Le periferie cominciano a fare paura alle classi dominanti. Fatte le dovute proporzioni, i risultati del voto nelle periferie di Roma e Torino hanno mandato un segnale di allarme ben leggibile nell’editoriale del Corriere della Sera romano del 18 giugno. Di fronte alla riduzione del Pd a partito dei quartieri ricchi, centrali, gentrificati, e al massiccio voto al M5S nelle periferie, l’editorialista Paolo Conti scrive che “sarebbe spaventoso se lo schema, nel caso delle rispettive vittorie, spingesse i due candidati ad accontentare le diverse basi elettorali”.
Insomma dopo anni di distrazione, rimozione, quasi una teologia dell’esclusione in nome del dogma liberista (“se sei povero o disoccupato è solo colpa tua che non sfrutti le opportunità che ti si presentano”) o, diversamente, di narrazione tossica sulla dimensione illegale e criminale ben presente nelle periferie – mettendo sullo stesso piano l’occupazione delle case e la malavita –, l’editorialista del Corriere della Sera scrive parole preoccupatissime sul fatto che, una volta che questo mondo rimosso si è preso la rivincita, occorre impedire che pesi proporzionalmente nella distribuzione delle risorse della città. Solo adesso si preoccupa della necessità di “amministrare la Capitale, tutta, risolvendo quanto più possibile i problemi dei romani, nessuno escluso… Impensabile salvare solo il centro o solo le periferie”. Un discorso quasi di buon senso ma colpevolmente tardivo e strumentale. E’ come ricordare il rispetto delle regole del gioco solo quando si sta perdendo la partita dopo averne abusato ampiamente mentre si vinceva.
Ma la paura delle periferie va ben oltre la preoccupazione di una espressione elettorale in qualche modo “vendicativa” verso le classi dominanti. Dicevamo preliminarmente che vanno fatte le dovute proporzioni. Infatti la preoccupazione era nata già nel 2005 con la rivolta delle banlieue francesi, liquidate come “canaglia” da Sarkozy, affrontate solo sul piano del rafforzamento degli apparati coercitivi e con la riduzione degli strumenti di intervento sociale in nome del taglio della spesa pubblica. Perché mai spendere soldi del bilancio per quelle canaglie delle banlieue? Dieci anni dopo il fantasma delle periferie si è ripresentato come incubo attraverso i lupi solitari arruolati e scatenati a Parigi e Bruxelles dall’Isis. Figli delle banlieue, nati qui, cresciuti qui, tagliati fuori qui, messi in carcere qui, eppure proprio qui trasformatisi in miliziani capaci di seminare e tenere in scacco due grandi e significative metropoli/capitali europee.
La preoccupazione per le periferie è leggibile nel recente numero speciale della rivista italiana di geopolitica Limes ad esse specificatamente dedicato. Da un lato assistiamo al processo di inurbamento di enormi masse di contadini che vi si trasferiscono dalle campagne nei paesi in via di sviluppo (dalla Cina all’India, dal Messico al Brasile), dall’altro vediamo la concentrazione ed emarginazione naturale di quella “capacità produttiva in eccesso” che in questo caso coincide con persone in carne ed ossa. Il “capitale umano” lo chiamano oggi, il “capitale variabile” lo definiva Marx, arruolandone però quote consistenti nell’esercito salariale di riserva (leggi disoccupati, precari, working poor) oggi cresciuto a dismisura sia con la disoccupazione strutturale e tecnologica sia con i bassi salari e la precarietà estesa, diffusa, dominante e pervasiva di tutto il mercato del lavoro.
Ammucchiare le persone nelle periferie, soprattutto quelle persone e quei luoghi non decisivi per la massima valorizzazione dei capitali investiti (e nelle metropoli i capitali investiti stanno crescendo sia per l’eccesso di liquidità finanziaria sia perché ogni margine di valorizzazione va sfruttato fino al midollo), trasforma le periferie metropolitane in magazzini di forza lavoro disponibile (come direbbe Engels). Ma dopo aver disgregato la forza lavoro per indebolirla, hanno commesso l’inevitabile errore di concentrarla di nuovo, stavolta non più nelle fabbriche ma in territori allucinanti e allucinati, lontani dalle città vetrina. Con la marginalizzazione urbana e l’aumento degli strumenti coercitivi – magari con meno poliziotti per strada e più telecamere, proprio per privilegiare la funzione punitiva piuttosto che quella preventiva –, le classi dominanti avevano ritenuto di aver destrutturato abbastanza bene le metropoli dopo aver destrutturato le strutture produttive e i servizi strategici. Come sottolinea la stessa Limes, questo sogno si sta infrangendo.
E allora, sempre facendo le dovute proporzioni, se in Francia sia in Belgio l’incubo delle periferie ha avuto prima le caratteristiche delle rivolte urbane e poi quello delle cellule islamiche, in Italia – molto più moderatamente – ha avuto le caratteristiche di “un voto per vendetta”. Per gli appassionati di Corrado Guzzanti possiamo dire che quella di Roma e Torino è stata la rivincita del mondo del comico trash Bizio Capoccetti contro il mondo ricco, stucchevole, intellettuale, politicamente corretto, insopportabile e spocchioso del prof. Bambea. Questa tanto attesa rottura tra il “Mondo di sotto” e il “Mondo di sopra” (quello “di mezzo” è stato per ora depotenziato), è stata una sorta di resa dei conti dovuta, anche se ancora spuria. C’è ancora tantissimo da fare e lavorare affinché la rabbia popolare maturi e consolidi una visione verticale dell’inimicizia e dell’antagonismo (verso “i ricchi”) e respinga quella orizzontale (la guerra tra poveri) che è sempre quella più semplice da innescare, raccontare e gestire.
La ripresa dell’analisi, dell’intervento e del conflitto organizzato nelle e dalle periferie urbane, si deve ricomporre con il conflitto sindacale nei luoghi di lavoro e con quello sociale in tutta la sua ampiezza. Ma per fare questo è decisiva una visione “politica” cioè una visione complessiva delle contraddizioni e del nemico contro cui organizzarsi per affermare i propri interessi. L’Unione Europea ad esempio, ha questa valenza di identificazione come nemico comune, una rottura di questa gabbia avrebbe una forte capacità ricompositiva. Già il solo sostituire la parola “interessi” a quella ormai depotenziata di “diritti” sarebbe un salto di qualità per farsi capire dai settori popolari. Riconoscere i propri interessi e riconoscerli come dimensione collettiva è uno snodo ineludibile per seminare nuovamente identità di classe dentro la nostra gente. E da dove ricominciare se non lì dove il nemico ha commesso l’errore di concentrarla, dunque le aree metropolitane e le loro periferie?
Insomma, per ora è stato solo un voto, ma tanto è bastato per suscitare un allarme “tra i ricchi”. Un voto è di per sé a tempo, aleatorio, mutevole, ma è anche un test: indica una percezione e una rottura che prima non si era manifestata. E’ la rappresentazione di una composizione sociale e una identità spurie. Ma si tratta di materia prima preziosa da trasformare in conflitto e coscienza di classe. I comunisti e i rivoluzionari devono decidere se sporcarsi le mani e praticare la scuola della strada (migliorando al tempo stesso la visione generale) o abbandonarsi ad una residualità certificata ormai come estranea dal blocco sociale antagonista oggi possibile.
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