di Roberto Prinzi
La guerra in Yemen per le
truppe degli Emirati Arabi Uniti (EAU) non è finita. A dirlo – negando,
pare, quanto aveva detto solamente qualche giorno fa – è stato ieri il ministro degli Esteri emiratino, Anwar bin Mohammed Gargash. “Siamo in guerra.
Sono scioccato da come la mia dichiarazione [di martedì] sia stata
letta fuori contesto e mal interpretata da agende estere che cercano di
indebolire la regione e, in particolare, il Consiglio di Cooperazione
del Golfo” ha detto Gargash accusando, pur non nominandolo mai, l’Iran
per il sostegno dato ai ribelli houthi. In un discorso riportato
dall’agenzia di stato emiratina Wam, il ministro ha poi spiegato: “L’Operazione Tempesta decisiva aveva tre obiettivi:
il primo era riportare la crisi yemenita su un binario politico; il
secondo era restaurare il governo legittimo yemenita; il terzo era
contrastare l’interferenza iraniana nella regione”. Obiettivi che, a 15
mesi dall’inizio dell’offensiva del blocco sunnita guidato da Riyad, non
sono stati ancora raggiunti: gli houthi, infatti, controllano ancora la
capitale Sana’a e ampie zone del nord del Paese.
Le parole di Gargash sono state erroneamente interpretate
solo da quelle che il ministro chiama “agende esterne” o siamo di fronte
al più classico dei dietrofront dopo alcune pressioni ricevute?
Magari, ipotizziamo, saudite? Più che un dubbio resta sulla
giustificazione addotta dal titolare degli esteri emiratini: con un
Tweet anche il principe ereditario Shaykh Mohammed bin Zayed an-Nahyan
aveva commentato martedì le parole (“fuori contesto”) di Gargash
scrivendo che “la nostra posizione è chiara: la guerra è finita per le
nostre truppe; stiamo monitorando gli accordi politici e [ci occupiamo
di] come trasferire il potere agli yemeniti nella aree liberate”.
Il ritiro (smentito) di Abu Dhabi era stato vissuto dagli yemeniti in modo molto contraddittorio.
Alcuni residenti della città di Taiz (da mesi assediata dagli houthi)
avevano immediatamente parlato di “tradimento” e avevano duramente
attaccato gli EAU perché, a loro dire, si preoccuperebbero solo delle
province meridionali del Paese. Il leader della resistenza di Ta’iz,
Nael al-Adimi, era tuttavia rimasto indifferente ad un possibile passo
indietro di Abu Dhabi perché, come ha detto al portale Middle East Eye,
“le truppe emiratine hanno liberato Aden e le province meridionali, ma
poi si sono fermate nella provincia di Taiz: non c’è nemmeno un loro
soldato che sta partecipando qui ai combattimenti”. In pratica, la loro
guerra è già finita da tempo, non da martedì.
Se su Taez un coinvolgimento militare emiratino può essere
opinabile, un ruolo assolutamente non marginale gli Emirati l’hanno
avuto nelle province di Aden, Abyan, Marib e Lahj dove una
ottantina dei loro uomini – secondo quanto riferiscono fonti locali
della sicurezza – avrebbero perso la loro vita combattendo contro houthi
e il ramo yemenita di al-Qa’eda. Inoltre, come ha dichiarato un
ufficiale anonimo della polizia di Aden a Middle East Eye, gli EAU
avrebbero avuto un ruolo di primo piano nel ripristinare la sicurezza e
nell’addestrare le forze armate lealiste (quelle, cioè, che sostengono
il presidente yemenita Hadi). Compiti importanti che per l’ufficiale
sarebbero stati portati a termine con successo al punto che ora loro
presenza non sarebbe più necessaria.
Mentre i combattimenti continuano e il processo diplomatico è in
pieno stallo, l’Onu torna a lanciare l’allarme per la grave situazione
umanitaria in cui versa il Paese. Secondo il Coordinatore Onu
per gli Affari umanitari nello Yemen, Jamie McGoldrick, siamo di fronte
“a una delle crisi peggiori al mondo”. “La guerra – ha aggiunto
– ha avuto conseguenze pesanti sia per lo Yemen che per i suoi
cittadini. Non è una esagerazione dire che l’economia [locale] sta per
collassare”. Tra le principali fonti di preoccupazione delle Nazioni
Unite vi sono la mancanza di cibo e di sicurezza e le difficoltà ad
accedere alle cure sanitarie. Questa situazione, ha evidenziato McGoldrick, fa sì che le persone stiano morendo per malattie “evitabili”. Il coordinatore umanitario dell’Onu ha snocciolato alcuni dati del
conflitto: 3 milioni di yemeniti hanno lasciato le loro case da quando è
iniziata la guerra; 1.600 scuole sono state chiuse e circa 560.000
bambini non possono più studiare. Le vittime della guerra sono circa
7.000. Le Nazioni Unite dichiarano di aver assistito nel Paese 8 milioni
di persone nel 2015 e promettono di arrivare a 13,6 milioni quest’anno.
Ma nonostante gli sforzi, ancora molte aree restano inaccessibili.
Mercoledì prossimo, intanto, si incontreranno a New York il
potente principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il Segretario
Onu Ban Ki-Moon in un vertice che si preannuncia teso. Al
centro dell’incontro ci saranno sicuramente le (presunte) violazioni
della coalizione anti-houthi contro i bambini che l’Onu aveva denunciato
(e poi ha ritrattato) in un report due settimane fa mandando su tutte
le furie Riyad. Ai sauditi non era andato affatto giù l’inserimento del
loro blocco nella blacklist delle Nazioni Unite e, secondo quanto ha
rivelato lo stesso Ban, avrebbero minacciato di non finanziare più i
progetti dell’Onu se il loro nome non fosse stato cancellato dalla lista
dei cattivi. In base ai dati pubblicati dal report del Palazzo di
Vetro, la coalizione sunnita avrebbe causato il 60% dei morti e dei
feriti tra i bambini dall’inizio del conflitto yemenita.
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