di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Stavolta Fallujah è stata
liberata davvero: dopo una settimana di annunci che rimbalzavano sul
muro di gomma della resistenza islamista, il primo ministro iracheno è
entrato in città. «Chiedo a tutti gli iracheni, dovunque siano, di
uscire e festeggiare – ha detto al-Abadi alla tv di Stato Iraqiya – Innalzeremo presto la nostra bandiera a Mosul». Una
dichiarazione che contiene due elementi importanti, i due obiettivi
della strategia di Baghdad per l’immediato futuro: evitare
l’allargamento delle divisioni confessionali che infiammano il paese da
oltre un decennio e strappare all’Isis la sua città-simbolo.
Fallujah, seconda città della provincia di Anbar, incubatrice del
movimento di resistenza sunnita all’invasione Usa prima e al governo
sciita del post-Saddam dopo, è stata definitivamente ripulita delle
ultime sacche Isis domenica. Il “governatore” di Fallujah dello Stato
Islamico, Abu Hajar Isawi, sarebbe fuggito a Mosul e qui, secondo i
media iracheni, sarebbe stato giustiziato per aver abbandonato la città.
Ora per l’esecutivo si apre la vera sfida, non più militare ma politica.
La città – sebbene il generale al-Saadi, responsabile dell’operazione,
abbia affermato che solo il 10% di Fallujah sia stato distrutto in due
anni e mezzo di occupazione – è da ricostruire. I quartieri più
danneggiati sono quelli meridionali, usati dalle forze di élite irachene
per infiltrarsi, e c’è da fornire subito ai civili rimasti in
città i servizi base, cibo e acqua: gli sfollati hanno raccontato della
disperazione delle famiglie, private del cibo per la mera sopravvivenza.
Ma i timori più consistenti non riguardano le infrastrutture, ma la strategia che Baghdad dedicherà a Fallujah. I
previsti abusi sui civili in fuga si sono già registrati e, nonostante
l’apertura di inchieste, la risposta del governo è debole. È debole nei
campi profughi allestiti fuori e presi d’assalto da 80mila
persone in pochi giorni, dove sono già venti i morti per il caldo
soffocante, la carenza di tende e cibo, la scarsità d’acqua e medicine; ed
è debole nel controllo delle milizie sciite che a Fallujah – come prima
a Tikrit e Ramadi – fanno il bello e il cattivo tempo. Nelle
settimane di controffensiva appena trascorse, le denunce di torture
hanno accompagnato l’operazione militare insieme alla sparizione in
centri di detenzione ufficiosi di centinaia di civili, accusati di
collaborazionismo con lo Stato Islamico.
Secondo fonti locali, sarebbero 20mila i residenti di
Fallujah che esercito e milizie sciite stanno controllando per evitare
che tra gli sfollati si nascondano miliziani del “califfato”. Di questi
11.605 sarebbero stati rilasciati, 7mila sarebbero ancora sotto
interrogatorio e 2.185 arrestati perché sospettati di affiliazione
all’Isis. Numeri elevatissimi che di certo non aiutano a
cementare la necessaria fiducia tra governo centrale e comunità sunnita,
ma che per Baghdad è procedura fondamentale. In teoria lo è, ma a
preoccupare sono le modalità con cui lo “screening” viene effettuato:
chi ne è uscito racconta di persone arrestate sulla base di
dichiarazioni di altri residenti, denunce non confermate da prove, e di
giorni trascorsi senz’acqua né cibo, sotto gli occhi dei miliziani
sciiti.
Fallujah va riconsegnata presto ai suoi cittadini: una volta ripulita
da mine e ordigni nascosti, barbaro e sinistro lascito dello Stato
Islamico in ogni città da cui è cacciato, e una volta lanciata la
ricostruzione di base, i residenti devono tornare. E con il
rientro va garantita l’immediata inclusione politica della comunità
sunnita: nella provincia di Anbar l’Iraq si gioca l’unità, come a Sadr
City – teatro della rabbia sciita per la corruzione dilagante – si gioca
la sopravvivenza. Proprio a sud della capitale, ieri, l’Isis
ha ricordato a tutti che le sue metastasi continuano a destabilizzare:
un’autobomba ha ucciso due persone e ne ha ferite cinque.
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