di Chiara Cruciati - Il Manifesto
Cento corpi al giorno si
aggiungono ai cinque milioni seppelliti negli ultimi 1400 anni. Il
cimitero della Valle di al-Salam è il più antico al mondo, si dice.
Sorge nella provincia di Najaf, città simbolo degli sciiti iracheni: qui
riposa Ali, genero di Maometto e capostipite della setta sciita. Hamid
al-Wad lavora tra tombe e lapidi millenarie: «Prima ero solito
seppellire 13-14 corpi al giorno. Oggi ne riceviamo 100, tutti
combattenti sciiti».
La guerra in corso in Iraq contro lo Stato Islamico porta morte e distruzione.
I cadaveri di al-Salam arrivano da Ramadi, Fallujah, dai fronti aperti
dove a combattere sono l’esercito governativo e le milizie sciite.
A Baghdad si preferisce non rendere noti i bilanci: troppi morti non
farebbero che infiammare ancora di più l’atmosfera già tesa che regna
sulla capitale. Meglio tenere su il morale con le vittorie
segnate ogni giorno e a volte ingigantite: venerdì il premier al-Abadi
dava Fallujah per liberata ma così non è. Si combatte ancora, per le
strade della città, perché i miliziani dell’Isis sono ancora nascosti e
lanciano attacchi contro gli uomini del governo.
La crisi umanitaria è esplosiva. Se a Najaf seppelliscono i
combattenti sciiti, qui sono i sunniti a vivere un dramma senza fine che
non potrà che avere effetti sul futuro del paese: in soli tre giorni,
quelli più duri della battaglia agli sgoccioli, sono fuggiti 30mila
civili dopo l’ingresso nel centro città delle forze governative.
Si sono uniti ai circa 32mila scappati nelle settimane precedenti.
Altri 25mila potrebbero seguirli a breve. A dare i numeri è il Norwegian
Refugee Council, l’ong chiamata a gestire i campi improvvisati dal
governo, numeri enormi impossibili da affrontare: non basta il cibo, non
basta l’acqua e non bastano i medicinali. Non sono sufficienti nemmeno i
ripari: la maggior parte degli sfollati vive e dorme all’aria aperta,
sotto il sole cocente dell’estate irachena.
«Queste persone hanno camminato per giorni – spiega Lise Grande,
coordinatrice umanitaria dell’Onu in Iraq – Hanno lasciato Fallujah con
niente, non hanno nulla con sé». Un disastro umanitario, lo definiscono
le Nazioni Unite, a cui Baghdad prova a mettere freno promettendo la
costruzione di altri 10 campi per gli sfollati. L’obiettivo è tenerli
dentro la provincia di Anbar per impedire un nuovo esodo verso Baghdad
che già da tempo ha chiuso le porte ai sunniti sfollati, nella
convinzione che tra loro si nascondano miliziani islamisti o nel timore
che modifichino la bilancia demografica interna.
Alle condizioni di vita al limite della sopravvivenza si
aggiungono le uccisioni per mano dell’Isis che tiene in ostaggio ancora
decine di migliaia di civili e le violenze perpetrate dalle milizie
sciite contro chi fugge e viene catalogato come “collaboratore” degli
islamisti. Abusi che fanno il gioco dell’Isis: il “califfato”
sa di aver perso fisicamente Fallujah: ha lasciato a difenderla pochi
uomini (non i migliori, ma quelli “sacrificabili”) perché è consapevole
che la presa sull’Iraq non ne uscirà allentata.
Tale sicurezza gli deriva dalla strategia che impiega nell’intero paese. O meglio le tre strategie, abilmente interdipendenti. La prima è quella militare:
gli attentati nelle città orientali, da Baghdad al sud sciita, servono a
concentrare l’attenzione delle forze armate sulla difesa della
capitale, allontanandone una parte dalle linee del fronte occidentale. La seconda è politica:
gli attacchi perpetrati contro i quartieri sciiti indeboliscono
ulteriormente il governo centrale, già alle prese con accuse di
corruzione e nepotismo e le conseguenti proteste di piazza. Infine la strategia settaria:
la violenza vomitata sulle comunità sciite viene fatta passare come
prodotto di quelle sunnite, erroneamente e superficialmente identificate
come alleate dell’Isis; dall’altra parte sono gli abusi sciiti contro i
sunniti – figli spesso del desiderio di vendetta, come gli stessi
miliziani sciiti hanno più volte ripetuto – a frammentare ancora di più
l’unità nazionale.
Baghdad prova a cementare le forze in campo: alla battaglia per Fallujah partecipano anche milizie tribali sunnite.
Dopo la ripresa della sede del governo, lo scorso venerdì, restano
poche sacche islamiste. Ieri è stato liberato l’ospedale, mentre il
generale al-Obeidi, comandante in capo, prevedeva la ripresa definitiva
«entro pochi giorni», quando case ed edifici saranno stati perquisiti e
ripuliti dalla presenza jihadista. Il premier al-Abadi festeggiava già
quattro giorni fa quando in tv parlava di liberazione completa:
«Fallujah è tornata alla nazione, Mosul sarà la prossima battaglia».
L’obiettivo è palese: concentrare la popolazione sulle vittorie per
farle accotonare le ragioni della protesta che ha investito Baghdad a
maggio.
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