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17/06/2016

Il regime europeo del salario 1. Precarity save the Queen! Il salario minimo della Corona

Quando si tratta di lavoro Buckingham Palace è come McDonald’s. Entrambi i palazzi, quello della regina e quello del fast food più globale del mondo, assumono con «contratti a zero-ore». Insomma, «che mangino brioche!», o meglio, hamburger. È noto infatti che il Big Mac Index inventato dall’Economist a metà degli anni ’80 è diventato uno strumento per misurare non solo il potere d’acquisto, ma anche il salario minimo, o meglio quello che il Regno Unito chiama ormai living wage, un modo di tagliare indiscriminatamente i servizi di welfare in cambio della mera sopravvivenza. La Burgernomics è il segno dei tempi, la nuova Realpolitik del lavoro che riduce il benessere al rapporto tra il lavoratore e il suo hamburger.

Un salario di sopravvivenza

Il contratto a zero ore non è una novità e già nel 2013 se ne contavano più di un milione. Ѐ il cavallo di troia con cui nel 1998 la Gran Bretagna ha introdotto, con il National Minimum Wage Act, la precarietà: si tratta di lavoro a chiamata, senza garanzie, senza orari di lavoro prefissati, senza malattie, senza ferie, un po’ come i voucher nostrani. Lavorare tutti, lavorare tanto ma just in time, quando serve ai padroni e senza sprechi. Durante la crisi i contratti a zero ore hanno funzionato come un interruttore col quale attivare e disattivare i lavoratori secondo i bisogni della produzione. Non è infatti un caso che, anche durante gli anni più pesanti della crisi, i livelli di disoccupazione in Inghilterra siano rimasti sotto la media europea. Proprio queste forme di lavoro smart hanno poi attirato masse di giovani italiani, spagnoli, greci, polacchi e così via, che sono stati prontamente accusati di fare i «turisti del welfare», come se il welfare non venisse pagato al prezzo di salari bassissimi e disponibilità a qualsiasi lavoro. Esemplare in questo senso la proposta del governo conservatore a maggio del 2014 di sospendere il sussidio di disoccupazione a chi avesse rifiutato i contratti a zero ore. Non si sputa sulle brioche, nemmeno se sono briciole, è una questione di buone maniere. La retorica degli «stranieri» che si arricchiscono rubando il welfare agli inglesi, lo abbiamo già detto, è dunque un mito: il lavoro dei migranti interni ed esterni ha costituito negli ultimi anni un’entrata netta per le casse dell’isola. Quello che ci interessa capire è però che cosa sta accadendo oggi e perché in molti paesi europei si torna a parlare di salario minimo nazionale o, come nel Regno Unito, di living wage, che nonostante il nome ingannevole, può essere tradotto solo con salario di sopravvivenza, finalizzato a garantire le condizioni minime necessarie a mantenere un equilibrio tra la precarizzazione e la disponibilità della forza lavoro.

Il Regno Unito ha anticipato tendenze del processo di precarizzazione del mercato del lavoro europeo che oggi diventano la punta di diamante delle riforme come il Jobs Act, che già nel nome mostra d’ispirarsi alla musa Albione, come il pacchetto Hartz tedesco e come la Loi Travail francese, che ha innescato in questi mesi una sollevazione di massa. La Gran Bretagna è stata anche la prima a schierarsi contro i migranti, europei e non, utilizzandoli come minaccia per meglio precarizzare il mercato interno del lavoro.

Il 2015 è stato per l’Inghilterra l’anno decisivo della ripresa e della precarizzazione. Tenendo conto dell’inflazione e delle forti differenze tra i settori produttivi, la crescita senza eguali in Europa dell’occupazione è andata di pari passo con un abbassamento costante dei salari. Ciò è stato possibile grazie all’aumento di quella che viene pietosamente chiamata la sottoccupazione giovanile, ovvero la condizione di «occupabilità» che produce una massa di precari – britannici e non – sempre disponibili, che entrano ed escono dal mercato del lavoro o vengono impiegati anche per lunghi periodi con salari che garantiscono a malapena la loro sussistenza. Il miracolo quotidiano della produzione sociale è possibile grazie a questo aumento esponenziale di lavori mal pagati, principalmente nei servizi, e grazie alla fine della contrattazione collettiva, conseguenza dell’ennesimo colpo inferto ai sindacati dal Trade Union Bill. Milioni di donne e di uomini si trovano di fronte un mercato del lavoro violentemente stratificato e quindi funzionale a tenere bassi i loro salari e alta la loro produttività. Loro sono gli occupabili sempre sull’orlo della povertà, i casuals, cioè i lavoratori occasionali che ormai da anni nel Regno Unito sono i precari per eccellenza, ma che sono stati anche protagonisti di importanti lotte dentro e fuori i posti di lavoro.

Il salario minimo nazionale diventa un motivo di tensione proprio nel momento in cui questo regime del salario sembra affermarsi definitivamente. Esso si giustifica, infatti, di fronte al venire meno delle forme di negoziazione collettiva. In più, non essendo universale, ma riconosciuto a partire da specifiche condizioni, esso è uno strumento che divide i lavoratori e giustifica una precarizzazione ulteriore realizzata attraverso tagli mirati del salario indiretto e delle prestazioni sociali. La funzione di questo salario di sopravvivenza è dunque quella di tenere sotto controllo una situazione altrimenti ingovernabile e contemporaneamente liberalizzare sempre più i contratti e monetizzare il welfare, aumentando il numero di lavoratori pagati con il salario minimo. L’uso politico neoliberale del salario minimo nazionale non è però solo inglese: in Germania esso è in vigore dal 2015 e verrà applicato a tutti i lavoratori dal 2017 sebbene, in un’ampia serie di impieghi, venga già ora aggirato senza troppe difficoltà. In entrambi i casi, il vero problema politico è quanto minimo può essere un salario minimo e quanto a lungo possa esserlo. Per capirlo dobbiamo tornare nel Regno Unito.

A una settimana dal 1° maggio, Cameron ha lanciato la proposta di incrementare gradualmente il salario minimo, in modo da farlo arrivare dalle 6,70 sterline orarie attuali prima a 7 e poi a 9 sterline entro il 2020. Non per bontà d’animo, ma per il pericolo concreto di perdere qualsiasi legittimazione sociale, il governo conservatore è stato costretto a promettere di allentare le condizioni dello sfruttamento. Il regime del salario che si è consolidato dentro la crisi sembra essere arrivato al suo punto di rottura. Il neoliberalismo deve affannosamente cercare di correggere se stesso. Immediatamente il «Financial Times» ha lanciato però l’allarme, avvertendo l’incauto primo ministro che un salario minimo troppo alto scoraggerebbe le assunzioni con la conseguente e inevitabile diminuzione della produttività. Una minaccia tanto maggiore ora che sembra profilarsi l’ennesima recessione dell’economia britannica. Eppure più della produttività e della recessione è per ora la trista e cupa opposizione al salario di sopravvivenza da parte di milioni di uomini e di donne che sta imponendo un mutamento di regime. In questo scenario, tutt’altro che dominato semplicemente dalla riaffermazione del nazionalismo, dall’orgoglio sovrano e dalle spinte secessionistiche, si aggira il fantasma della Brexit e si profila davvero la possibilità di contestare il regime europeo del salario.

Come abbiamo detto, la Gran Bretagna è stata la prima a sperimentare una serie di misure che poi si sono riversate sul resto d’Europa. Assieme alla compressione del salario fino al limite della sopravvivenza, infatti, devono essere considerati anche il respingimento dei migranti non europei e la ristrutturazione del welfare, che ha imposto una specifica precarizzazione dei migranti provenienti da altri paesi dell’Unione grazie a una decisa gerarchizzazione dell’accesso ai diritti sociali e ai contributi lavorativi. Il terreno di sperimentazione di una precarizzazione delle regole europee sul lavoro e sulle prestazioni sociali è diventato così il campo di tensione chiamato Brexit. Il 18 e il 19 febbraio il Consiglio Europeo ha disposto misure di governo della mobilità lavorativa interna ed esterna che entreranno in vigore all’indomani del referendum inglese, se il Regno Unito si impegnerà a restare membro dell’Unione. Se pensate che a contare qualcosa in tema di austerity e precarietà sia solo la Germania, vi sbagliate. Lo status speciale riconosciuto al Regno Unito ha portato all’approvazione di misure che sanciscono la definitiva separazione sul piano europeo tra accesso al mercato del lavoro e accesso alla protezione sociale, che un tempo era garantita dal Coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale istituito dalla CEE già nel 1958 ed estesa ai lavoratori di paesi terzi nel 2003. In due giorni, per salvare la pericolante Albione, il Consiglio europeo ha istituito formalmente e praticamente un regime europeo del salario. Cancellando qualsiasi sostegno al reddito e quindi stravolgendo definitivamente il principio della libera circolazione, ha imposto l’assoluto dominio del salario sulla vita dei lavoratori che si muovono all’interno dell’Europa. Ai migranti europei con figli a carico verranno concessi sussidi il cui ammontare varia a seconda del costo della vita del paese di residenza dei figli stessi, quindi di quello di provenienza. Inoltre saranno loro inizialmente negate le prestazioni non contributive, che verranno concesse solo gradualmente a seconda della stabilità del legame tra il lavoratore e il mercato del lavoro del paese che lo ospita. L’accesso crescente alle prestazioni resta però a tempo determinato (7 anni). Suona familiare. Nel regime europeo del salario, precarietà, impoverimento e disoccupazione sono a carico del lavoratore e del suo salario. Eppure tutto questo, che non è poco, sembra non risolvere il problema. La promessa di sfruttare ulteriormente i migranti non allontana la Brexit. Il tentativo di introdurre in Francia misure coerenti con il regime europeo del salario ha letteralmente scatenato la furia dei francesi. Il progetto di risolvere la crisi sulla pelle di precarie, migranti e operai rivela la sua faccia di provocazione esistenziale. La crisi economica minaccia perciò costantemente di diventare una crisi politica.

Per un salario minimo europeo

Poche settimane fa Jeremy Corbyn ha improvvisamente scoperto il salario minimo europeo. Anche il «compagno» Labour ha infine realizzato che il fatidico Brexit non è uno scontro con l’Europa, ma mette in gioco le condizioni di vita di milioni di persone per gli anni a venire. Secondo Corbyn, in questo momento Brexit fa rima con mercato libero, privo di diritti e di protezioni. Cosa senz’altro vera, ma che non differenzia in maniera significativa la Gran Bretagna dal resto d’Europa. A dispetto del suo passato euroscetticismo, egli propone un’azione di riforma dell’Unione. Insomma, adesso l’Europa è la soluzione. Finalmente, verrebbe da dire. Purtroppo però il suo salario minimo europeo è una sorta di strumento economico «anti dumping» da giocare contro i migranti, visto che dovrebbe essere tarato sul costo della vita di ogni paese, in modo che ognuno possa stare felicemente a casa sua. In verità non si capisce bene che cosa ci sia di europeo in questo salario minimo. Questa sorta di camera di compensazione delle povertà è esattamente il contrario di ciò di cui c’è bisogno in questo momento. La questione vera è la libertà di muoversi attraverso l’Europa, non gli incentivi a resistere ognuno nel proprio ambito di sfruttamento e oppressione.

La rivendicazione di un salario minimo europeo è uno strumento da utilizzare contro il regime del salario che in Europa è stato imposto grazie alle continue riforme del lavoro basate sugli stessi criteri e che si muovono nella stessa direzione. Esso deve essere uno strumento per impedire la solitudine dello sfruttamento alla quale ogni individuo è altrimenti destinato. Si tratta di imporre un punto comune attorno al quale far convergere le molteplici esperienze di insubordinazione, tanto individuale quanto collettiva, che attraversano lo spazio europeo. Esso deve essere quanto meno europeo, perché su questa scala è organizzato lo sfruttamento capitalistico. Non si tratta di rivendicare un livello minimo e generalizzato di sopravvivenza, ma al contrario di produrre le condizioni collettive per un’accumulazione di potere capace di imporsi contro il comando esercitato del salario. Il salario minimo europeo deve essere uno strumento di emancipazione, in grado di consentire a milioni di uomini e di donne di sottrarsi all’economia europea dello sfruttamento. Solo muovendo dal piano europeo si può pensare di sfuggire alla logica del salario come prezzo della sopravvivenza, rovesciando la tendenza per cui solo le politiche neoliberali diventano politiche europee. Solo muovendo dall’Europa come terreno minimo di lotta comune si può cogliere nel referendum sulla Brexit qualcosa di diverso e di più cruciale della scelta di essere precari per la Corona o per Bruxelles.

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