di Michele Paris
Dopo il ritiro dei rivali dalla corsa alla nomination per il Partito Repubblicano ai primi di maggio, Donald Trump ha visto la sua campagna elettorale per la Casa Bianca sprofondare in un grave stato di crisi. Oggi, l’imprenditore miliardario si trova nettamente indietro rispetto a Hillary Clinton, sia nei sondaggi su scala nazionale sia in quelli condotti negli stati decisivi per il successo di novembre, mentre la macchina della raccolta fondi arranca pericolosamente ed è tornata all’ordine del giorno anche l’ipotesi clamorosa di dirottare il sostegno del partito verso un altro candidato nel corso della convention di luglio.
Sugli affanni di Trump in questa fase della sfida per la presidenza degli Stati Uniti pesa indubbiamente la sua inesperienza politica e il confronto con una vera e propria corazzata organizzativa come quella della ex first lady, in grado di contare su agganci formidabili con ampie sezioni della classe dirigente americana e sull’appoggio compatto dell’establishment Democratico.
Tenendo in considerazione però che Hillary Clinton è la seconda personalità politica di primo piano più disprezzata dagli elettori negli USA, dopo Donald Trump, gli stenti di quest’ultimo sono tutto fuorché il risultato dell’aumento della popolarità della sua rivale.
Le ultime settimane hanno visto piuttosto una serie di episodi nei quali Trump è riuscito ancora una volta a tirarsi addosso una valanga di critiche da parte della stampa e di buona parte dei suoi stessi compagni di partito. Particolarmente deleteria sembra essere stata la sua accusa a un giudice americano di origine latino-americana di non poter essere imparziale nel giudicarlo nell’ambito di un procedimento legale che lo vede indagato per avere truffato alcuni ex studenti della defunta Trump University.
Le critiche del candidato alla Casa Bianca facevano riferimento a possibili pregiudizi del giudice viste le numerose uscite razziste e xenofobe di Trump nei confronti degli immigrati ispanici. Dello stesso tono è stato poi anche il commento seguito alla strage di Orlando dello scorso 13 giugno, in seguito alla quale Trump aveva rilanciato la proposta di impedire l’ingresso negli USA a tutti i musulmani.
I sentimenti e le opinioni che circolano all’interno del Partito Repubblicano non sono in realtà molto più progressisti di quelli espressi da Trump. La censura nei suoi confronti ha a che fare più che altro con i timori che i Repubblicani possano perdere ulteriori consensi tra gli appartenenti a minoranze etniche, già poco orientati a sostenere il loro partito.
Le polemiche attorno alla candidatura di Trump riflettono ad ogni modo le dinamiche che hanno caratterizzato la sua ascesa e gli aspetti di una campagna decisamente diversa da quella di un qualsiasi tipico candidato Repubblicano alla nomination per la Casa Bianca.
Trump ha potuto cioè sbaragliare i suoi rivali più graditi ai vertici del partito e conquistare il numero record di 14 milioni di voti nel corso delle primarie in larga misura proprio grazie a una campagna tutt’altro che convenzionale, costruita al preciso scopo di creare un’immagine da “outsider”.
Allo stesso tempo, però, gli aspiranti alla presidenza per i due principali partiti americani devono in qualche modo adeguarsi o trovare un compromesso con le esigenze dell’establishment, sia in termini formali che di sostanza, soprattutto nel passaggio dalle primarie alla campagna per la presidenza vera e propria.
Questo conflitto si è consumato in qualche modo all’interno dello stesso team di Donald Trump e si è forse risolto nei giorni scorsi con il licenziamento del responsabile delle operazioni, Corey Lewandowski, vero e proprio punto di riferimento per gli elementi fascistoidi emersi fin qui nella campagna elettorale dell’uomo d’affari di New York.
Con l’uscita di scena forzata di Lewandowski, il comando delle operazioni in casa Trump è passato al suo rivale interno già assunto qualche mese fa, Paul Manafort, ex lobbysta con una lunga esperienza nelle campagne elettorali Repubblicane e quindi molto più ben visto dai leader del partito.
Questi ultimi rimangono comunque in ansia per la gestione delle operazioni dell’organizzazione di Trump. Il candidato Repubblicano alla presidenza, secondo i dati più recenti, dispone di appena 1,3 milioni di dollari contro i 42 di Hillary, mentre da quasi due mesi non ha commissionato un solo spot elettorale negli stati che si prevede saranno maggiormente in bilico a novembre.
La questione del finanziamento della campagna elettorale e della raccolta fondi è determinante nel sistema americano, dove la selezione del potere è sostanzialmente affidata al denaro e a chi ne detiene in misura tale da potere influenzare la politica. I grandi finanziatori Repubblicani sono attualmente alla finestra, sia per la precarietà della posizione di Trump sia perché qualsiasi donazione andrebbe in buona parte nelle sue casse private e in quelle della sua famiglia.
Trump ha infatti usato finora svariati milioni di dollari per pagare servizi forniti alla sua campagna elettorale da aziende di sua proprietà o di qualche famigliare. Allo stesso modo, i quasi 50 milioni di dollari del suo patrimonio usati per finanziare le operazioni delle primarie sono in realtà un prestito – di fatto a se stesso – che dovrà essere ripagato con le donazioni dei sostenitori Repubblicani.
L’ostilità dei finanziatori Repubblicani nei confronti di Trump è dunque accentuata da queste circostanze e potrebbe risultare decisiva nel prosieguo della sfida con Hillary Clinton. Il commentatore conservatore George Will, ostile a Trump, ha scritto ad esempio recentemente sul Washington Post che i ricchi donatori “possono salvare il loro partito negando il loro aiuto al suo candidato”.
Le speranze dell’ampio fronte Repubblicano anti-Trump sono legate anche ai tentativi di alcuni delegati che saranno presenti alla convention di Cleveland per modificare in parte le regole di voto stabilite dal partito. Anche se il processo appare complicato, teoricamente esiste un modo per svincolare dai risultati delle primarie i delegati chiamati a scegliere ufficialmente il candidato alla Casa Bianca già alla prima votazione. In questo modo, a Trump sarebbe negata la maggioranza dei consensi dei delegati, così che in una seconda votazione la nomination potrebbe essere assegnata a un candidato diverso.
La testata on-line Politico ha spiegato questa settimana come ci siano già alcune decine di delegati intenzionati a percorrere questa strada e altri ancora potrebbero essere convinti nelle prossime settimane a liquidare Trump. Nomi importanti dell’orbita Repubblicana hanno d’altra parte evitato di sostenere formalmente Trump o si sono addirittura espressi contro di lui, come il candidato alla Casa Bianca del 2012, Mitt Romney, o più recentemente il governatore del Wisconsin, Scott Walker, per un breve periodo tra i contendenti alla nomination in questa tornata elettorale.
L’impressione prevalente è comunque che un simile colpo di mano per estromettere Trump dalle presidenziali non sarà alla fine attuato. Questo piano rischierebbe di spaccare il Partito Repubblicano e di consegnare non solo la Casa Bianca ma forse anche il Congresso ai Democratici. La sola esistenza di disegni di questo genere, presi in considerazione seriamente da una parte del partito, è però indicativa della situazione di crisi esistente tra i Repubblicani.
Le elezioni di novembre sono in ogni caso ancora lontane e gli equilibri della corsa alla Casa Bianca potrebbero facilmente cambiare in maniera anche rapida. Gli scenari politici e il clima sociale negli USA risultano estremamente instabili, mentre l’avversione per tutto ciò che viene identificato con il sistema di Washington è in continua crescita.
Non solo, la stessa Hillary Clinton, oltre a essere vista correttamente come un mero strumento delle élite economico-finanziarie, dei militari e dell’intelligence, continua a essere minacciata dalla questione dell’uso illegale di un server di posta elettronica privato quando era al Dipartimento di Stato.
A giudicare dall’atteggiamento della stampa ufficiale e dei poteri forti in queste prime battute delle presidenziali, tuttavia, appare evidente la loro netta preferenza per la candidata Democratica, identificata come quella maggiormente affidabile per la difesa e la promozione degli interessi delle forze che rappresentano il tradizionale apparato di potere degli Stati Uniti.
Fonte
Dopo il ritiro dei rivali dalla corsa alla nomination per il Partito Repubblicano ai primi di maggio, Donald Trump ha visto la sua campagna elettorale per la Casa Bianca sprofondare in un grave stato di crisi. Oggi, l’imprenditore miliardario si trova nettamente indietro rispetto a Hillary Clinton, sia nei sondaggi su scala nazionale sia in quelli condotti negli stati decisivi per il successo di novembre, mentre la macchina della raccolta fondi arranca pericolosamente ed è tornata all’ordine del giorno anche l’ipotesi clamorosa di dirottare il sostegno del partito verso un altro candidato nel corso della convention di luglio.
Sugli affanni di Trump in questa fase della sfida per la presidenza degli Stati Uniti pesa indubbiamente la sua inesperienza politica e il confronto con una vera e propria corazzata organizzativa come quella della ex first lady, in grado di contare su agganci formidabili con ampie sezioni della classe dirigente americana e sull’appoggio compatto dell’establishment Democratico.
Tenendo in considerazione però che Hillary Clinton è la seconda personalità politica di primo piano più disprezzata dagli elettori negli USA, dopo Donald Trump, gli stenti di quest’ultimo sono tutto fuorché il risultato dell’aumento della popolarità della sua rivale.
Le ultime settimane hanno visto piuttosto una serie di episodi nei quali Trump è riuscito ancora una volta a tirarsi addosso una valanga di critiche da parte della stampa e di buona parte dei suoi stessi compagni di partito. Particolarmente deleteria sembra essere stata la sua accusa a un giudice americano di origine latino-americana di non poter essere imparziale nel giudicarlo nell’ambito di un procedimento legale che lo vede indagato per avere truffato alcuni ex studenti della defunta Trump University.
Le critiche del candidato alla Casa Bianca facevano riferimento a possibili pregiudizi del giudice viste le numerose uscite razziste e xenofobe di Trump nei confronti degli immigrati ispanici. Dello stesso tono è stato poi anche il commento seguito alla strage di Orlando dello scorso 13 giugno, in seguito alla quale Trump aveva rilanciato la proposta di impedire l’ingresso negli USA a tutti i musulmani.
I sentimenti e le opinioni che circolano all’interno del Partito Repubblicano non sono in realtà molto più progressisti di quelli espressi da Trump. La censura nei suoi confronti ha a che fare più che altro con i timori che i Repubblicani possano perdere ulteriori consensi tra gli appartenenti a minoranze etniche, già poco orientati a sostenere il loro partito.
Le polemiche attorno alla candidatura di Trump riflettono ad ogni modo le dinamiche che hanno caratterizzato la sua ascesa e gli aspetti di una campagna decisamente diversa da quella di un qualsiasi tipico candidato Repubblicano alla nomination per la Casa Bianca.
Trump ha potuto cioè sbaragliare i suoi rivali più graditi ai vertici del partito e conquistare il numero record di 14 milioni di voti nel corso delle primarie in larga misura proprio grazie a una campagna tutt’altro che convenzionale, costruita al preciso scopo di creare un’immagine da “outsider”.
Allo stesso tempo, però, gli aspiranti alla presidenza per i due principali partiti americani devono in qualche modo adeguarsi o trovare un compromesso con le esigenze dell’establishment, sia in termini formali che di sostanza, soprattutto nel passaggio dalle primarie alla campagna per la presidenza vera e propria.
Questo conflitto si è consumato in qualche modo all’interno dello stesso team di Donald Trump e si è forse risolto nei giorni scorsi con il licenziamento del responsabile delle operazioni, Corey Lewandowski, vero e proprio punto di riferimento per gli elementi fascistoidi emersi fin qui nella campagna elettorale dell’uomo d’affari di New York.
Con l’uscita di scena forzata di Lewandowski, il comando delle operazioni in casa Trump è passato al suo rivale interno già assunto qualche mese fa, Paul Manafort, ex lobbysta con una lunga esperienza nelle campagne elettorali Repubblicane e quindi molto più ben visto dai leader del partito.
Questi ultimi rimangono comunque in ansia per la gestione delle operazioni dell’organizzazione di Trump. Il candidato Repubblicano alla presidenza, secondo i dati più recenti, dispone di appena 1,3 milioni di dollari contro i 42 di Hillary, mentre da quasi due mesi non ha commissionato un solo spot elettorale negli stati che si prevede saranno maggiormente in bilico a novembre.
La questione del finanziamento della campagna elettorale e della raccolta fondi è determinante nel sistema americano, dove la selezione del potere è sostanzialmente affidata al denaro e a chi ne detiene in misura tale da potere influenzare la politica. I grandi finanziatori Repubblicani sono attualmente alla finestra, sia per la precarietà della posizione di Trump sia perché qualsiasi donazione andrebbe in buona parte nelle sue casse private e in quelle della sua famiglia.
Trump ha infatti usato finora svariati milioni di dollari per pagare servizi forniti alla sua campagna elettorale da aziende di sua proprietà o di qualche famigliare. Allo stesso modo, i quasi 50 milioni di dollari del suo patrimonio usati per finanziare le operazioni delle primarie sono in realtà un prestito – di fatto a se stesso – che dovrà essere ripagato con le donazioni dei sostenitori Repubblicani.
L’ostilità dei finanziatori Repubblicani nei confronti di Trump è dunque accentuata da queste circostanze e potrebbe risultare decisiva nel prosieguo della sfida con Hillary Clinton. Il commentatore conservatore George Will, ostile a Trump, ha scritto ad esempio recentemente sul Washington Post che i ricchi donatori “possono salvare il loro partito negando il loro aiuto al suo candidato”.
Le speranze dell’ampio fronte Repubblicano anti-Trump sono legate anche ai tentativi di alcuni delegati che saranno presenti alla convention di Cleveland per modificare in parte le regole di voto stabilite dal partito. Anche se il processo appare complicato, teoricamente esiste un modo per svincolare dai risultati delle primarie i delegati chiamati a scegliere ufficialmente il candidato alla Casa Bianca già alla prima votazione. In questo modo, a Trump sarebbe negata la maggioranza dei consensi dei delegati, così che in una seconda votazione la nomination potrebbe essere assegnata a un candidato diverso.
La testata on-line Politico ha spiegato questa settimana come ci siano già alcune decine di delegati intenzionati a percorrere questa strada e altri ancora potrebbero essere convinti nelle prossime settimane a liquidare Trump. Nomi importanti dell’orbita Repubblicana hanno d’altra parte evitato di sostenere formalmente Trump o si sono addirittura espressi contro di lui, come il candidato alla Casa Bianca del 2012, Mitt Romney, o più recentemente il governatore del Wisconsin, Scott Walker, per un breve periodo tra i contendenti alla nomination in questa tornata elettorale.
L’impressione prevalente è comunque che un simile colpo di mano per estromettere Trump dalle presidenziali non sarà alla fine attuato. Questo piano rischierebbe di spaccare il Partito Repubblicano e di consegnare non solo la Casa Bianca ma forse anche il Congresso ai Democratici. La sola esistenza di disegni di questo genere, presi in considerazione seriamente da una parte del partito, è però indicativa della situazione di crisi esistente tra i Repubblicani.
Le elezioni di novembre sono in ogni caso ancora lontane e gli equilibri della corsa alla Casa Bianca potrebbero facilmente cambiare in maniera anche rapida. Gli scenari politici e il clima sociale negli USA risultano estremamente instabili, mentre l’avversione per tutto ciò che viene identificato con il sistema di Washington è in continua crescita.
Non solo, la stessa Hillary Clinton, oltre a essere vista correttamente come un mero strumento delle élite economico-finanziarie, dei militari e dell’intelligence, continua a essere minacciata dalla questione dell’uso illegale di un server di posta elettronica privato quando era al Dipartimento di Stato.
A giudicare dall’atteggiamento della stampa ufficiale e dei poteri forti in queste prime battute delle presidenziali, tuttavia, appare evidente la loro netta preferenza per la candidata Democratica, identificata come quella maggiormente affidabile per la difesa e la promozione degli interessi delle forze che rappresentano il tradizionale apparato di potere degli Stati Uniti.
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