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27/06/2016

Contorsioni logiche della sinistra europeista


Al cuore del vero e proprio terrore che sta rappresentando la Brexit per il ceto politico europeista sta un dato: a differenza della Grecia, la Gran Bretagna non fallirà. Anzi, come timidamente stanno dicendo diversi economisti, l’indebolimento della sterlina e la riappropriazione di alcuni strumenti economici non più mediati da Bruxelles, dovrebbe aumentare addirittura la competitività del paese. Un discorso che ci interessa il giusto, tutto interno alle classi dominanti inglesi, ma il fallimento dell’unica “narrazione forte” agitata dalla Ue contro ipotesi di uscita sta terrificando i commentatori filo europeisti. Fuori dalla Ue non c’è il paventato disastro sociale e politico. Se disgraziatamente la Gran Bretagna dovesse continuare a crescere economicamente, lo spettro ideologico verrebbe meno e a quel punto ogni altra argomentazione si scontrerebbe col principio di realtà per cui l’Ue non è il nostro unico orizzonte.

In questa maratona dialettica che ha mobilitato tutti i pasdaran europeisti, l’altra “narrazione forte” è data dallo “scontro generazionale” disegnato dal voto: da una parte i vecchi, reazionari e xenofobi, dall’altra i giovani, progressisti e cosmopoliti.




Uno dei più triti cliché populisti, cavallo di battaglia del renzismo, viene fatto proprio da tutta la sinistra funzionale, quella à la Saviano. Eppure, stando ai dati, anche questo è un altro artificio populista non confermato dai fatti. Secondo le analisi del voto, i giovani, semplicemente, non hanno votato. Alla faccia della “generazioni Erasmus”, ai “giovani” – non si sa bene per quale motivo destinatari naturali delle virtù progressiste – del referendum gliene è fregato il giusto. Tra i 18 e i 24 anni hanno votato il 36% degli elettori.


Però “i giovani erano per la Ue”, ci dicono i sòla mediatici, soggiogando ideologicamente quella sinistra prona ai diktat culturali di Bruxelles. Saviano, peraltro, è lo stessa persona che qualche settimana diceva delle elezioni napoletane: “De Magistris è adesso pronto a vincere un nuovo ballottaggio catalizzando forze che vanno dall’ex rettore democristiano dell’Università di Salerno, Raimondo Pasquino, alle avanguardie di Hamas a Napoli[…]De Magistris in questo modo ha parlato ai tifosi, agli ultrà, perché è questo che ha costruito attorno a sé: un appoggio strappato agli ultimi residuali centri sociali”. Il disprezzo aristocratico dell’intellettuale agiato verso le classi popolari è davvero disarmante, ma ci racconta il personaggio che è sempre stato Saviano. In buona compagnia, peraltro:

Il recupero di certe retoriche da parte di pezzi di sinistra è invece meno comprensibile, se non attraverso un estremo tatticismo alla canna del gas che si serve di Saviano per andare contro le classi subalterne inglesi pur di inserire il voto per il Brexit nei propri frame analitici completamente scollegati dalla realtà, tutti ultra-ideologici e politicisti (del tipo: “avreste fatto meglio a rimanere nella Ue, poi costruire il partito comunista, poi prendere la maggioranza dei voti e instaurare il socialismo in tutta Europa”: come non averci pensato prima!).


A questa logica contorta e smentita dai numeri reali, se ne aggiunge un’altra, più manifestamente classista ed elitaria, per cui le classi subalterne voterebbero sovente “di pancia”, disinformate, vittime dei populismi, eccetera.


Motivazioni generiche e, come sempre, ultra-elitarie, che non tengono in considerazione il contesto in cui si è prodotto questo voto popolare contro la Ue. E’ vero che quasi mai le classi subalterne votano per i propri interessi materiali (questo però vale sempre, anche quando si invoca la democrazia referendaria come strumento di partecipazione popolare), ma questo è un fenomeno prodotto dalla copertura culturale che mistifica gli interessi reali della popolazione. Il capitalismo, detto altrimenti, si riproduce anche attraverso forme di assoggettamento culturale che determinano la natura alienata delle scelte politiche del proletariato. Se “le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti”, questo comporta che anche la maggioranza dei lavoratori tenderà ad essere assuefatta al dominio ideologico del capitale. Nel voto sulla Brexit però è avvenuto esattamente il contrario: tutta la struttura economica, tutta la produzione culturale, quasi tutto il ceto politico liberale, in una parola: tutti coloro che contribuiscono alla sedimentazione delle idee dominanti in una società, erano manifestatamente per il remain. Se gli elettori hanno bocciato questa visione egemonica è proprio perché hanno votato di pancia invece che di testa, hanno cioè votato in base alle proprie condizioni di classe e non alla propria mistificata rappresentazione di sé data dal contesto capitalista delle idee dominanti.

L’altra argomentazione priva di logica è quella per cui Ulster e Scozia avrebbero votato per il remain, *dunque* la direzione del voto “democratico” e “progressista” certificherebbe una volontà di Europa. Tra le varie scemenze sentite in questi giorni, questa è la più grossolana. A parte celare volutamente tutto il dibattito intorno all’involuzione politica dello Sinn Féin, che quantomeno dovrebbe far prendere cum grano salis le sue posizioni, ma l’Ulster ha un governo di centrodestra, guidato dal Partito unionista democratico, che è un partito unionista, filoinglese e liberista. Dunque, nell’Ulster il voto è già tendenzialmente “di destra”, solo che se votano per il remain questo si trasforma magicamente in voto “di sinistra”. Miserie della politica e dei suoi politicanti social. La Scozia, viceversa, è governata da un partito di centrosinistra, lo Scottish national party, che da anni sfrutta l’Unione europea come contrappeso all’invadenza inglese negli affari della nazione scozzese. Ed è proprio in questo senso che va letto il voto nord-irlandese e scozzese per il remain: l’eventualità dell’uscita della Gran Bretagna dalla Ue consente alle due nazioni colonizzate di richiedere una riammissione, a quel punto mandando in crisi l’unità britannica e procedere così all’agognata liberazione. Una mossa tattica peraltro condivisibile, dove la differenza politica decisiva tra le forze in campo è attorno all’adesione o meno al dominio inglese. Sono questioni interne alla dialettica britannica, difficilmente generalizzabili, che assumono una valenza decisiva in quel contesto ma non replicabili su scala continentale.

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