I principali indicatori economici segnano calma piatta, dopo tre giorni di “euforia” successivi all’omicidio: le borse sono intorno alla parità, la sterlina ha smesso di svalutarsi, alcuni commentatori – anche autorevoli – ammettono soltanto ora che “Brexit o non Brexit cambierà poco”. Fine dell’allarmismo catastrofista, fine degli appelli stile “dopo sarà solo diluvio universale”.
Gli ultimi colpi a favore del remain li hanno portati personaggi noti, soprattutto finanzieri; e già questo dovrebbe far sospettare qualcosa. Se poi ci si sofferma sulle interviste paradossali condotte da George Soros, si può toccare con mano il senso della presa in giro universale:
«Il pound cadrà fortemente e velocemente (in caso di Brexit, ndr) mi aspetto che la svalutazione sia più devastante del 15% registrato nel settembre 1992 quando fui fortunato abbastanza da realizzare profitti significativi a spese della Bank of England e del governo britannico... Il pound potrà perdere più del 15, forse il 20% passando da 1,46 a meno di 1,15 sul dollaro che significa una caduta di quasi il 30% dal valore precedente la campagna referendaria».In pratica è come se avesse detto: “restate nella Ue, impeditemi di fare altri soldi!”. Davvero convincente, addirittura commovente...
Propaganda a parte, la calma piatta sui mercati sembra dettata da molti altri fattori. In primo luogo dalla liquidità in quantità mostruose che prima la Federal Reserve, poi la Banca del Giappone e da oltre un anno anche la Bce hanno “pompato” nei circuiti finanziari.
Un gioco che però non sembra aver avuto altri effetti positivi, tantomeno sull'economia reale, ferma al palo o arretrante da otto anni a questa parte. Ciò nonostante, sospendere questo gioco avrebbe effetti probabilmente devastanti, e infatti la Fed statunitense – dopo un timidissimo rialzo dei tassi di interessi alla fine di dicembre (da zero a 0,25%) – sembra aver rinunciato a buona parte dei quattro rialzi che aveva messo in programma per l’anno in corso.
Sarò anche vero che la Fed deve tener d’occhio – per statuto – sia l’andamento dell’inflazione (quasi impercettibile, per ora) che quello dell’occupazione, ma proprio quest’ultimo dato sembra ormai inaffidabile in seguito alle ripetute manipolazioni “ottimistiche” dei criteri statistici di rilevazione. Ufficialmente è al 5%, ma se si dovessero conteggiare – come sembra logico – anche gli “scoraggiati” (i disoccupati che non si iscrivono più nemmeno alle liste di collocamento, tanto...) si salirebbe in un attimo a cifre mostruose, vicine al 30% della popolazione in età lavorativa.
E infatti la “nuova occupazione”, negli Usa ma non solo, è fatta soprattutto di lavoretti precari, a bassa qualificazione e ancor più basso stipendio. Nulla, per capirci, che possa spingere all’insù i consumi interni e dunque tutta la baracca della produzione.
Soprattutto, la Fed ha ieri scoperchiato un piccolo segreto che i mercati conoscono benissimo: i prezzi delle azioni sono troppo alti. C’è una sopravvalutazione che minaccia la stabilità dei mercati (il rapporto price/earning viaggia intorno a 21, mentre i manuali giudicano “ottimale” un massimo di 16; in pratica il 20% in meno). E questo senza nominare il “morto in casa” delle aziende private quotate: profitti costantemente in calo e indebitamento mostruoso (spesso aperto per ricomprare azioni proprie, così da gonfiarne maggiormente il valore da iscrivere a bilancio).
Una eventuale Brexit, in questo mondo, aprirebbe in effetti un periodo di grande instabilità, con riduzioni generalizzate dei prezzi e rischi seri di “panico”, anche di dimensioni estese.
Una preoccupazione sufficientemente forte da giustificare ampiamente un “omicidio riparatore”.
Il problema è che anche così, si tratta solo di un rinvio. Se pure la Gran Bretagna resterà nell’Unione, infatti, “i mercati” ci avranno guadagnato solo un prolungamento dello status quo, non certo una spinta all’espansione.
I fattori di crisi restano dove sono: nei bilanci delle multinazionali, nelle “sofferenze” bancarie globali, nell’immenso ed etereo mercato dei “prodotti derivati” che nessuno sa più come valutare. Un solo numero per avere un’idea della dimensione del problema: solo Deutsche Bank ha emesso titoli derivati per 75.000 miliardi di euro. Venti volte il Pil della Germania; una cifra che non ha senso, ma soprattutto non prevede freni e leve che possano tenerla sotto controllo.
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