La vera partita comincia ora. La batosta subita da Renzi e dal centrodestra rivela che gli equilibri sociali consolidati si sono ormai rotti, a partire fondamentalmente dalle realtà metropolitane. Governare questo paese secondo le linee guida dell’Unione Europea e della Troika diventa dunque di fatto molto più difficile, mentre l’alternativa possibile e concreta resta avvolta – purtroppo – nella nebbia delle buone intenzioni inconsapevoli delle caratteristiche fondamentali del “sistema”.
Ma ora si può cominciare a giocare una partita che prima era semplicemente bloccata e già vinta dal potere più fetido.
Non vi può essere alcun dubbio che la sconfitta subita da Renzi – per certi versi clamorosa quanto a dimensioni e realtà sociali – sia anche la sconfitta delle politiche di austerità, malamente mascherate da provvedimenti “populisti”, come gli 80 euro, ma saldamente incentrate su un diluvio di misure che più antipopolari non si può: jobs act e cancellazione dell’art. 18, tagli alle pensioni, tagli alla sanità e alle prestazioni minime, privatizzazioni di servizi pubblici essenziali (anche in barba al referendum che ha confermato la volontà di avere la proprietà pubblica dell’acqua), ecc. Accompagnate dalla complicità conclamata con il sistema delle imprese, fino all’asservimento esplicito del governo alle multinazionali e alle banche o alla malavita fiorita intorno a ciò che resta della spesa pubblica utilizzabile a fini clientelari (Mafia Capitale).
L’Italia metropolitana sfugge palesemente al controllo mediatizzato, nonostante il monopolio evidente del “renzismo” su quotidiani e soprattutto televisioni. Ma le balle a raffica del guitto di Rignano, ormai, non convincono più nessuno. Nelle grandi città è evidente come i quartieri ricchi o benestanti stiano con il governo, mentre le periferie e i quartieri operai (o ex operai) siano totalmente contro.
Se ne era avuto il segnale con il crescere continuo dell’astensionismo, arrivato ora a superare il 50%. Un rifiuto di massa, rassegnato e impotente, più che rabbioso, cui il potere ha tentato di rispondere con la “rottamazione guidata”, dall’interno della rappresentanza politica vecchio stile; un banale ricambio basato sulla diversità delle facce, tenendo fermo il manico delle scelte di fondo. Un gioco clamorosamente fallito perché, se “rottamazione” ha da essere, questa riguarda ora tutto il sistema della rappresentanza. Già nel 2013 si era vista l’onda salire, ma l’establishment aveva risposto blindandosi con il “patto del Nazareno”, con Letta al posto di Bersani, il reincarico a Napolitano, infine con l’incarico a un non eletto dalla panzana facile, selezionato con il casting tv; e quindi con la dichiarazione ufficiale che nulla sarebbe stato concesso al malessere delle metropoli del paese. Per quanto poco stessero chiedendo, con il voto ai Cinque Stelle.
L’altra Italia, quella di provincia, si reggeva e si regge invece ancora su vecchi e consolidati equilibri. Lì la crisi, pur mordendo, non ha avuto ancora gli effetti socialmente devastanti che si possono vedere nelle metropoli. C’è ancora “grasso di riserva”, patrimoni e risparmi, occasioni di lavoro o di autosfruttamento che comunque rallentano la caduta verso l’indigenza. Lì, insomma, è per il momento ancora difficile costruire un consenso antigovernativo senza passare attraverso i luoghi in cui si costruisce il “senso comune” di comunità dimensionalmente limitate (salotti, associazioni di categoria, bar, parrocchie, ecc).
Ma sono le metropoli a segnare la tendenza, ovviamente. E ancora più interessante è il segnale che proviene dalle vecchie città industriali (Torino, dopo il primo segnale esploso a Livorno), dove una lunga e gloriosa tradizione operaia ha sciolto definitivamente il rapporto con l’apparenza della continuità politica. Che il Pd di Renzi non abbia nulla a che spartire con il vecchio Pci, insomma, è cosa chiara a tutti.
Milano e in parte Bologna, stamattina, sembrano due anomalie rispetto a un quadro metropolitano complessivo alquanto omogeneo. Quasi un “ridotto della Valtellina”, si è scherzato in qualche talk show, istituendo così un’analogia tra il precipitare rovinoso della leadership renziana e la fuga ignominiosa di Mussolini il 25 aprile ’45. Volessimo scherzare anche noi, potremmo dire: “ti aspettiamo a Dongo”…
Roma, Napoli, Torino sono passate decisamente al fronte dell’opposizione. Sono dunque qualcosa di più che “isole della protesta”. Sono e soprattutto possono ora diventare l’asse intorno a cui si costruisce socialmente un’alternativa alle politiche dell’Unione Europea incarnate da Renzi (ma anche dal centrodestra). Alternativa per ora abbastanza fumosa, certo, ma con alle spalle una fortissima spinta sociale che chiede risposte in tempi umani; ossia qui e ora, o almeno entro qualche mese.
Il nodo del contendere, tra queste metropoli e il governo centrale (finché starà in piedi) è dunque il patto di stabilità, ovvero quella serie di vincoli di bilancio che discendono come un filo spinato da Bruxelles fino all’ultima sperduta comunità montana. Il rifiuto di accettare i diktat del governo centrale sarà dunque il banco di prova della capacità di costruire anche politicamente quest’asse dell’opposizione.
Ci si deve infatti attendere una vera e propria “guerra” contro tutte queste amministrazioni. Una guerra fatta di mancati trasferimenti finanziari (per costringerle ad aumentare tasse locali e tariffe pubbliche), di ricatti su opere pubbliche piccole e grandi (quel genio di Maria Elena Boschi li ha addirittura evocati prima del voto!), di mobilitazione reazionaria di alcune categorie già in sofferenza per altre ragioni.
Questa “guerra” non potrà essere evitata. Bisognerà invece avere la capacità di condurla rovesciando sul governo (e l’Unione Europea) la responsabilità di ogni difficoltà, di ogni contraddizione sociale. Perché, nello schema dei poteri ridisegnato dalle varie controriforme costituzionali, ben poco resta nella possibilità autonoma dei singoli sindaci.
Ne sono consapevoli? Ne saranno capaci? A Napoli, per molti versi la metropoli in cui il processo di costruzione di un’alternativa politica reale appare più avanzato, si può ragionevolmente dire di sì. Torino, Roma (e Livorno) non hanno comunque davanti altre strade percorribili. Se vogliono sopravvivere al prevedibile moltiplicarsi di eventi “cileni”, scatenati dall’incrocio di difficoltà finanziarie e voglia di vendetta delle clientele e dei palazzinari, dovranno misurarsi con i problemi sociali reali e le forze che fin qui – assolutamente controcorrente – hanno provato a organizzarli e rappresentarli. Onestà e trasparenza sono buone cose, ma servirà qualche idea un po’ più incisiva per “passà a’ nuttata”. Il voto che hanno preso i Cinque Stelle, occorre saperlo, ha un forte sapore di “ultima spiaggia”…
Questa tornata elettorale, così dirompente per il quadro politico, ha mostrato anche come la “sinistra radicale” – nelle sue componenti fin qui maggioritarie – abbia capito poco o nulla dei processi in atto e della stessa funzione del rito elettorale in questa tempesta politico-sociale. Il vecchio dilemma tra astensionismo “antagonista” o partecipazione subordinata al Pd (l’esito scontato di tutti i ragionamenti sul “meno peggio”), oppure tra liste motivate soltanto dal glorioso simbolo della falce e martello o il “voto utile”, è una dimostrazione di impotenza già a livello del pensiero.
Come sempre, per avere peso politico bisogna avere peso sociale, radicamento, riconoscimento da parte dei “nostri”, idee chiare sul nemico principale e sulla prospettiva. E senza quel peso, senza quelle idee, si assiste alla partita giocata da altri, sempre più da distante.
Ieri si è rotta una cappa e diverse dighe. Al referendum di ottobre si gioca il futuro degli assetti costituzionali di questo paese: o asserviti “senza e se e senza ma” alle logiche della Troika, espropriati di ogni diritto e facoltà legale di resistenza, oppure pronti a battersi per prospettare una rottura difficilissima di questa gabbia. Ma ora la possibilità di fa vincere un forte “NO” sono decisamente più alte e robuste.
Non a caso, già stamattina, dal quotidiano di Confindustria arriva il consiglio – diretto a Renzi e alla sua corte – di “legare la riforma della Costituzione alla stabilità del Paese, alla blindatura dentro l’Europa, alla tenuta dello spread. Definirsi, cioè, come l’argine ai populismi”. E soprattutto quello di rivedere la legge elettorale chiamata Italicum, pensata per dare potere assoluto a un leader e un partito, chiunque esso fosse, perché tanto “il programma di governo” doveva essere quello disegnato dalla Ue. Questo schema, che sembrava una garanzia per l’oligarchia, ora appare come un pericolo mortale, perché il vincitore potrebbe essere qualcuno non preventivamente inscritto nel cerchio poco magico dei servi.
Basterebbero queste poche osservazioni a far dire che ora la partita è di nuovo aperta. Dunque sarebbe da criminali – o da idioti – non giocarla. A partire dalle periferie, dai luoghi di lavoro, dalla precarietà contrattuale ed esistenziale. A partire dall’organizzazione quotidiana dei “nostri”.
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