambiamento di atteggiamento dell’opinione pubblica, che è rimasta
stabile. Piuttosto, l’industria manifatturiera stava venendo danneggiata
dal costoso e inefficiente sistema sanitario privatizzato, e dagli
enormi privilegi concessi per legge alle industrie farmaceutiche. Quando
un ampio settore del capitale oligopolistico favorisce qualche
programma, diventa “politicamente possibile” e ha “sostegno politico”.
Che queste dinamiche non vengano notate è rivelatore come i fatti
stessi.
Più o meno lo stesso vale su molte altre questioni, nazionali ed internazionali.
L’economia statunitense si trova ad affrontare una miriade di
problemi, anche se i profitti per i ricchi e le aziende sono tornati
ormai da tempo ai livelli antecedenti alla scoppio della crisi
finanziaria del 2008. Ma il singolo problema sul quale la maggior parte
degli analisti accademici e finanziari sembrano concentrarsi, in quanto
più critico, è il debito pubblico. Secondo gli analisti mainstream, il
debito degli Stati Uniti è già fuori controllo, e questo è il motivo per
cui hanno costantemente messo in discussione i grandi pacchetti di
stimolo economico per rilanciare la crescita, sostenendo che tali misure
non faranno altro che indebitare ancora di più gli Stati Uniti. Qual è
il probabile impatto che che la crescita del debito avrà
sull’economia americana e sulla fiducia degli investitori
internazionali, in caso di una nuova crisi finanziaria?
Nessuno lo sa veramente. Il debito è stato di gran lunga superiore in
passato, in particolare dopo la seconda guerra mondiale. Ma quella fase
è stata superata grazie alla notevole crescita economica sotto
l’economia semi-pianificata del tempo di guerra. Così sappiamo che se lo
stimolo pubblico incoraggia una crescita economica sostenuta, il debito
può essere controllato. E ci sono altri meccanismi, come ad esempio
l’inflazione. Ma il resto, per la gran parte, è congettura. I principali
finanziatori – in primo luogo la Cina, il Giappone, i produttori di
petrolio – potrebbero decidere di spostare i loro fondi altrove per
avere profitti più elevati. Ma vi sono pochi segnali di questi sviluppi,
e non sono troppo probabili. I finanziatori hanno interesse a sostenere
l’economia degli Stati Uniti per le proprie esportazioni. Non c’è modo
di fare previsioni sicure, ma sembra chiaro che il mondo intero è in una
situazione precaria, per non dire altro.
Lei sembra credere, a differenza di tanti altri, che gli
Stati Uniti restano una superpotenza globale economica, politica e,
naturalmente, militare anche dopo l’ultima crisi – e anche io ho la
stessa impressione, poiché il resto delle economie del mondo non solo
non può in alcun modo sfidare l’egemonia degli Stati Uniti, ma guarda ad
essi come ad un salvatore dell’economia globale. Quali vede come
vantaggi competitivi del capitalismo statunitense rispetto all’economia
dell’Unione Europea e alle economie emergenti in Asia?
La crisi finanziaria del 2007-08 in larga misura ha avuto origine
negli Stati Uniti, ma i suoi principali concorrenti – Europa e Giappone –
hanno finito per soffrirne più seriamente, e gli Stati Uniti sono
rimasti il paese scelto dagli investitori che sono alla ricerca di
sicurezza in un momento di crisi. I vantaggi degli Stati Uniti sono
sostanziali. Hanno ampie risorse interne. Sono unificati, un fatto
importante. Fino alla guerra civile nel 1860, l’espressione “Stati
Uniti” era plurale (come è ancora nelle lingue europee). Ma da allora
l’espressione è stata singolare, in inglese standard. Le politiche
pianificate a Washington dal potere statale e del capitale
oligopolistico si applicano a tutto il paese. Questo è molto più
difficile in Europa. Un paio di anni dopo lo scoppio della più recente
crisi finanziaria globale, la task force della Commissione Europea ha
pubblicato un rapporto dicendo che “l’Europa ha bisogno di nuovi
organismi che monitorino il rischio sistemico e coordinino la
supervisione delle istituzioni finanziarie attraverso il mosaico degli
enti di supervisione regionali”, anche se la task force, guidata allora
da un ex banchiere centrale francese, “si è fermata ben prima di
suggerire un unico controllore europeo” – che gli Stati Uniti possono
avere in qualsiasi momento vogliano. Per l’Europa, sarebbe “una missione
quasi impossibile”, ha detto il leader della task force. [Diversi]
analisti, tra cui il Financial Times, hanno descritto tale obiettivo
come politicamente impossibile, “un passo troppo lungo per molti Stati
membri, riluttanti a cedere autorità in questo settore”. Ci sono molti
altri vantaggi nell’unità. Alcuni degli effetti
pericolosi dell’incapacità europea di coordinare le reazioni alla crisi
sono stati ampiamente discussi dagli economisti europei.
Le radici storiche di queste differenze tra Europa e Stati Uniti sono
conosciute. Secoli di... conflitti hanno imposto un sistema di
stati-nazione in Europa, e l’esperienza della seconda guerra mondiale ha
convinto gli europei di dover abbandonare il loro sport tradizionale,
scannarsi l’un l’altro, perché il prossimo tentativo sarebbe stato
l’ultimo. Così abbiamo ciò che agli scienziati politici piace chiamare
“una pace democratica”, anche se non è affatto chiaro se la democrazia
abbia molto a che fare con essa. Al contrario, gli Stati Uniti sono uno
stato colonizzatore-coloniale, che [ha ucciso] la popolazione indigena e
ha spedito ciò che ne rimaneva nelle “riserve”, mentre conquistava metà
del Messico, espandendosi poi oltre. Molto più che in Europa, la ricca
diversità interna è stata distrutta. La guerra civile ha cementato
l’autorità centrale, e in altri ambiti, parimenti, l’uniformità: lingua
nazionale, modelli culturali, enormi progetti di ingegneria sociale tra
stato e aziende, come la sub-urbanizzazione della società, il massiccio
sovvenzionamento centrale dell’industria avanzata attraverso ricerca e
sviluppo, acquisizione e altri meccanismi, e molto altro.
Le nuove economie emergenti dell’Asia hanno problemi interni
incredibili, sconosciuti in Occidente. Sappiamo più sull’India che sulla
Cina, in quanto è una società più aperta. Ci sono buone ragioni per le
quali si classifica al 130° posto nell’Indice di Sviluppo Umano (dove
all’incirca era anche prima delle parziali riforme neoliberiste); la
Cina è 90°, e la classifica potrebbe essere peggiore se se ne sapesse di
più. Questo scalfisce solo la superficie. Nel 18 ° secolo, la Cina e
l’India sono stati i centri commerciali e industriali del mondo, con
sofisticati sistemi di mercato, livelli di salute avanzati per gli
standard comparativi, e così via. Ma la conquista imperiale e le
politiche economiche (intervento dello stato per i ricchi, libero
mercato spinto giù per la gola ai poveri) li ha lasciati in condizioni
miserabili. È importante notare che l’unico paese del Sud [del mondo]
che si è sviluppato è stato il Giappone, l’unico paese che non è stato
colonizzato. La correlazione non è casuale.
Gli Stati Uniti dettano ancora le politiche del FMI?
E’ poco chiaro, ma la mia impressione è che gli economisti del FMI
dovrebbero essere, forse sono, in qualche modo indipendenti dai politici
dell’organizzazione. Nel caso della Grecia, e dell’austerità in
generale, gli economisti se ne sono usciti con alcuni documenti
fortemente critici verso i programmi di Bruxelles, ma i
politici sembrano averli ignorati.
Sul fronte della politica estera, la “guerra al terrore”
sembra essere un’impresa senza fine e, come con il mitologico mostro Idra, quando si taglia una testa, ne spunta fuori una nuova. Massicci
interventi militari possono spazzare via le organizzazioni terroristiche
come l’ISIS?
Al suo insediamento, Obama ha ampliato le forze di intervento e
intensificato le guerre in Afghanistan e in Pakistan, proprio come aveva
promesso che avrebbe fatto. C’erano opzioni pacifiche, alcune
raccomandate proprio dal mainstream: in Foreign Affairs,
per esempio. Ma non sono state prese in considerazione. Il primo
messaggio del presidente afghano Hamid Karzai a Obama, rimasto senza
risposta, era una richiesta di fermare i bombardamenti sui civili.
Karzai ha inoltre informato la delegazione delle Nazioni Unite di volere
un calendario per il ritiro delle truppe straniere (intendendo quelle
statunitensi). E’ caduto immediatamente in disgrazia a Washington, e di
conseguenza, dall’essere il preferito dai media, è
diventato “inaffidabile”, “corrotto”, ecc – il che non era più vero di
quanto lo fosse quando venne festeggiato come “il nostro uomo” a Kabul.
Obama ha inviato molte più truppe e intensificato i bombardamenti su
entrambi i lati del confine afghano-pakistano – la linea Durand, un
confine artificiale stabilito dagli inglesi, che taglia l’area pashtun
in due e che i popoli non hanno mai accettato. L’Afghanistan nel passato
ha spesso premuto per cancellarlo.
Questa è la componente centrale della “guerra al terrore”. Era certo
che stimolasse il terrore, proprio come l’invasione dell’Iraq, e come in
termini generali succede col ricorso alla forza. La forza può vincere.
L’esistenza degli Stati Uniti ne è un esempio. I russi in Cecenia ne
sono un altro. Ma deve essere schiacciante, e ci sono probabilmente
troppi tentacoli del mostro terrorista da spazzare via, mostro che è
stato in gran parte creato da Reagan e dai suoi collaboratori, anche se
alimentato da altri. L’ISIS è il più recente, ed è una organizzazione
molto più brutale di al-Qaeda. E’ anche diversa, nel senso che ha
rivendicazioni territoriali. Può essere spazzata via attraverso una
massiccia occupazione di truppe terrestri, ma questo non porrà fine
all’emergere di organizzazioni con mentalità simile. La violenza genera
violenza.
Le relazioni degli Stati Uniti con la Cina sono passate
attraverso diverse fasi nel corso degli ultimi decenni, ed è difficile
capire a che punto stiano oggi. Prevede che i futuri rapporti
sino-americani miglioreranno o si deterioreranno?
Gli Stati Uniti hanno un rapporto di amore-odio con la Cina. I salari
tremendi, le condizioni di lavoro, e la mancanza di vincoli ambientali
in Cina sono un grande vantaggio per Stati Uniti e altri produttori
occidentali che trasferiscono le operazioni là, e per l’enorme settore
della vendita al dettaglio, che può ottenere merci a basso costo. E gli
Stati Uniti si appoggiano ora alla Cina, al Giappone e ad altri paesi
per sostenere la propria economia. Ma la Cina pone anche problemi. Non
si fa intimidire facilmente... Quando gli Stati Uniti agitano i pugni
verso l’Europa e dicono di smettere di fare affari con l’Iran,
solitamente gli europei vi si attengono. La Cina invece non ci presta
molta attenzione. Questo spaventa. C’è una lunga storia di minacce
cinesi immaginarie che vengono evocate. Questa storia continua.
Vede la Cina nella posizione di rappresentare una minaccia nel breve termine per gli interessi globali degli Stati Uniti?
Tra le grandi potenze, la Cina è stata la più riservata nell’uso
della forza, anche nei preparativi militari. Tanto che preminenti
analisti strategici americani (John Steinbrunner e Nancy Gallagher,
scrivendo sulla rivista dell’ultra-rispettabile Accademia Americana
delle Arti e delle Scienze) hanno invitato la Cina qualche anno fa a
guidare una coalizione di nazioni amanti della pace che
affronti il militarismo aggressivo degli Stati Uniti, che essi pensano
ci stia portando all'”apocalisse finale”. Ci sono poche tracce di
qualsiasi cambiamento significativo in tal senso. Ma la Cina non segue
gli ordini, e si sta adoperando per ottenere l’accesso all’energia e ad
altre risorse in tutto il mondo. Ciò costituisce una minaccia.
I rapporti indo-pakistani rappresentano chiaramente una sfida
importante nella politica estera degli Stati Uniti. Si tratta di una
situazione che gli Stati Uniti possono effettivamente avere sotto
controllo?
In misura limitata. E la situazione è altamente esplosiva. In Kashmir
è in corso una costante violenza – terrore di stato da parte
dell’India, e terroristi con base in Pakistan. E molto altro ancora,
come i recenti attentati di Mumbai hanno rivelato. Ci sono anche
possibili modi per ridurre le tensioni. Uno è un gasdotto verso l’India,
attraverso il Pakistan, dall’Iran, la fonte naturale di energia per
l’India. Presumibilmente, la decisione di Washington di indebolire il Trattato di Non Proliferazione Nucleare
concedendo all’India l’accesso alla tecnologia nucleare è stato in
parte motivato dalla speranza di invalidare questa opzione, portando
l’India ad aderire alla campagna di Washington contro l’Iran. Può anche
essere un problema correlato con l’Afghanistan, in cui si è a lungo
discusso di un oleodotto (TAPI) dal Turkmenistan attraverso
l’Afghanistan fino al Pakistan e poi in India. Probabilmente non è una
questione molto viva, ma sta sullo sfondo. Il “grande gioco” del 19° secolo è vivo e vegeto.
In molti ambienti, vi è una diffusa impressione che la lobby
israeliana conduca le danze nella politica estera americana in Medio
Oriente. Il potere della lobby israeliana è così forte che può avere
influenza su una superpotenza?
Il mio amico Gilbert Achcar, un noto specialista del Medio Oriente e
di affari internazionali in generale, descrive l’idea come
“fantasmagorica”. Giustamente. Non è la lobby che intimidisce
l’industria statunitense ad alta tecnologia per fargli espandere gli
investimenti in Israele, o che torce il braccio del governo degli Stati
Uniti in modo che posizioni preventivamente i rifornimenti per le
successive operazioni militari degli Stati Uniti e intensifichi gli
stretti rapporti militari e di intelligence.
Quando gli obiettivi della lobby sono conformi agli interessi
strategici ed economici percepiti dagli USA, ottiene quel che vuole:
annientare i palestinesi, per esempio, una questione di scarso interesse
per il potere statale-aziendale degli Stati Uniti. Quando gli obiettivi
divergono, come spesso accade, la lobby scompare rapidamente, non
essendo così ingenua da affrontare il potere autentico.
Concordo totalmente con la sua analisi, ma penso anche che sarà d’accordo che la lobby israeliana è abbastanza influente, e al
di là di qualunque influenza economica e politica abbia, le critiche ad
Israele ancora causano reazioni isteriche negli Stati Uniti – e
certamente lei è stato un obiettivo della destra sionista per molti
anni. A cosa attribuiamo questa influenza immateriale della lobby
israeliana sull’opinione pubblica americana?
Questo è tutto vero, anche se molto meno rispetto agli ultimi anni.
In realtà non è potere sull’opinione pubblica. In numeri, il più grande
sostegno per le azioni di Israele è di gran lunga indipendente dalla
lobby: [è venuto dal] fondamentalista religioso cristiano. Il sionismo
inglese e americano ha preceduto il movimento sionista, basato
su interpretazioni provvidenzialiste delle profezie bibliche. La
popolazione in generale sostiene la soluzione a due stati, ma è senza
dubbio all’oscuro che gli Stati Uniti l’hanno bloccata unilateralmente.
Tra le classi istruite, tra cui gli intellettuali ebrei, c’era poco
interesse verso Israele prima della sua grande vittoria militare nel
1967, che in realtà ha stabilito l’alleanza USA-Israele. Questo ha
portato a una grande storia d’amore con Israele, da parte delle classi
colte. Il valore militare di Israele e l’alleanza USA-Israele hanno
fornito una tentazione irresistibile a combinare il supporto per
Washington con il culto del potere e i pretesti umanitari ... Ma per dirla
in prospettiva, le reazioni alle critiche dei crimini degli Stati Uniti
sono almeno altrettanto serie, spesso di più. Se io conto le minacce di
morte che ho ricevuto nel corso degli anni, o le diatribe su riviste di
opinione, Israele è ben lungi dall’essere il fattore principale. Il
fenomeno è niente affatto limitato agli Stati Uniti. Nonostante molta
auto-delusione, l’Europa occidentale non è molto diversa – anche se,
naturalmente, è più aperta alle critiche delle azioni degli Stati Uniti.
I crimini degli altri di solito tendono ad essere benvenuti, offrendo
l’opportunità per atteggiarsi coi propri profondi impegni morali.
Sotto Erdogan, la Turchia vive un processo di dispiegamento
di una strategia neo-ottomana verso il Medio Oriente e l’Asia centrale.
Il dispiegarsi di questa grande strategia si svolge con la
collaborazione o con l’opposizione degli Stati Uniti?
La Turchia, naturalmente, è stata un alleato molto importante degli
Stati Uniti, tanto che sotto Clinton è diventato il principale
destinatario delle armi degli Stati Uniti (dopo Israele ed Egitto, in
una categoria a parte). Clinton ha riversato armi in Turchia per
aiutarla a realizzare una vasta campagna di omicidi, distruzione e
terrore contro la sua minoranza curda. La Turchia è stata anche un
importante alleato di Israele dal 1958, parte di un’alleanza generale di
stati non arabi, sotto l’egida degli Stati Uniti, con il compito di
garantire il controllo sulle fonti di energia più importanti del mondo
proteggendo i dittatori al potere contro quello che viene chiamato ”nazionalismo radicale“ – un eufemismo che sta a significare le
popolazioni. Le relazioni turco-americane sono state a volte tese.
Questo era particolarmente vero nel crescendo dell’invasione americana
dell’Iraq, quando il governo turco, cedendo alla volontà del 95% della
popolazione, ha rifiutato di aderire. Questo ha causato la furia degli
Stati Uniti. Paul Wolfowitz fu spedito ad ordinare al governo
disobbediente di riparare alle sue azioni malvagie, di scusarsi con gli
Stati Uniti e di riconoscere che il suo compito è quello di aiutare gli
Stati Uniti. Questi eventi, ben pubblicizzati, non hanno minato in alcun
modo nei media liberali la reputazione di “capo idealista”, totalmente
dedicato alla promozione della democrazia, di Wolfowitz, all’interno
dell’amministrazione Bush. Le relazioni sono un po’ tese anche oggi,
anche se l’alleanza è a posto. La Turchia ha relazioni potenziali del
tutto naturali con l’Iran e l’Asia centrale e potrebbe essere incline a
perseguirle, forse aumentando di nuovo le tensioni. Ma non sembra troppo
probabile al momento.
Sul fronte occidentale, sono ancora all’opera i piani per
l’espansione verso est della NATO, che risalgono ai tempi di Bill
Clinton?
Uno dei principali crimini di Clinton a mio parere – e ce ne sono
stati molti – è stato quello di ampliare la NATO ad Est, in violazione
di un risoluto impegno preso dai suoi predecessori con Gorbaciov, dopo
che questi aveva fatto la sorprendete concessione di consentire alla
Germania unita di partecipare ad una alleanza militare ostile. Queste
provocazioni molto gravi sono state portate avanti da Bush, insieme ad
un atteggiamento militarista aggressivo che, come previsto, ha suscitato
forti reazioni dalla Russia. Ma le linee rosse americane sono già
collocate sui confini della Russia.
Quali sono le sue opinioni circa l’Unione Europea? E’ ancora
fondamentalmente l’apripista del neoliberismo, e a malapena un bastione
per aggressività statunitense. Ma si vede qualche segno che possa
emergere ad un certo punto come attore costruttivo e influente sulla
scena mondiale?
Potrebbe. Si tratta di una decisione che devono prendere gli europei.
Alcuni hanno preferito prendere una posizione autonoma, in particolare
De Gaulle. Ma nel complesso le élite europee hanno preferito la
passività, seguendo praticamente le orme di Washington.
Fonte
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