di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Tanto rumore per nulla? Non proprio, visto che in carcere restano centinaia di persone. Ma la
sentenza di ieri ha la forza di un terremoto per il regime di al-Sisi: una
corte amministrativa egiziana (una sorta di Tar) ha annullato la
cessione delle isole Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita, decisa dal
presidente l’8 aprile durante la visita di re Salman. Se il
monarca saudita ha portato con sé decine di miliardi di dollari in
investimenti e finanziamenti, se ne è tornato a Riyadh con in tasca le
due isolette sul Mar Rosso.
Immediata era stata la reazione della popolazione egiziana che ha manifestato la rabbia verso la dittatura. Le
due proteste del 15 e 25 aprile si sono concluse con quasi 2mila
arresti. Ma anche con una denuncia: un gruppo di avvocati si è appellato
alla corte. Tra loro anche Malek Adly della Rete degli avvocati dell’Egyptian Centre for Economic and Social Rights, tuttora detenuto.
Ieri la sentenza del giudice el-Dakroury, vice presidente del
Consiglio di Stato, ha dato loro ragione: «Le isole devono restare parte
del territorio egiziano. La sovranità egiziana sulle isole è intatta ed
è vietato ogni cambiamento di status, sotto qualsiasi forma o dietro
qualsiasi procedura, a favore di un altro Stato».
Mentre su Twitter si moltiplicavano le celebrazione e fuori
dal tribunale decine di persone festeggiavano con lo slogan «Pane,
libertà e isole» (chiaro riferimento alla rivoluzione del 2011), il
regime annunciava il ricorso. Ha 60 giorni di tempo, poi ad esprimersi sarà il Consiglio di Stato. Nel
frattempo, secondo quanto previsto dall’articolo 50 della legge del
Consiglio di Stato, la prima sentenza entra in vigore. Insomma, le isole
sarebbero di nuovo territorio egiziano, nonostante il Consiglio della Shura saudita abbia approvato l’accordo già il 25 aprile scorso.
Che effetti la sentenza possa avere nei rapporti con i sauditi è da vedere. Di
certo scombussola la politica estera dell’ex generale che sui rapporti
con la petromonarchia fonda buona parte della propria sopravvivenza,
strategica ed economica. Non è un caso che per cementare la
dipendenza dai Saud, al-Sisi abbia rinunciato a Tiran e Sanafir,
definendole «da sempre di proprietà saudita». L’importanza delle due
isole del Mar Rosso, tra la città israeliana di Eilat e quella giordana
di Aqaba, è strategica: a 3 miglia dal Sinai e a 4 dalla costa saudita,
sono state protagoniste di più di una crisi, in primis la Guerra dei Sei
Giorni del 1967.
Sono punto di passaggio verso Suez, via di navigazione privilegiata del petrolio in partenza dal Golfo.
Non solo: a Tiran c’è la sede della Mfo, Multinational Force and
Observers, missione di peacekeeping dell’Onu creata dopo l’accordo di
pace tra Egitto e Israele del 1979, un contingente militare di 12 paesi.
La sentenza, però, scombussola anche l’ultima brutale ondata
repressiva: gli arresti di massa di attivisti, giornalisti e semplici
cittadini, molti prelevati dalle loro case prima delle annunciate
manifestazioni, si sono fondati sulla legge anti-terrorismo varata dal
presidente che vieta proteste non autorizzate e sul presunto reato di
diffusione di notizie false. Così non è e la sentenza potrebbe – o
dovrebbe – aprire le porte del carcere a centinaia di prigionieri. A
chiederlo è il National Council for Human Rights, organizzazione
non governativa, che ha fatto subito appello alla liberazione di tutti gli
arrestati per le proteste contro l’accordo.
Difficile però che si metta in pericolo la campagna
istituzionalizzata di repressione che colpisce chiunque alzi la voce.
Accade anche ai lavoratori che indicono uno sciopero e finiscono di
fronte ad una corte militare: è il caso di 26 dipendenti della
Alexandria Shipyard Company, accusati di istigazione allo sciopero degli
altri 2.500 impiegati, lanciato a maggio per chiedere il minimo
salariale di 1.200 sterline egiziane al mese (120 euro). Saranno
giudicati da un tribunale militare perché – e è la giustificazione
ufficiale – pur essendo civili lavorano per una compagnia di proprietà
del Ministero della Difesa. Una violazione dell’articolo 204 della
Costituzione che prevede la corte militare per i civili solo nel caso di
assalto diretto a proprietà militari.
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