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21/06/2016

Il giorno della civetta: cinque considerazioni sul voto amministrativo

Il giorno della civetta, dal romanzo di Sciascia e dalla riduzione cinematografica di Damiani, è quello che permette di capire chi vale e chi è solo fatto di parole. A quest'ultima categoria appartiene sicuramente, ma non c'era bisogno del voto delle amministrative per saperlo, Matteo Renzi. Non solo perché il PD ha perso in tre aree metropolitane su quattro (e non è poco) ma soprattutto perché, voto dopo voto, è Matteo Renzi stesso a rendersi sempre più improbabile. Con dichiarazioni tipiche di chi prova a ripetere schemi vincenti, simili al bonus 80 euro, in un campionato dove tutte le squadre sono attrezzate proprio al contropiede su questi schemi. Un logoramento dell'immagine, dovuto anche a una sovrapposizione mediale del premier, che rischia di essergli fatale al referendum di ottobre (periodo in cui si concentrano spesso, oltretutto, tutte le tensioni sociali della stagione autunno-inverno).

Il voto delle amministrative va saputo leggere bene. Allora regalerà più certezze analitiche che politiche.

Cominciando però dall’impolitico, ovvero dall’astensione molto alta, qualche prima certezza viene fuori. Nei decenni passati l’alta astensione era considerata un fenomeno tipico della affluent society, la società del raggiunto benessere. Dove il disinteresse per la politica coincideva con stabili livelli di consumo. Oggi, in Italia, l’alta astensione coincide con la regressione dei diritti materiali di cittadinanza, dei consumi e della capacità di far circolare ricchezza. Chi vuol pescare, a vario titolo, in questa fascia di popolazione deve saperci entrare (spesso astensione e analfabetismo da società digitale coincidono) e non è facile. Ma veniamo al resto.

Prima considerazione: la data. La mattina del 20 giugno giornali e siti, per non parlare dei social, avevano già ampiamente decretato la sconfitta di Renzi, che pur ha vinto a Milano, la vittoria del Movimento 5 stelle e l'ottimo risultato di De Magistris. Il 20 giugno non è mai una data qualsiasi nella politica italiana. Nel 1976 decretò sia il punto elettoralmente più alto del Pci che l'inizio del suo declino (prima lento poi precipitoso con l'incedere degli anni '80). Nel 1993, il 20 giugno rappresentò il giorno della vittoria della Lega col candidato Formentini a Milano. L'inizio di una vera ascesa, allora fu detto di stampo secessionista, che ha permesso alla Lega di stare nei piani alti della politica per diversi lustri. Oggi difficile sfuggire ad una considerazione: se si toglie la ridotta milanese, dove le condizioni di riproduzione del solito ceto politico banche-mattone-studi professionali si sono mantenute grazie a Expo (di cui Sala è stato rappresentante), in tre metropoli su quattro vince chi esce dallo schema bipolare, spesso bipartisan, centrodestra-centrosinistra. Un risultato significativo che peserà tanto più se le condizioni internazionali lo faranno pesare. L'asse bipartisan centrodestra-centrosinistra, non senza contraddizioni o lacerazioni, è infatti quello che ha tenuto in piedi, in Italia, la costruzione post-nazionale che passa tra Unione Europea e moneta unica. Una volta che questa costruzione fosse seriamente sinistrata non ci sarebbe da stupirsi se quest'asse finisse definitivamente in briciole.

Seconda considerazione: il catch-all-party colpisce ancora. Il partito prenditutto (pessima ma utile traduzione) è lo schema classico del cartello elettorale che guadagna voti da ogni schieramento durante le elezioni. Forza Italia delle origini, ma anche il Pdl, non usava questo schema. Troppo ancorato a radici identitarie, e di immagine, che impedivano un immediato trasloco dei voti da sinistra a destra (per semplificare). Il Pd di Veltroni prima e quello di Renzi poi, nelle intenzioni, sono catch-all-party. La vittoria elettorale di Renzi del 2014, ad esempio, prende da destra e da sinistra. Con il mito del capo giovane, ottimo per la destra, e quello degli 80 euro, ottimo a sinistra. La vittoria di Raggi e Appendino avviene secondo schemi ancora più tipici di catch-all-party. Si guardi al voto torinese, ampiamente differenziato per intenzioni di voto al secondo turno, e a quello romano dove elettori di sinistra, e del Pd stando agli studi sui flussi di voto del primo turno, hanno semplicemente votato Raggi senza grossi problemi. Prende quindi sempre più piede la rappresentazione, ma anche la rappresentanza, di un elettorato demotic, indifferenziato. Una rappresentazione, e una rappresentanza, nella quale Raggi o la Appendino potrebbero essere, indifferentemente, due precarie o due manager, come due ragazze "di famiglia". E, per adesso, questa proposta di personaggi funziona, come lo ha fatto per Di Maio riflesso maschile di questa svolta rappresentativa del 5 stelle (all'inizio schiacciato, giocoforza, su Grillo).

Terza considerazione: il voto riflette ampiamente lo scontento, generalizzato quanto è generica la rappresentanza elettorale, di ampi strati di popolazione rispetto allo svuotamento delle politiche locali e metropolitane. Dal 2011, quando Trichet e Draghi scrissero apertamente a Berlusconi sulla necessità di tagli agli enti locali, le amministrazioni territoriali sono state letteralmente vampirizzate (in risorse e competenze). Il furore verso mafia capitale è frutto di questa situazione, la classica rabbia, che può prendere ogni direzione (e per questo, nel suo complesso, è adatta a un catch-all-party) contro gli speculatori in un contesto dove le risorse sono negate a tutti. Occhio però al riflesso nazionale di questa situazione: il renzismo, a parte Milano (metropoli però veloce nel cambiare poteri di riferimento perché non è città che ama i poteri declinanti) è privo di base materiale. Berlusconi lo sapeva, per capirlo basta entrare nel mondo reale: la depenalizzazione del falso in bilancio ha rappresentato, simbolicamente, il "laissez-faire" rivolto alla società italiana degli anni novanta e duemila. La possibilità concreta di arricchirsi - consumando tutto dal suolo ai bilanci pubblici - che era la base materiale, per molti ma non per tutti, del consenso a Berlusconi. Renzi non manca di propaganda, e in questo imita Berlusconi, ma manca di base materiale (a parte la dozzina di gruppi di interesse che contano). Lo si vede anche dalle sconfitte nella casa madre Toscana che, da Sesto Fiorentino (sinistra) a Cascina (destra) a Grosseto (centrodestra) mostrano, in modi diversissimi, tutto l'indebolimento della base materiale, di ricchezza e di relazioni, sulla quale poteva contare il Pd.

Quarta considerazione: per il movimento 5 stelle, Roma e Torino rappresentano sia un trionfo che una prova dell'ordalia. Un trionfo nazionale e globale, basta dire che Le Monde ha aperto con la Raggi e che la notizia della vittoria romana è entrata nel circuito delle notizie globali in maniera persino più incisiva che quella di Renzi del 2014. La prova dell'ordalia è perlomeno intuibile: governare metropoli complesse, in preda a trasformazioni differenti e differentemente convulse, come Roma e Torino sarà il banco di prova più serio di tutti. Si tratterà di capire, ad esempio, cosa ne pensa il M5S sulla cronica assenza di fondi per gli enti locali. Se si limiterà ad inseguire i tagli, gli imprenditori e le privatizzazioni (rischiando di inseguire la depressione economica) o se, per mantenere servizi e alimentare economie territoriali labour-oriented, alimenterà una contrattazione enti locali-stato centrale in grado di invertire la demenziale tendenza di vampirizzazione delle risorse locali degli ultimi anni (governata da Bruxelles e Francoforte, problema non da poco) assieme ad una programmazione che favorisce settori innovativi. Dal 20 giugno, di fatto, il M5S è già al governo del paese. Torino e Roma portano in questa dimensione. I fatti, d'ora in poi, parleranno meglio di qualsiasi ipotesi. Provare a fare provvedimenti “di destra” assieme a provvedimenti “di sinistra” sarà la più facile delle tentazioni. Poi la realtà farà capolino e imporrà delle scelte. Certo, il renzismo reale giocherà alla delegittimazione di ogni atto del movimento 5 stelle, e al tentativo di cooptazione di quello che può far gioco al presidente del consiglio, ma la differenza tra marketing e governo si capirà bene.

Quinta considerazione: travolti, dall'elettorato, dei generosi politici senza idee, senza tempra e senza prospettive (quali Fassina e Airaudo), la sinistra fa un grosso risultato a Napoli in prospettiva Barcellona. Ovvero di una integrazione tra piano elettorale e movimenti che porta a governo e redistribuzione di ricchezza in aree metropolitane. Nessun modello celeste, ogni storia ha i suoi percorsi accidentati, ma a differenza di Roma e Torino, De Magistris può vantare il grande valore della riconferma. In questo senso il sindaco di Napoli, dopo il trionfo del 2011, ha passato con successo la prova dell'ordalia. Ripresentandosi dopo cinque anni con dei buoni risultati nella salvaguardia dei beni comuni. In una delle metropoli più complesse, se non la più complessa, dell'Europa continentale. Ora De Magistris pare essere, leggendo le sue dichiarazioni, di fronte ad un'altra prova: fare da polo costituente di una sinistra nazionale di nuovo tipo. Certamente il tipo di complessità da attraversare sarà determinato da che tipo di Europa e di Italia usciranno tra l'estate e l'autunno.

Sembra quindi ormai in seria difficoltà il vecchio schema politico centrodestra-centrosinistra dell'ultimo quarto di secolo. Schema che ha accompagnato come attraversato, la politica è sempre entro un gioco di forze che necessariamente sfuggono allo stesso politico, sia il declino del Pil del paese che la sua stabilizzazione entro l'asse Ue-Eurozona. Milano, che di solito anticipa i processi in questo paese, sembra essere ancora nel passato proprio perché vive una bolla di processi attivati da Expo, voluta dal governo Prodi nel 2007. Questo schema sembra in crisi non solo, e non tanto, per motivi interni. Ma perché sono in forte difficoltà le istituzioni globali sulle quali, giocoforza e a volte anche controvoglia, si basava lo schema centrodestra-centrosinistra come cemento nazionale di una costellazione post-nazionale e post-politica: ue, eurozona, bce.

In politica, spesso, è stupido fare pronostici su cosa accadrà ma, sempre, fa bene capire quali sono i nodi ineludibili. Un'economia che esca dalle dinamiche dell'ultimo quarto di secolo, il venticinquennio perduto in versione tricolore, una alternativa seria, dai territori, alla governance della Ue, della Bce e della moneta unica. Il resto è retorica. Modalità espressiva che la gente capisce benissimo. Meno Renzi che continua a ripetere formule improbabili, inabile a capire che il giorno della civetta è arrivato anche per lui. Ciao Matteo anzi, ciaone.

redazione, 20 giugno 2016

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