Da due mesi l’imponente opera d’arte di William Kentridge campeggia
sui bastioni del Lungotevere. Merita una riflessione politica, perché
l’opera segna una discontinuità a nostro avviso decisiva nel rapporto
disarticolato tra arte e società nel XXI secolo. In questi mesi si sono
sprecati i commenti (per una panoramica: il manifesto, Domus, il lavoro culturale),
tutti generalmente entusiasti del lavoro compiuto dall’artista
sudafricano. Per una volta concordiamo. Non ci soffermeremo sulle
qualità artistiche, già svelate da molti autorevoli critici e
commentatori d’arte, e che riprendono tutto sommato modelli ampiamente
utilizzati della land art già in voga dagli anni Sessanta. Ci
piacerebbe però rilevarne la natura e l’importanza politica. Un
rapporto, quello tra arte e politica, rotto da decenni e che Kentridge
ripropone in una veste nuova.
E’ inevitabile partire dal metodo utilizzato da Kentridge: togliere
invece che aggiungere, sottrarre invece di sommare. Niente di
rivoluzionario per l’arte contemporanea, ma utilizzato in maniera
incisiva e non invasiva. Un metodo che andrebbe replicato nella gestione
della città nel tentativo di risolverne le sue annose contraddizioni.
L’artista pulisce i muraglioni (orribili, il segno peggiore lasciato in
eredità dall’amministrazione sabauda nell’800) che ingabbiano il Tevere
dalla loro naturale patina biologica. L’immagine emerge da questa
rimozione delle concrezioni organiche, e per tale motivo è un’opera
destinata a scadere. L’immortalità dell’opera che sopravvive al suo
autore cede il passo al corso della storia. Un tentativo sicuramente
opinabile ma originale, che disattiva presunte eternizzazioni dell’arte.
In secondo luogo, l’opera sembra essere sempre stata lì, invecchiata
con la città, residuo del passato. Non stravolge il paesaggio, non
impone soggetti alieni in un panorama decisamente poco disponibile a
mutazioni di segno. Il centro storico di Roma è estremamente rigido alla
trasformazione, ogni mutamento assume le forme dello stravolgimento:
una strada fuori scala, una roccia diversa dal travertino, un colore
troppo acceso, eccetera: ogni qual volta la modernità ha cercato di
farsi strada nel cuore della città antica ha prodotto disastri
architettonici, urbanistici o artistici. Anche la famigerata teca di Meier,
opera in sé non disprezzabile, soffre della diversa dimensione, del
diverso colore e della diverso ruolo rispetto al quartiere circostante,
determinandone la natura aliena al tessuto urbano. E questo nonostante,
paradossalmente, restauri l’asse viario di via Ripetta devastato dal
fascismo. Non è una questione di bellezza o bruttezza dell’opera in sé,
ma la sua capacità di relazionarsi col contesto nel quale viene calata.
Questo processo è reso incredibilmente armonioso da Kentridge. L’opera
muraria non si presenta come “falso antica”, non rimanda all’antichità
classica attraverso intenti “neoclassicheggianti”, è in tutto e per
tutto un’opera moderna. Eppure, si innesta nel Lungotevere in maniera
talmente equilibrata da risultare immediatamente parte di esso, senza
traumi, senza organicità forzate.
L’opera peraltro si presta ad una doppia modalità di visione.
Camminandoci affianco, si procede figura per figura, apprezzandone il
contenuto artistico materiale; dalla sponda opposta del Tevere, si ha al
contrario la visione complessiva, davvero monumentale senza però
risultare fuori scala. Oltretutto, altra caratteristica rilevante: è
pubblica e gratuita. Come tutte le altre opere d’arte contemporanea
inserite nei tessuti cittadini, si potrebbe obiettare, eppure la natura
pubblica in questo caso sembra essere più manifesta, più fruibile e
accessibile. Non bisogna andarci “apposta”, ma è al centro di una delle
zone più trafficate della città (i lungotevere appunto). Anche la sua
inaugurazione è avvenuta attraverso spettacoli teatrali gratuiti e
accessibili. Purtroppo, nessun soldo pubblico è stato speso nella sua
realizzazione. Questa, che è una caratteristica esaltata dai vari
commentatori, ci sembra piuttosto un suo limite. L’artista ha potuto
produrla in quanto già affermato, e attraverso la sua notorietà è stato
possibile raggiungere i finanziamenti necessari alla realizzazione
(circa 800.000 euro). Non ha gravato sulle casse pubbliche, si dirà. E
però ha contribuito a sancire un metodo, quello della privatizzazione
della possibilità di fare arte. In questo caso il risultato è ottimo, ma
quanta produzione artistica si ritrova a non potersi esprimere per
l’accesso negato in partenza da un mercato esclusivamente privato? La
forza artistica di Kentridge avrebbe potuto ribaltare questa dinamica,
purtroppo rimarrà un’occasione sprecata.
Nel merito, invece, l’opera passa in rassegna alcuni momenti della
storia della città, senza filo storico, anzi rifiutando il corso lineare
della storia, affermando così il suo obiettivo: dimostrare che la
storia è un seguirsi di “trionfi e lamenti”, le vittorie degli uni
rappresentano le sconfitte degli altri, non c’è mai una verità
universale ma sempre un senso relativo degli avvenimenti. Le vicende di
una città densa di storia come Roma si susseguono senza filo logico ma,
nell’insieme, il messaggio è che la storia procede attraverso i suoi
opposti, senza verità ufficiali. C’è Aldo Moro e Giorgiana Masi, Romolo e
Anna Magnani, i bombardamenti del 1943 e i migranti sbarcati a
Lampedusa, e via dicendo. Questa impostazione radicalmente relativista è
al tempo stesso interessante e ambigua.
Interessante perché
contribuisce a smontare il cliché positivista per cui la storia procede
tendendo al progresso: non c’è alcun progresso automatico nella sviluppo
umano, se non quello dato dai rapporti sociali che si stabiliscono tra
gli uomini, che prevedono però anche fasi regressive.
Ambiguo perché la
rivendicata “assenza di verità” è di per sé fuorviante. Ammettere che
nella storia non ci sia “verità” è falso. Tra lo schiavo e il suo
padrone, tra lo sfruttato e lo sfruttatore, non può esserci relativismo,
ma una verità celata dal rapporto alienato che intercorre tra i due
soggetti nella sua forma impersonale che questo assume nella società. La
verità è appunto lo sfruttamento, e l’opera di rimozione consiste nel
celare questo sfruttamento attraverso l’eternizzazione (e
l’idealizzazione) dei rapporti sociali.
Detto altrimenti, in riferimento
all’opera, tra Aldo Moro e Giorgiana Masi non c’è equilibrio che tenga,
non fanno parte tutti e due della violenza della storia, ma il primo è
l’emblema di una storia (spersonalizzata ovviamente) di oppressione,
mentre la seconda è il simbolo della lotta contro l’oppressione. La
verità nella storia esiste e sta nel rivendicare la natura diversa dei due soggetti, non in quanto individui ma in quanto concretizzazioni particolari di un movimento storico.
Ovviamente non si può pretendere da un’artista scollegato da
qualsiasi rapporto dialettico ma organico con la classe una presa di
coscienza “filosofica” materialista. Smontare la narrazione dominante
per cui la verità ufficiale è l’unica verità possibile, relegando la
“controstoria” a complottismo, è già di per sé un’operazione culturale
d’opposizione che va segnalata. Nella storia eterna di Roma fa parte il
suo fondatore Romolo, l’imperatore Caligola, Anna Magnani così come la
morte di una ragazza simbolo del conflitto di classe. E la storia non è
la somma, ma la sintesi del conflitto necessario che intercorre tra
questi vari soggetti. Per questo Kentridge li dispone sincronicamente.
Non ci sbilanciamo nel dire se questa sia l’impostazione più adeguata.
Ci limitiamo a rilevare che da molti anni mancava a Roma un’operazione
artistica che facesse pensare, integrandosi nella società e nella storia
della città da un punto di vista anche politico. Non ci sembra poco.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento