Il giorno della civetta, dal
romanzo di Sciascia e dalla riduzione cinematografica di Damiani, è
quello che permette di capire chi vale e chi è solo fatto di parole. A
quest'ultima categoria appartiene sicuramente, ma non c'era bisogno del
voto delle amministrative per saperlo, Matteo Renzi. Non solo perché il
PD ha perso in tre aree metropolitane su quattro (e non è poco) ma
soprattutto perché, voto dopo voto, è Matteo Renzi stesso a rendersi
sempre più improbabile. Con dichiarazioni tipiche di chi prova a
ripetere schemi vincenti, simili al bonus 80 euro, in un campionato dove
tutte le squadre sono attrezzate proprio al contropiede su questi
schemi. Un logoramento dell'immagine, dovuto anche a una sovrapposizione
mediale del premier, che rischia di essergli fatale al referendum di
ottobre (periodo in cui si concentrano spesso, oltretutto, tutte le
tensioni sociali della stagione autunno-inverno).
Il voto delle amministrative va saputo leggere bene. Allora regalerà più certezze analitiche che politiche.
Cominciando però dall’impolitico, ovvero dall’astensione molto alta, qualche prima certezza viene fuori.
Nei decenni passati l’alta astensione era considerata un fenomeno
tipico della affluent society, la società del raggiunto benessere. Dove
il disinteresse per la politica coincideva con stabili livelli di
consumo. Oggi, in Italia, l’alta astensione coincide con la regressione
dei diritti materiali di cittadinanza, dei consumi e della capacità di
far circolare ricchezza. Chi vuol pescare, a vario titolo, in questa
fascia di popolazione deve saperci entrare (spesso astensione e
analfabetismo da società digitale coincidono) e non è facile. Ma veniamo
al resto.
Prima considerazione: la data.
La mattina del 20 giugno giornali e siti, per non parlare dei social,
avevano già ampiamente decretato la sconfitta di Renzi, che pur ha vinto
a Milano, la vittoria del Movimento 5 stelle e l'ottimo risultato di De
Magistris. Il 20 giugno non è mai una data qualsiasi nella politica
italiana. Nel 1976 decretò sia il punto elettoralmente più alto del Pci
che l'inizio del suo declino (prima lento poi precipitoso con l'incedere
degli anni '80). Nel 1993, il 20 giugno rappresentò il giorno della
vittoria della Lega col candidato Formentini a Milano. L'inizio di una
vera ascesa, allora fu detto di stampo secessionista, che ha permesso
alla Lega di stare nei piani alti della politica per diversi lustri.
Oggi difficile sfuggire ad una considerazione: se si toglie la ridotta
milanese, dove le condizioni di riproduzione del solito ceto politico
banche-mattone-studi professionali si sono mantenute grazie a Expo (di
cui Sala è stato rappresentante), in tre metropoli su quattro vince chi
esce dallo schema bipolare, spesso bipartisan,
centrodestra-centrosinistra. Un risultato significativo che peserà tanto
più se le condizioni internazionali lo faranno pesare. L'asse
bipartisan centrodestra-centrosinistra, non senza contraddizioni o
lacerazioni, è infatti quello che ha tenuto in piedi, in Italia, la
costruzione post-nazionale che passa tra Unione Europea e moneta unica.
Una volta che questa costruzione fosse seriamente sinistrata non ci
sarebbe da stupirsi se quest'asse finisse definitivamente in briciole.
Seconda considerazione: il catch-all-party colpisce ancora.
Il partito prenditutto (pessima ma utile traduzione) è lo schema
classico del cartello elettorale che guadagna voti da ogni schieramento
durante le elezioni. Forza Italia delle origini, ma anche il Pdl, non
usava questo schema. Troppo ancorato a radici identitarie, e di
immagine, che impedivano un immediato trasloco dei voti da sinistra a
destra (per semplificare). Il Pd di Veltroni prima e quello di Renzi
poi, nelle intenzioni, sono catch-all-party. La vittoria elettorale di
Renzi del 2014, ad esempio, prende da destra e da sinistra. Con il mito
del capo giovane, ottimo per la destra, e quello degli 80 euro, ottimo a
sinistra. La vittoria di Raggi e Appendino avviene secondo schemi
ancora più tipici di catch-all-party. Si guardi al voto torinese,
ampiamente differenziato per intenzioni di voto al secondo turno, e a
quello romano dove elettori di sinistra, e del Pd stando agli studi sui
flussi di voto del primo turno, hanno semplicemente votato Raggi senza
grossi problemi. Prende quindi sempre più piede la rappresentazione, ma
anche la rappresentanza, di un elettorato demotic, indifferenziato. Una
rappresentazione, e una rappresentanza, nella quale Raggi o la Appendino
potrebbero essere, indifferentemente, due precarie o due manager, come
due ragazze "di famiglia". E, per adesso, questa proposta di personaggi
funziona, come lo ha fatto per Di Maio riflesso maschile di questa
svolta rappresentativa del 5 stelle (all'inizio schiacciato, giocoforza,
su Grillo).
Terza considerazione: il voto
riflette ampiamente lo scontento, generalizzato quanto è generica la
rappresentanza elettorale, di ampi strati di popolazione rispetto allo
svuotamento delle politiche locali e metropolitane. Dal 2011,
quando Trichet e Draghi scrissero apertamente a Berlusconi sulla
necessità di tagli agli enti locali, le amministrazioni territoriali
sono state letteralmente vampirizzate (in risorse e competenze). Il
furore verso mafia capitale è frutto di questa situazione, la classica
rabbia, che può prendere ogni direzione (e per questo, nel suo
complesso, è adatta a un catch-all-party) contro gli speculatori in un
contesto dove le risorse sono negate a tutti. Occhio però al riflesso
nazionale di questa situazione: il renzismo, a parte Milano (metropoli
però veloce nel cambiare poteri di riferimento perché non è città che
ama i poteri declinanti) è privo di base materiale. Berlusconi lo
sapeva, per capirlo basta entrare nel mondo reale: la depenalizzazione
del falso in bilancio ha rappresentato, simbolicamente, il
"laissez-faire" rivolto alla società italiana degli anni novanta e
duemila. La possibilità concreta di arricchirsi - consumando tutto dal
suolo ai bilanci pubblici - che era la base materiale, per molti ma non
per tutti, del consenso a Berlusconi. Renzi non manca di propaganda, e
in questo imita Berlusconi, ma manca di base materiale (a parte la
dozzina di gruppi di interesse che contano). Lo si vede anche dalle
sconfitte nella casa madre Toscana che, da Sesto Fiorentino (sinistra) a
Cascina (destra) a Grosseto (centrodestra) mostrano, in modi
diversissimi, tutto l'indebolimento della base materiale, di ricchezza e
di relazioni, sulla quale poteva contare il Pd.
Quarta considerazione: per il movimento 5 stelle, Roma e Torino rappresentano sia un trionfo che una prova dell'ordalia.
Un trionfo nazionale e globale, basta dire che Le Monde ha aperto con
la Raggi e che la notizia della vittoria romana è entrata nel circuito
delle notizie globali in maniera persino più incisiva che quella di
Renzi del 2014. La prova dell'ordalia è perlomeno intuibile: governare
metropoli complesse, in preda a trasformazioni differenti e
differentemente convulse, come Roma e Torino sarà il banco di prova più
serio di tutti. Si tratterà di capire, ad esempio, cosa ne pensa il M5S
sulla cronica assenza di fondi per gli enti locali. Se si limiterà ad
inseguire i tagli, gli imprenditori e le privatizzazioni (rischiando di
inseguire la depressione economica) o se, per mantenere servizi e
alimentare economie territoriali labour-oriented, alimenterà una
contrattazione enti locali-stato centrale in grado di invertire la
demenziale tendenza di vampirizzazione delle risorse locali degli ultimi
anni (governata da Bruxelles e Francoforte, problema non da poco)
assieme ad una programmazione che favorisce settori innovativi. Dal 20
giugno, di fatto, il M5S è già al governo del paese. Torino e Roma
portano in questa dimensione. I fatti, d'ora in poi, parleranno meglio
di qualsiasi ipotesi. Provare a fare provvedimenti “di destra” assieme a
provvedimenti “di sinistra” sarà la più facile delle tentazioni. Poi la
realtà farà capolino e imporrà delle scelte. Certo, il renzismo reale
giocherà alla delegittimazione di ogni atto del movimento 5 stelle, e al
tentativo di cooptazione di quello che può far gioco al presidente del
consiglio, ma la differenza tra marketing e governo si capirà bene.
Quinta considerazione: travolti,
dall'elettorato, dei generosi politici senza idee, senza tempra e senza
prospettive (quali Fassina e Airaudo), la sinistra fa un grosso
risultato a Napoli in prospettiva Barcellona. Ovvero di una
integrazione tra piano elettorale e movimenti che porta a governo e
redistribuzione di ricchezza in aree metropolitane. Nessun modello
celeste, ogni storia ha i suoi percorsi accidentati, ma a differenza di
Roma e Torino, De Magistris può vantare il grande valore della
riconferma. In questo senso il sindaco di Napoli, dopo il trionfo del
2011, ha passato con successo la prova dell'ordalia. Ripresentandosi
dopo cinque anni con dei buoni risultati nella salvaguardia dei beni
comuni. In una delle metropoli più complesse, se non la più complessa,
dell'Europa continentale. Ora De Magistris pare essere, leggendo le sue
dichiarazioni, di fronte ad un'altra prova: fare da polo costituente di
una sinistra nazionale di nuovo tipo. Certamente il tipo di complessità
da attraversare sarà determinato da che tipo di Europa e di Italia
usciranno tra l'estate e l'autunno.
Sembra quindi ormai in seria difficoltà
il vecchio schema politico centrodestra-centrosinistra dell'ultimo
quarto di secolo. Schema che ha accompagnato come attraversato, la
politica è sempre entro un gioco di forze che necessariamente sfuggono
allo stesso politico, sia il declino del Pil del paese che la sua
stabilizzazione entro l'asse Ue-Eurozona. Milano, che di solito anticipa
i processi in questo paese, sembra essere ancora nel passato proprio
perché vive una bolla di processi attivati da Expo, voluta dal governo
Prodi nel 2007. Questo schema sembra in crisi non solo, e non tanto, per
motivi interni. Ma perché sono in forte difficoltà le istituzioni
globali sulle quali, giocoforza e a volte anche controvoglia, si basava
lo schema centrodestra-centrosinistra come cemento nazionale di una
costellazione post-nazionale e post-politica: ue, eurozona, bce.
In politica, spesso, è stupido fare
pronostici su cosa accadrà ma, sempre, fa bene capire quali sono i nodi
ineludibili. Un'economia che esca dalle dinamiche dell'ultimo quarto di
secolo, il venticinquennio perduto in versione tricolore, una
alternativa seria, dai territori, alla governance della Ue, della Bce e
della moneta unica. Il resto è retorica. Modalità espressiva che la
gente capisce benissimo. Meno Renzi che continua a ripetere formule
improbabili, inabile a capire che il giorno della civetta è arrivato
anche per lui. Ciao Matteo anzi, ciaone.
redazione, 20 giugno 2016
Nessun commento:
Posta un commento