Quando si tratta di lavoro
Buckingham Palace è come McDonald’s. Entrambi i palazzi, quello della
regina e quello del fast food più globale del mondo, assumono con
«contratti a zero-ore». Insomma, «che mangino brioche!», o
meglio, hamburger. È noto infatti che il Big Mac Index inventato
dall’Economist a metà degli anni ’80 è diventato uno strumento per
misurare non solo il potere d’acquisto, ma anche il salario minimo, o
meglio quello che il Regno Unito chiama ormai living wage, un modo di tagliare indiscriminatamente i servizi di welfare in cambio della mera sopravvivenza. La Burgernomics è il segno dei tempi, la nuova Realpolitik del lavoro che riduce il benessere al rapporto tra il lavoratore e il suo hamburger.
Un salario di sopravvivenza
Il contratto a zero ore non è una novità e già nel 2013 se ne contavano più di un milione.
Ѐ il cavallo di troia con cui nel 1998 la Gran Bretagna ha introdotto,
con il National Minimum Wage Act, la precarietà: si tratta di lavoro a
chiamata, senza garanzie, senza orari di lavoro prefissati, senza
malattie, senza ferie, un po’ come i voucher nostrani. Lavorare tutti,
lavorare tanto ma just in time, quando serve ai padroni e senza sprechi. Durante la crisi i contratti a zero ore hanno funzionato come un interruttore col quale attivare e disattivare i lavoratori secondo i bisogni della produzione.
Non è infatti un caso che, anche durante gli anni più pesanti della
crisi, i livelli di disoccupazione in Inghilterra siano rimasti sotto la
media europea. Proprio queste forme di lavoro smart hanno poi
attirato masse di giovani italiani, spagnoli, greci, polacchi e così
via, che sono stati prontamente accusati di fare i «turisti del
welfare», come se il welfare non venisse pagato al prezzo di salari
bassissimi e disponibilità a qualsiasi lavoro. Esemplare in questo senso
la proposta del governo conservatore a maggio del 2014 di sospendere il
sussidio di disoccupazione a chi avesse rifiutato i contratti a zero
ore. Non si sputa sulle brioche, nemmeno se sono briciole, è una
questione di buone maniere. La retorica degli «stranieri» che si
arricchiscono rubando il welfare agli inglesi, lo abbiamo già detto, è dunque un mito: il lavoro dei migranti interni ed esterni ha costituito negli ultimi anni un’entrata netta per le casse dell’isola. Quello che ci interessa capire è però che cosa sta accadendo oggi e perché in molti paesi europei si torna a parlare di salario minimo nazionale o, come nel Regno Unito, di living wage, che nonostante il nome ingannevole, può essere tradotto solo con salario di sopravvivenza,
finalizzato a garantire le condizioni minime necessarie a mantenere un
equilibrio tra la precarizzazione e la disponibilità della forza lavoro.
Il Regno Unito ha anticipato tendenze del processo di precarizzazione del mercato del lavoro europeo
che oggi diventano la punta di diamante delle riforme come il Jobs Act,
che già nel nome mostra d’ispirarsi alla musa Albione, come il
pacchetto Hartz tedesco e come la Loi Travail francese, che ha innescato
in questi mesi una sollevazione di massa.
La Gran Bretagna è stata anche la prima a schierarsi contro i migranti,
europei e non, utilizzandoli come minaccia per meglio precarizzare il
mercato interno del lavoro.
Il 2015 è stato per l’Inghilterra l’anno
decisivo della ripresa e della precarizzazione. Tenendo conto
dell’inflazione e delle forti differenze tra i settori produttivi, la crescita senza eguali in Europa dell’occupazione è andata di pari passo con un abbassamento costante dei salari.
Ciò è stato possibile grazie all’aumento di quella che viene
pietosamente chiamata la sottoccupazione giovanile, ovvero la condizione
di «occupabilità» che produce una massa di precari – britannici e non –
sempre disponibili, che entrano ed escono dal mercato del lavoro o
vengono impiegati anche per lunghi periodi con salari che garantiscono a
malapena la loro sussistenza. Il miracolo quotidiano della produzione
sociale è possibile grazie a questo aumento esponenziale di lavori mal
pagati, principalmente nei servizi, e grazie alla fine della
contrattazione collettiva, conseguenza dell’ennesimo colpo inferto ai
sindacati dal Trade Union Bill. Milioni di donne e di uomini si trovano
di fronte un mercato del lavoro violentemente stratificato e quindi funzionale a tenere bassi i loro salari e alta la loro produttività. Loro sono gli occupabili sempre sull’orlo della povertà, i casuals,
cioè i lavoratori occasionali che ormai da anni nel Regno Unito sono i
precari per eccellenza, ma che sono stati anche protagonisti di importanti lotte dentro e fuori i posti di lavoro.
Il salario minimo nazionale
diventa un motivo di tensione proprio nel momento in cui questo regime
del salario sembra affermarsi definitivamente. Esso si
giustifica, infatti, di fronte al venire meno delle forme di
negoziazione collettiva. In più, non essendo universale, ma riconosciuto
a partire da specifiche condizioni, esso è uno strumento che divide i
lavoratori e giustifica una precarizzazione ulteriore realizzata
attraverso tagli mirati del salario indiretto e delle prestazioni
sociali. La funzione di questo salario di sopravvivenza è dunque quella di tenere sotto controllo una situazione altrimenti ingovernabile
e contemporaneamente liberalizzare sempre più i contratti e monetizzare
il welfare, aumentando il numero di lavoratori pagati con il salario
minimo. L’uso politico neoliberale del salario minimo nazionale non è
però solo inglese: in Germania esso è in vigore dal 2015 e verrà
applicato a tutti i lavoratori dal 2017 sebbene, in un’ampia serie di
impieghi, venga già ora aggirato senza troppe difficoltà. In entrambi i casi, il vero problema politico è quanto minimo può essere un salario minimo e quanto a lungo possa esserlo. Per capirlo dobbiamo tornare nel Regno Unito.
A una settimana dal 1° maggio, Cameron
ha lanciato la proposta di incrementare gradualmente il salario minimo,
in modo da farlo arrivare dalle 6,70 sterline orarie attuali prima a 7 e
poi a 9 sterline entro il 2020. Non per bontà d’animo, ma per il
pericolo concreto di perdere qualsiasi legittimazione sociale, il
governo conservatore è stato costretto a promettere di allentare le
condizioni dello sfruttamento. Il regime del salario che si è
consolidato dentro la crisi sembra essere arrivato al suo punto di
rottura. Il neoliberalismo deve affannosamente cercare di correggere se
stesso. Immediatamente il «Financial Times» ha lanciato però l’allarme,
avvertendo l’incauto primo ministro che un salario minimo troppo alto
scoraggerebbe le assunzioni con la conseguente e inevitabile diminuzione
della produttività. Una minaccia tanto maggiore ora che sembra
profilarsi l’ennesima recessione dell’economia britannica. Eppure più
della produttività e della recessione è per ora la trista e cupa
opposizione al salario di sopravvivenza da parte di milioni di uomini e
di donne che sta imponendo un mutamento di regime. In questo
scenario, tutt’altro che dominato semplicemente dalla riaffermazione del
nazionalismo, dall’orgoglio sovrano e dalle spinte secessionistiche, si
aggira il fantasma della Brexit e si profila davvero la possibilità di
contestare il regime europeo del salario.
Come abbiamo detto, la Gran Bretagna è stata la prima a sperimentare una serie di misure
che poi si sono riversate sul resto d’Europa. Assieme alla compressione
del salario fino al limite della sopravvivenza, infatti, devono essere
considerati anche il respingimento dei migranti non europei e la
ristrutturazione del welfare, che ha imposto una specifica
precarizzazione dei migranti provenienti da altri paesi dell’Unione
grazie a una decisa gerarchizzazione dell’accesso ai diritti sociali e
ai contributi lavorativi. Il terreno di sperimentazione di una
precarizzazione delle regole europee sul lavoro e sulle prestazioni
sociali è diventato così il campo di tensione chiamato Brexit. Il 18 e
il 19 febbraio il Consiglio Europeo ha disposto misure di governo della
mobilità lavorativa interna ed esterna che entreranno in vigore
all’indomani del referendum inglese, se il Regno Unito si impegnerà a
restare membro dell’Unione. Se pensate che a contare qualcosa in tema di austerity e precarietà sia solo la Germania, vi sbagliate.
Lo status speciale riconosciuto al Regno Unito ha portato
all’approvazione di misure che sanciscono la definitiva separazione sul
piano europeo tra accesso al mercato del lavoro e accesso alla
protezione sociale, che un tempo era garantita dal Coordinamento dei
sistemi di sicurezza sociale istituito dalla CEE già nel 1958 ed estesa
ai lavoratori di paesi terzi nel 2003. In due giorni, per
salvare la pericolante Albione, il Consiglio europeo ha istituito
formalmente e praticamente un regime europeo del salario.
Cancellando qualsiasi sostegno al reddito e quindi stravolgendo
definitivamente il principio della libera circolazione, ha imposto
l’assoluto dominio del salario sulla vita dei lavoratori che si muovono
all’interno dell’Europa. Ai migranti europei con figli a carico verranno
concessi sussidi il cui ammontare varia a seconda del costo della vita
del paese di residenza dei figli stessi, quindi di quello di
provenienza. Inoltre saranno loro inizialmente negate le prestazioni non
contributive, che verranno concesse solo gradualmente a seconda della
stabilità del legame tra il lavoratore e il mercato del lavoro del paese
che lo ospita. L’accesso crescente alle prestazioni resta però a tempo
determinato (7 anni). Suona familiare. Nel regime europeo del salario, precarietà, impoverimento e disoccupazione sono a carico del lavoratore e del suo salario.
Eppure tutto questo, che non è poco, sembra non risolvere il problema.
La promessa di sfruttare ulteriormente i migranti non allontana la
Brexit. Il tentativo di introdurre in Francia misure coerenti con il
regime europeo del salario ha letteralmente scatenato la furia dei
francesi. Il progetto di risolvere la crisi sulla pelle di precarie,
migranti e operai rivela la sua faccia di provocazione esistenziale. La
crisi economica minaccia perciò costantemente di diventare una crisi
politica.
Per un salario minimo europeo
Poche settimane fa Jeremy Corbyn ha
improvvisamente scoperto il salario minimo europeo. Anche il «compagno»
Labour ha infine realizzato che il fatidico Brexit non è uno scontro con
l’Europa, ma mette in gioco le condizioni di vita di milioni di persone
per gli anni a venire. Secondo Corbyn, in questo momento Brexit fa rima con mercato libero, privo di diritti e di protezioni.
Cosa senz’altro vera, ma che non differenzia in maniera significativa
la Gran Bretagna dal resto d’Europa. A dispetto del suo passato
euroscetticismo, egli propone un’azione di riforma dell’Unione. Insomma,
adesso l’Europa è la soluzione. Finalmente, verrebbe da dire. Purtroppo
però il suo salario minimo europeo è una sorta di strumento economico
«anti dumping» da giocare contro i migranti, visto che dovrebbe essere
tarato sul costo della vita di ogni paese, in modo che ognuno possa
stare felicemente a casa sua. In verità non si capisce bene che cosa ci sia di europeo in questo salario minimo.
Questa sorta di camera di compensazione delle povertà è esattamente il
contrario di ciò di cui c’è bisogno in questo momento. La questione vera
è la libertà di muoversi attraverso l’Europa, non gli incentivi a
resistere ognuno nel proprio ambito di sfruttamento e oppressione.
La rivendicazione di un salario
minimo europeo è uno strumento da utilizzare contro il regime del
salario che in Europa è stato imposto grazie alle continue riforme del
lavoro basate sugli stessi criteri e che si muovono nella stessa
direzione. Esso deve essere uno strumento per impedire la
solitudine dello sfruttamento alla quale ogni individuo è altrimenti
destinato. Si tratta di imporre un punto comune attorno al quale far
convergere le molteplici esperienze di insubordinazione, tanto
individuale quanto collettiva, che attraversano lo spazio europeo. Esso deve essere quanto meno europeo, perché su questa scala è organizzato lo sfruttamento capitalistico.
Non si tratta di rivendicare un livello minimo e generalizzato di
sopravvivenza, ma al contrario di produrre le condizioni collettive per
un’accumulazione di potere capace di imporsi contro il comando
esercitato del salario. Il salario minimo europeo deve essere uno
strumento di emancipazione, in grado di consentire a milioni di uomini e
di donne di sottrarsi all’economia europea dello sfruttamento. Solo muovendo dal piano europeo si può pensare di sfuggire alla logica del salario come prezzo della sopravvivenza,
rovesciando la tendenza per cui solo le politiche neoliberali diventano
politiche europee. Solo muovendo dall’Europa come terreno minimo di
lotta comune si può cogliere nel referendum sulla Brexit qualcosa di
diverso e di più cruciale della scelta di essere precari per la Corona o
per Bruxelles.
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