«Noi lavoranti a domicilio abbiamo speso
ognuna un milione; per 10.000 che siamo equivale a 10 miliardi per
comprare “le nostre fabbriche casalinghe”, cioè le macchine. In
compenso, quasi nessuna ha il libretto di lavoro, perciò dopo anni di
schiena rotta, niente pensione». Era il 9 marzo del 1968, la
società, come si diceva all’epoca, viveva in funzione della fabbrica ed
essa estendeva il suo dominio a tutta la società. Il lavoro a
domicilio avrebbe raggiunto di lì a poco il punto di massima diffusione e
cominciava a uscire almeno in parte fuori dalle mura domestiche.
Sindacati, leghe operaie, inchieste dedicate al lavoro femminile
cominciavano a occuparsi di quello che fino a poco prima era stato
considerato solo un fenomeno residuale, una strategia per arrotondare,
una forma di resistenza al disciplinamento della fabbrica, spesso
illusoria: padrona del luogo di lavoro, schiava del tempo di lavoro.
Il libro di Tania Toffanin (Fabbriche invisibili. Storie di donne, lavoranti a domicilio, Verona, ombrecorte, 2016, 223 pp., 18€) comincia proprio con questa premessa: «il lavoro manifatturiero a domicilio non è un fenomeno, ma una forma di produzione».
L’analisi sociologica non si ferma a una valutazione quantitativa del
lavoro a domicilio ieri e oggi, ma grazie a un’approfondita analisi
storica porta alla luce tanto le condizioni politiche in cui si è dato –
il sistema patriarcale che favorisce il mancato riconoscimento del
lavoro delle donne, domestico e a domicilio, le forme paternalistiche di
management industriale – quanto il contesto economico e sociale in cui
esso si sviluppa, prende pienamente forma e rimane anche in tempi più
recenti, nei processi di delocalizzazione in specifiche aree di
produzione. Per l’autrice non si tratta infatti di ricostruire una
tipologia di lavoro protoindustriale, quanto piuttosto di mostrare come in
tempi e luoghi diversi il lavoro a domicilio è l’emblema della
coesistenza di regimi di produzioni pre-fordisti, tayloristi/fordisti e
post-fordisti, ovvero inseriti in una nuova divisione
internazionale, tecnica e sessuale del lavoro, caratterizzata da forme
diverse di decentramento produttivo. Mettere in luce il rapporto di
funzionalità tra lavoro a domicilio e sviluppo capitalistico significa
comprendere quali sono i suoi caratteri produttivi essenziali: il
pagamento a cottimo, che nega di fatto l’autonomia nei tempi di lavoro,
il dominio assoluto e unilaterale del padrone sui livelli salariali,
l’assenza di controlli e di regolazioni sufficienti tanto legislative
quanto sindacali, che esclude le donne anche dalle conquiste operaie.
Esemplare in questo senso l’art. 18, che non si applicava a imprese con meno di 15 dipendenti, il che spiega perché il
lavoro a domicilio in Italia ha il suo momento di massima espansione
proprio a seguito dell’introduzione dello Statuto dei lavoratori. Diritti e sfruttamento procedevano insieme.
La rigidità contrattuale acquisita dalla forza lavoro aveva un prezzo
sul piano della contabilità nazionale ed era rappresentata da una forma
di produzione che consentiva massima estrazione di valore e di profitto
al minimo costo, contemporaneamente garantendo allo Stato
l’istituzionalizzazione della gratuità del lavoro femminile domestico e
di cura. Il lavoro a domicilio diventava alternativa alla disoccupazione femminile e riduceva le tensioni sociali
dovute alle ristrutturazioni produttive che espellevano gli uomini dal
mercato del lavoro. Lo Stato ci guadagnava anche sul piano della
previdenza sociale. Molte di queste donne continuavano infatti anche a
svolgere lavoro agricolo per tenere in piedi una sorta di economia di
sussistenza. In questo modo, l’attore economico protagonista dello
sviluppo industriale diventava la famiglia, di cui la donna era custode,
in quanto «intermediario e soggetto organizzativo» dell’economia
informale. L’espansione della piccola impresa era allora uno scambio
politico tra governo e poteri locali, una forma di contrattazione che
spiega molto del destino attuale delle cooperative.
Il lavoro a domicilio è l’anello di congiunzione tra piccola e grande impresa, tra cooperativa e grandi committenti
e ha a che fare con una specifica divisione territoriale del lavoro e
della produzione perché mostra come anche modelli di sviluppo ideali
sopravvivevano grazie allo sfruttamento intensivo di almeno una parte
della forza-lavoro, quella composta prevalentemente da donne con basso
livello di istruzione formale e autonomia economica. È proprio nei
sistemi di piccola impresa che si è andata ridefinendo la divisione
internazionale e sessuale del lavoro, togliendo ai sindacati ogni
possibilità di azione. Anzi, sindacati e istituzioni si sono
trovati fianco a fianco con lo scopo quasi di incentivare
l’informalizzazione dei rapporti tra imprese e forza-lavoro,
anche al prezzo di una completa irregolarità. Nel caso del lavoro a
domicilio, la deregolamentazione delle condizioni di lavoro ha
significato, e significa ancora in diverse parti del mondo, ritmi di
lavoro indefiniti e nocività, con effetti collaterali per la salute
anche invalidanti o fatali. Il silenzio dei sindacati, come anche
l’assenza di appoggio da parte del resto della forza-lavoro maschile,
mostrava negli anni Settanta quella perversa alleanza tra capitale, Stato e patriarcato smascherata dal movimento femminista anche tra le fila del partito comunista, e che non ha abbandonato neanche ora lo sviluppo capitalistico.
Il libro dedica un capitolo all’analisi
delle relazioni di produzione e riproduzione in quello che veniva
chiamato il «distretto calzaturiero veneto», ricostruendo un profilo
dell’area indagata sia attraverso l’esame dei dati, sia servendosi di
un’indagine condotta in due fasi tra fine anni Novanta e inizio Duemila,
e tra 2012 e 2015. L’autrice intervista le «mistre», la manodopera di
mestiere, del settore calzaturiero tra Padova e Venezia, uno dei luoghi
in cui oggi si sono insediate le aziende più note dell’alta moda come
Prada, Armani, Louis Vuitton, Christian Dior. Sono molte le
migranti che anche in Italia lavorano ancora a domicilio, basti pensare
alle camiciaie cinesi della Bolognina o di Prato, in
concorrenza con le mistre della Riviera del Brenta di cui ci parla
l’autrice. Nella stessa «fabbrica invisibile» lavorano, dall’altro capo
del mondo, le fabbricatrici di pizzo di Narsapur,
legate alle mistre venete o cinesi dalla stessa catena globale di
sfruttamento. Proprio per il fatto di rappresentare il nesso tra
manodopera a basso costo non sindacalizzata e industrializzazione
diffusa, il lavoro a domicilio anche oggi, nelle sue dimensioni ridotte
ma non meno alienanti nei paesi industrializzati, e dislocate e
occultate in quelli «in via di industrializzazione», diventa una lente
con cui leggere trasformazioni che investono tutto il lavoro. Prima di
tutto la stretta relazione tra territorio e struttura produttiva resa
possibile da una forza-lavoro com’è quella femminile, spesso anche
migrante, centrale nel processo di accumulazione, e che viene così
sottratta, oggi come ieri, allo spazio conflittuale della fabbrica:
«quando ero in fabbrica era come se avessi avuto una finestra aperta sul
mondo, perché si discuteva di tutto quello che succedeva […] ero sempre
la prima a scioperare, ma ora non posso mica farlo da sola». Da
questo punto di vista, il lavoro a domicilio ha anticipato tendenze
tipiche della precarizzazione degli anni Duemila e
dell’individualizzazione dei rapporti di lavoro. Anche dopo la
sua regolazione nel 1973, il lavoro a domicilio ha continuato a essere
laboratorio di irregolarizzazione del lavoro, oltre che di
informalizzazione dei rapporti di potere: le donne venivano costrette a
iscriversi all’Albo degli artigiani di modo che le imprese potessero
sfruttare l’apprendistato come un contratto di lavoro vantaggioso, una
pratica tornata assai in voga di recente. Oggi, infatti, possiamo dire
che lavoro informale e formale si nutrono l’uno dell’altro grazie a
un’irregolarizzazione che si muove indifferentemente su entrambi i
canali di produzione.
La ricerca mostra come senza il lavoro delle donne, segregato in casa e a basso costo, non esisterebbe né made in Italy né alta moda italiana sul mercato globale. Da questo punto di vista il mito etico del made in Italy
è, appunto, solo un mito. Il lavoro a domicilio ha permesso al capitale
industriale di conservare a lungo due caratteristiche cruciali per il
suo sviluppo: l’ideologia della domesticità, necessaria alla
riproduzione della forza lavoro maschile contrattualizzata, e il lavoro
irregolare a basso costo impiegato in segmenti produttivi particolari,
perché necessari per la produzione di merci non standardizzate. Mettere
al lavoro l’angelo del focolare, portare la catena accanto alla cucina,
permette non solo la segregazione delle donne, ma la doppia svalutazione
simbolica e monetaria del loro lavoro nella sfera produttiva e in
quella riproduttiva: un doppio disconoscimento e un duplice sfruttamento.
Se quanto accade oggi con la precarizzazione nel nuovo regime del salario,
sia in termini di produzione sia di riproduzione, non fosse già di per
sé sufficiente a ripensare il concetto di post-fordismo, il lavoro di
Toffanin mette in chiaro una volta per tutte che le nuove occupazioni,
la proliferazione di nuove forme giuridiche e l’informalizzazione dei
rapporti di forza mostrano la persistenza di schemi tayloristici di organizzazione del lavoro funzionali allo stretto legame tra salario e produttività,
al netto di tutte le garanzie che quel sistema originariamente
concedeva. Un processo, scrive Toffanin, che riguarda anche i
professionisti e i lavoratori autonomi che sono in un circuito
tutt’altro che informale, specie se si guarda alla loro formazione, ma
che è in perfetta continuità con il lavoro a domicilio per quanto
riguarda l’irregolarità retributiva e contributiva.
Fabbriche invisibili
non è la fotografia in bianco e nero di un mondo del lavoro scomparso o
sommerso, ma ci mostra il lato oscuro della luna: tanto del capitale,
quanto delle lotte sul lavoro. Il pregio del libro è infatti
non solo quello di portare alla luce una forma di produzione occultata e
di metterla in connessione e in tensione con quel lavoro riproduttivo
di cura ancora oggi delegato alle donne. Col venir meno dello Stato
sociale, oltre a essere gratuito e non riconosciuto, il lavoro domestico
viene peraltro esternalizzato e venduto ad altre donne, al prezzo di
una monetizzazione dei servizi che si regge sulla dequalificazione del
lavoro femminile e sui bassi salari di tutte, lavoratrici in casa o
fuori casa, producendo una catena di sfruttamento globale su cui si muove un patriarcato altrettanto globale e tutt’altro che in crisi.
Il punto di forza dell’analisi di
Toffanin è proprio quello di far valere il ruolo di questa parte della
forza lavoro, le donne, nella ridefinizione del processo di
accumulazione capitalistica. Il lavoro a domicilio svolto dalle donne è cioè, ancora oggi, rilevante soprattutto per quello che ci dice su tutto il lavoro.
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