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23/06/2016

Brexit, il giorno del giudizio

Lasciando stare i sondaggi, che nelle “società complesse” ormai ci prendono poco e niente e rappresentano più che altro strumenti di condizionamento dell’opinione pubblica, è dai mercati che sembra venire l’indicazione maggiore rispetto al clima che si respira a Londra nel giorno in cui circa 47 milioni di sudditi di Sua Maestà sono chiamati a votare “Leave” o “Remain”. Probabilmente sapremo soltanto domattina all’alba il risultato finale della consultazione popolare convocata dal governo conservatore con l’obiettivo di strappare a Bruxelles qualche privilegio in più e per cercare di strumentalizzare il crescente sentimento anti-Unione Europea all’interno della popolazione. Ma da qualche giorno, soprattutto dopo l’omicidio della deputata laburista Jo Cox, tutti gli indicatori di borsa sembrano prevedere una affermazione dei fautori della permanenza di Londra all’interno dell’Unione Europea. E anche gli allibratori, che da quelle parti sono una vera e propria istituzione, danno ampiamente in vantaggio i Remain.

D’altronde non è stata solo l’emozione suscitata dalla morte violenta, per mano di un neonazista, della giovane deputata pro-Bruxelles, a spostare un certo numero di consensi, a favore della permanenza nell’Ue, ma anche la massiccia e spudorata campagna realizzata a proposito da una moltitudine di soggetti.

La maggior parte dei media, dai grandi quotidiani ai giornali locali, ha fatto non solo campagna a favore della partecipazione al referendum di oggi, ma ha anche esplicitamente chiesto di votare ‘no’. Per non parlare di centinaia di imprese locali e multinazionali – dalle banche a Ryanair fino a Caterpillar – che non solo si sono espresse ufficialmente a favore del Remain, ma hanno addirittura inviato delle lettere a milioni di loro dipendenti britannici all’interno delle quali l’opzione dell’uscita dall’Unione Europea viene descritta come catastrofica. Gli stessi argomenti apocalittici utilizzati da economisti e premi Nobel, oltre che dalla stragrande maggioranza della classe politica – i Libdem, i conservatori di Cameron, i Laburisti di Corbyn (ex eurocritico), i Verdi, i nazionalisti moderati scozzesi e quelli gallesi, lo Sinn Fein e alcuni partiti unionisti nordirlandesi – che in maniera trasversale ha descritto la Brexit come un salto nel buio dalle conseguenze gravissime tanto a livello economico quanto sociale.

I media locali e internazionali hanno fornito nell’ultimo mese una fotografia degli schieramenti a favore dell’uscita dall’Ue assai sbilanciata, tutta orientata a far apparire lo schieramento a favore della Brexit monopolio assoluto delle forze di destra, sostenitrici di politiche xenofobe e protezionistiche, in particolare l’Ukip di Farage e i conservatori guidati dall’ex sindaco di Londra Boris Johnson.

Una descrizione univoca dello schieramento pro-Leave che cancella completamente la campagna per la Lexit, cioè per un’uscita da sinistra e democratica dalla gabbia dell’Unione Europea, difesa da un certo numero di sindacati di classe, da forze politiche della sinistra radicale e comunista, da alcuni spezzoni dei movimenti indipendentisti gallese, scozzese e irlandese, da forze sociali e da intellettuali non certo equiparabili a chi chiede la rottura con l’Ue solo per preservare i suoi affari – le piccole e medie imprese schiacciate dalla grande imprese transnazionale europea – o a chi vede la riconquistata indipendenza come uno strumento per erigere nuovi muri nei confronti dell’immigrazione extracomunitaria ma anche comunitaria.

Le forze della sinistra più o meno radicale e del mondo del lavoro fanno infatti notare che i governi britannici degli ultimi decenni, appannaggio di quei Laburisti e di quei Conservatori che oggi chiedono di votare Remain per evitare sconquassi economici e sociali, sono stati gli stessi che applicando i diktat dell’Unione Europea hanno privatizzato e tagliato il welfare e il settore pubblico, hanno precarizzato il mercato del lavoro e ridotto i diritti di cittadinanza. Senza parlare del trattamento riservato dall’Unione Europea ai popoli dei paesi mediterranei o all’Irlanda, trattati da colonia interna in nome del dogma del risanamento del debito che per alcuni paesi va applicato con le lacrime e il sangue e che per altri invece non viene neanche preso in considerazione.

Ovviamente l’uscita dall’Unione Europea non è considerata salvifica di per sé dalle forze di sinistra e di classe schierate a favore della Brexit – consce dell’egemonia attuale delle forze conservatrici e reazionarie – ma comunque un’opportunità a favore di chi oggi vuole rovesciare il tavolo e tentare di invertire una tendenza alla riduzione dei diritti e alla concentrazione del potere economico e politico a favore di ristrette oligarchie che l’establishment europeo non contrasta di certo, come sostengono i pro-Ue, ma che invece sostiene e induce.

D’altronde che la stragrande maggioranza dei poteri forti interni e continentali difenda a spada tratta lo status quo è apparso ovvio quando alla vigilia del voto più di 1200 imprenditori hanno firmato una lettera pubblicata dal Times in cui chiedono di votare ‘no’.

A dargli una mano, nella brutale maniera che gli è congeniale, gli apparati economici e politici dell’Unione Europea e i capi di governo delle potenze continentali.

Ad esempio il governo francese, che per bocca del presidente François Hollande ha deciso di adottare la linea dura nei confronti dei britannici. «Per la Gran Bretagna – ha detto l’esponente socialista – c’è il rischio reale di non poter più accedere al mercato unico, a tutto quello che rappresenta l’esistenza di uno spazio economico europeo. Bisogna che tutti capiscano bene cosa c’è in gioco, perché all’indomani del voto, qualora venisse scelta l’opzione dell’uscita, la posizione della Francia sarà quella di trarne tutte le conclusioni. A partire dal fatto che la decisione verrà da noi ritenuta assolutamente irreversibile».

Toni estremamente ostili li ha usati anche il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, che ha avvertito Londra con un “Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori”. Sia i tedeschi sia i francesi, probabilmente, non temono tanto un’uscita di Londra che potrebbe avere un effetto domino su altri paesi trattati assai peggio dal caterpillar di Bruxelles ma che potrebbe anche permettere a “ciò che rimane” dell’Unione Europea di rafforzarsi e omogeneizzarsi ulteriormente grazie alla sottrazione di un elemento contraddittorio come quello rappresentato dalla Gran Bretagna. Tanto Berlino quanto Parigi temono soprattutto una affermazione della Brexit che potrebbe essere utilizzata dalle classi dirigenti britanniche per cercare di ricontrattare con Bruxelles ulteriori privilegi, come quelli ottenuti da Cameron nella vergognosa trattativa dei mesi scorsi, in cambio di una permanenza almeno parziale nello spazio politico, commerciale ed economico europeo. Una prospettiva che, se andasse in porto, potrebbe allettare una sfilza di governi, in particolare dell’Europa centrale e orientale, interessati a ritagliarsi uno spazio protetto al riparo dalla schiacciasassi della Troika ma comunque continuando a beneficiare delle opportunità che una Unione Europea dalle maglie e dai vincoli più blandi potrebbe rappresentare. E’ per questo che il falco democristiano Schaeuble, così come il suo collega socialista francese, insistono sul fatto che o si decide di star dentro oppure di star fuori, senza margini di mediazione, senza poter pensare di continuare a godere di alcuni dei benefici che offre l’internità all’Ue.

Un messaggio ribadito anche dal presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, il quale ha avvertito: «I politici e gli elettori britannici devono sapere che non ci sarà alcun tipo di nuovo negoziato». E poi, riferendosi alle concessioni ottenute a febbraio da Londra, ha aggiunto: «(David Cameron) ha avuto il massimo che poteva ricevere e noi abbiamo dato il massimo che potevamo dare».

Un aut aut che, è prevedibile, entrambi dovrebbero rimangiarsi nel caso in cui, al di là dei pronostici e delle forze in campo, nel referendum di oggi dovessero prevalere i leavers.

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