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22/06/2016

Orlando, ombre sull’FBI

di Michele Paris


Dopo la strage nella discoteca di Orlando di dieci giorni fa, il dibattito tra i politici e sui media negli Stati Uniti sta ruotando attorno alle circostanze della radicalizzazione del responsabile delle 49 vittime, il cittadino americano di origine afgana, Omar Mateen. Se il killer aveva offerto il suo giuramento di fedeltà all’autoproclamato califfo dello Stato Islamico, Abu Bakr al-Baghdadi, durante l’attacco del 12 giugno, a contribuire alla sua radicalizzazione in questi anni potrebbero però essere state forze molto lontane dal fondamentalismo sunnita in Medio Oriente.

Tra le varie notizie emerse dopo i fatti di Orlando, la più interessante e potenzialmente ricca di implicazioni è stata riportata in un’intervista pubblicata da un giornale della Florida meridionale. A parlare è stato lo sceriffo della contea di St. Lucie, Ken Mascara, il quale ha rivelato che Mateen era stato da lui segnalato all’FBI nel 2013 per il comportamento inappropriato che era solito tenere quando lavorava come guardia di sicurezza per la compagnia privata G4S in un tribunale della Florida.

Secondo Mascara, Mateen aveva minacciato di far uccidere un suo vice da al-Qaeda e inveiva spesso contro donne ed ebrei. Mateen era stato allora messo sotto indagine da parte dell’FBI e, soprattutto, il “Bureau” aveva piazzato un proprio informatore al tribunale dove prestava servizio per cercare di coinvolgerlo in una qualche operazione sotto copertura, che però non ebbe successo.

Quest’ultima dichiarazione dello sceriffo della contea di St. Lucie, anche se virtualmente ignorata dai media ufficiali, è di particolare importanza perché si collega a una pratica consueta dell’FBI nel post-11 settembre. In altre parole, Omar Mateen, viste le sue origini, le presunte simpatie per il fondamentalismo islamico e la probabile instabilità mentale, era stato scelto dalla polizia federale americana per essere incastrato in un qualche caso di terrorismo costruito in larga misura a tavolino dallo stesso FBI.

Secondo la versione ufficiale, l’indagine su Mateen sarebbe stata chiusa dopo alcuni mesi e il piano di trascinarlo in una finta trama terroristica lasciato cadere. Tuttavia, i particolari che si conoscono sulle modalità con cui l’FBI costruisce casi di terrorismo sul suolo americano sollevano più di un dubbio circa la possibilità che i propri informatori o agenti sotto copertura abbiano potuto contribuire alla radicalizzazione di Mateen.

Gli individui che finiscono in questo modo nella rete dell’FBI sono regolarmente incoraggiati a manifestare le proprie simpatie per gruppi estremisti come al-Qaeda o l’ISIS, mentre gli uomini dell’FBI in incognito offrono loro il proprio aiuto nel reperire armi ed esplosivi, ma anche nell’individuare bersagli da colpire. Solitamente, i potenziali terroristi vengono arrestati prima di commettere azioni violente, organizzate però proprio dall’FBI e che per loro iniziativa non verrebbero mai portate a termine.

Nel caso di individui che manifestano un disagio psichico o sociale, come appunto Omar Mateen, non è da escludere che queste operazioni clandestine dell’FBI abbiano potuto agire da stimolo e concretizzarsi drammaticamente con le modalità registrate nel gay club Pulse di Orlando. In questo e in altri casi di terrorismo, ciò aiuterebbe anche a spiegare il fatto che gli attentatori sono puntualmente già noti da tempo alle autorità.

Un’altra circostanza quasi del tutto trascurata dalla stampa “mainstream” negli USA sembra alimentare ulteriormente questi dubbi. Mateen era ciò in qualche modo in contatto con Marcus Robertson, ex Marine diventato fuorilegge e poi informatore del governo americano. Robertson aveva lavorato per la CIA raccogliendo informazioni in vari paesi sugli estremisti islamici, prima di essere ufficialmente estromesso dal programma nel 2007.

Tra il 2004 e il 2007 aveva operato sotto copertura anche per l’FBI all’interno degli Stati Uniti, verosimilmente nel quadro delle operazioni “anti-terrorismo” sotto copertura descritte in precedenza. Robertson è oggi a capo di un progetto fondamentalista chiamato “Timbuktu Seminary” che, secondo alcuni, non potrebbe esistere se non fosse una trappola del governo per attirare simpatizzanti jihadisti.

Queste perplessità sono alimentate dal fatto che, per stessa ammissione dell’FBI, non è stato possibile riscontrare legami o contatti diretti tra Omar Mateen e l’ISIS. Il presunto processo di radicalizzazione attraversato da quest’ultimo, indubbiamente sovrappostosi alla situazione di disagio nella quale viveva da tempo, sarebbe dunque potuto avvenire proprio grazie alla consolidata rete di informatori operata dall’apparato della sicurezza nazionale americana, volta sostanzialmente a fabbricare minacce terroristiche per tenere alto il livello di guardia nel paese.

L’attenzione dei media d’oltreoceano in questi giorni non si sta in ogni caso concentrando su questi interrogativi, bensì sulla decisione dell’FBI di omettere inizialmente il riferimento di Mateen all’ISIS quando è stato reso noto il contenuto delle sue telefonate al numero di emergenza 911 e con i negoziatori del governo durante l’attacco alla discoteca di Orlando.

Sull’FBI sono piovute le critiche soprattutto dei leader Repubblicani, i quali hanno denunciato un possibile tentativo di occultare le motivazioni di Mateen. In realtà, proprio l’FBI ha cercato di promuovere la versione dell’attentato terroristico di matrice islamista, per mezzo di almeno un’iniziativa che risulta coerente con gli sforzi del “Bureau” di alimentare la minaccia jihadista negli Stati Uniti.

Il fidanzato della ex moglie di Mateen ha cioè affermato in una recente intervista a una televisione brasiliana che l’FBI aveva chiesto alla coppia di non rivelare alla stampa le probabili tendenze omosessuali dell’attentatore, nel tentativo appunto di orientare l’opinione pubblica sulla versione del terrorismo islamista.

Se i contorni della vicenda appaiono a tratti ancora oscuri, quel che è certo è che il lavoro dell’FBI e degli organi del governo USA ha permesso di sfruttare il massacro di Orlando per promuovere una nuova escalation militare all’estero – ufficialmente contro l’ISIS – e nuove iniziative anti-democratiche sul fronte domestico.

Infatti, il presidente Obama, dopo la strage, aveva subito annunciato un’intensificazione della guerra contro il “califfato” in Medio Oriente, mentre i due candidati alla sua successione – Hillary Clinton e Donald Trump – si erano affrettati a promettere rispettivamente un aumento dei poteri di sorveglianza dell’intelligence e una schedatura di massa di tutti i musulmani presenti sul territorio degli Stati Uniti.

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