Ci hanno provato, ma non ce l’hanno fatta. L’eroico tentativo è stato prodotto dai “mercati” finanziari, che dopo lo scatafascio di venerdì scorso, avevano aperto con l’ansia di recuperare almeno parte delle perdite seguite alla vittoria della Brexit. Decisamente inattesa in tutte le sale borsa.
I più convinti (a parte Tokyo, in crescita del 2,4% dopo il -8 di venerdì) erano proprio gli operatori di Madrid, felici che il vecchio e falangista Partido Popular di Rajoy avesse racimolato più voti di sei mesi fa. Ma se Mosca non crede alle lacrime, i mercati non credono alle istituzioni sovranazionali che loro stesso hanno voluto e tantomeno ai governi nazionali che vorrebbero superare.
Dopo un’ora, quindi, i listini hanno virato decisamente in “territorio negativo”, ricominciando a perdere percentuali consistenti. Alle 13.30 Milano (reduce da un terrificante -12,5%) perdeva il 2,2%, Francoforte il 2, Parigi l’1,8, Madrid l’1,2 (vantaggio relativo pro-falangisti, dunque), mentre la terremotata Londra mostrava anche questa volta più aplomb della media (-1,5%).
Perché tutto ciò? Perché l’Unione Europea, che dovrebbe dare segnali chiari, non sa darli. Nelle dichiarazioni ufficiali i leader più attendibili (o meno improbabili, come Angela Merkel) dicono che si deve “fare presto” nell’avviare le trattative previste dall’art. 50 del Trattato di Lisbona, che regola l’inimmaginabile uscita di un paese. Nella realtà, tutti sono predisposti – obbligatoriamente – a non avere alcuna fretta, perché la materia è incandescente, ogni stupidaggine farebbe precedente (innescando problemi esponenziali), la massa dei rapporti economici, finanziari e produttivi quasi inestricabile.
In ogni caso, David Cameron resta da dimissionario presidente del consiglio, ma anche intenzionato a non avviare lui la richiesta di “uscita”. L’intenzione è quella di arrivare ad ottobre, al congresso dei conservatori, e dare il bastone del comando al fidato George Osborne, piuttosto che al vaneggiante Boris Johnson. Il quale sarebbe “il vincitore”, ma recita da sconfitto, promettendo – non si sa a che titolo che “non cambierà molto”. E comunque non subito. Si vedrà come trovare una soluzione il più indolore possibile, se esiste...
L’impressione è che nessuno avesse previsto il risultato. Cameron e l’Unione Europea pensavano di portare a casa un remain magari faticoso e striminzito (il 52 a 48 dei sondaggi, specie dopo l’assassinio della deputata laburista Jo Cox), che avrebbe confermato lo statu quo. Ma anche i pagliacceschi Johnson e Nigel Farage stanno mostrando che avevano in realtà sperato in una “onorevole sconfitta” che avrebbe dato loro più peso nel paese senza mettere davvero in discussione gli equilibri continentali e globali. Gente che ha giocato a fare il “populista” e ora ha il terrore di dover dire cosa bisogna fare, ossia governare quel che hanno – involontariamente, è sicuro – prodotto.
Non è migliore lo spettacolo delle “istituzioni sovranazionali”, com’è detto, che devono fare la faccia feroce in pubblico sapendo però che la Gran Bretagna non è la Grecia, e quindi che non c’è alcuno spazio per ricatti e waterboarding in stile Tsipras.
Ognuno fa quello che è costretto a fare, nella misura in cui è capace. Ma quella capacità è in genere scarsa, e quello che sarà domani è al di là della loro comprensione. Figuriamoci del loro “controllo”.
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