Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

29/06/2016

Indagine sulle periferie: quello che “Limes” non dice

La prestigiosa rivista di geopolitica “Limes” ha dedicato il suo ultimo volume al tema delle periferie urbane. Un'indagine ad ampio spettro, come nei canoni della pubblicazione, che spazia dall’analisi della condizione e trasformazione dei contesti urbani, metropolitani e oltre, sulla scia dei fenomeni connessi al progressivo inurbamento della popolazione mondiale; alla rinnovata centralità assunta dalle “periferie mondiali” nelle relazioni economiche e sociali e nelle modalità di governo del territorio urbano, costitutivi  degli equilibri geopolitici.

Un lavoro articolato che affronta la dimensione urbana delle metropoli e megalopoli globali sotto diversi profili di indagine, che consente di incrociare argomenti e dati utili per comprendere quella che ormai è comunemente riconosciuta come frontiera strategica per  l’indagine dei futuri scenari sistemici.

L’inurbamento è indubbiamente un fenomeno ricorrente nella “storia delle civiltà”: dall’antica Roma, alle città della rivoluzione industriale, passando per le città rinascimentali, ecc, l’attrazione svolta sulle popolazioni dai contesti urbani con la combinazione di commerci ed attività produttive ha contrassegnato inequivocabilmente le fisionomie delle varie fasi storiche e relative strutture economico-sociali.

Più della metà dell’umanità vive nelle metropoli e ai suoi margini

Le dimensioni assunte dalla crescita delle aggregazioni urbane nel contesto attuale ci pone di fronte ad una differenziazione del fenomeno per aree geo-politiche dell’inurbamento che per quanto attiene, ad esempio la condizione metropolitana in Europa, trascende il significato originario di trasferimento di popolazione da ambienti rurali interni a quelli urbani innervandosi con i fenomeni migratori. Tuttavia, su scala “globale” si afferma un dato inedito: l'inurbamento ormai riguarda la maggioranza della popolazione mondiale 53%, era il 42% a metà anni ’80, e le Nazioni Unite calcolano una progressione che dovrebbe portarci al 70% nel 2050. Le megalopoli, le città con più di 10 milioni di abitanti, passeranno dalle 28 attuali alle 41 del 2030, cosi le metropoli, tra 1 e 5 milioni, dalle 417 odierne alle 558; 34 delle prime 50 aree urbane più popolose sono in Asia.

Il dato “grezzo” segna dunque un passaggio epocale: su scala planetaria, la maggioranza della popolazione mondiale non trae più il proprio sostentamento dall’attività agricola, il riversarsi di moltitudini negli ambiti urbani segna il trasferimento di quote di ricchezza prodotta dal settore primario, l’agricoltura, ai settori industriale e dei servizi. Emblematica la situazione negli Usa il cui 90% del pil e l’86% dei posti di lavoro si genera in una porzione di territorio pari al 3%, coincidente con gli aggregati urbani.

L’inurbamento, per restare all’epoca moderna, che nei paesi del “primo mondo” si poneva in diretta relazione con le trasformazioni sociali generate dalla prima rivoluzione industriale e fasi successive, ossia, con l’affermarsi in quella parte dell’occidente di una compiuta prevalenza delle condizioni del  lavoro salariato, oggi trova riscontri in tutti gli angoli del globo coinvolgendo, oltre alle economie in ascesa, paesi che non hanno mai rotto con la propria condizione di sottosviluppo.

La natura planetaria del fenomeno rischia di rendere poco pertinenti e superficiali eventuali spiegazioni con pretese onnicomprensive. Ad esempio, gli argomenti a sfondo demografico-ambientale come desertificazioni, carestie, modificazioni climatiche hanno un impatto decisivo nelle dinamiche d’inurbamento e migratorie in particolari aree del pianeta, ma sono ben lungi dall’esaurire la questione.

Ciò che invece oggettivamente sembra imporsi come “leva” nel passaggio epocale della maggioranza della popolazione mondiale in insediamenti urbani è, ancora una volta, sia pure ad una diversa fase di sviluppo delle forze produttive, la dislocazione dei processi produttivi che, sulla scorta del superamento degli equilibri geopolitici tra super-potenze egemoniche, Usa e Urss, ha dato luogo a nuovi scenari della divisione internazionale del lavoro.

Il prodursi di rilevanti processi di accumulazione di capitali nel gruppo dei paesi BRICS, nel sud-est asiatico, ecc, determina il dato strutturale che interagisce con le condizioni territoriali, realizzando espressioni differenziate del processo di inurbamento.

Dagli anni ’80 assistiamo in Cina ad una migrazione interna che ha coinvolto circa duecentocinquanta milioni di uomini a cui se ne aggiungeranno altri duecento nel prossimo ventennio che, oltre a costituire un fenomeno di impatto planetario di cui fatichiamo anche a fornircene una rappresentazione immaginaria, configura un processo di inurbamento interno ad un piano di gestione politica ed economica fondato sul primato assoluto dei processi di pianificazione e programmazione pubbliche. Questo rilievo sulla centralità della gestione pubblica non mira all’affermazione della presunta natura eminentemente socialista della struttura economico-produttiva cinese, quanto alla differenziazione dai processi di inurbamento, abbandonati alla “spontaneità” dei mercati, che contribuiscono alla crescita delle megalopoli in altri contesti, da Bombay a Città del Messico.

Quello cinese nella storia dei processi di inurbamento/industrializzazione costituisce un unicum capace da solo di dar conto non soltanto quantitativamente del passaggio epocale della maggioranza degli abitanti del pianeta in insediamenti urbani, ma, anche, del cambiamento qualitativo in corso di un gigantesco apparato produttivo da avamposto dei processi di delocalizzazione dei paesi del “primo mondo”, la fabbrica del mondo fondamentalmente esportatrice, ad un apparato di produzione e consumo commisurati al mercato interno, ovvero con una solidità ed autonomia propri ad un competitore globale. Naturalmente tutto ciò si accompagna ad altrettanto gigantesche questioni ed interpretazioni dei processi in corso in Cina, tuttavia, l’elemento centrale e caratterizzante della mutazione economico-sociale cinese è, lo sottolineiamo nuovamente, la centralità strategica assegnata alla pianificazione e programmazione pubblica dei processi di inurbamento.

Il ruolo pubblico, con l’evidenza cinese in primis, allora si pone come differenziazione tra i processi di inurbamento su scala planetaria, mentre l’inurbamento si conferma come categoria dei fenomeni di migrazione interna a singoli paesi o aree.

Migrazioni interne e migrazioni verso i paesi ricchi

Un’attenzione particolare va riservata alla crescita esponenziale dei fenomeni di inurbamento già in corso nel continente africano, con particolare riferimento alla fascia subsahariana, in  cui la combinazione della crescita demografica, prevista una triplicazione della popolazione africana nel corso del secolo oltre i quattro miliardi, con i tentativi di consolidamento della presenza per il controllo delle materie prime soprattutto dei paesi appartenenti al polo europeo, le mire del polo islamista e le politiche di intervento in grandi opere infrastrutturali promosso dalla Cina, rischiano di accelerare ed amplificare i conflitti già presenti, incentivando flussi migratori esterni inevitabilmente rivolti verso l’Europa.

Il binomio guerra/migrazioni che con l’escalation dello scontro tra poli imperialistici nell’area mediorientale sta sottoponendo a fibrillazioni crescenti la tenuta della cittadella imperialistica europea, rischia di trovare in un futuro prossimo nell’estensione al continente africano delle contraddizioni tra le pretese egemoniche imperialistiche e un nuovo fronte di “invasione” di cui non osiamo immaginare le modalità di contenimento.

Il riferimento ai flussi migratori verso l’Europa e alla loro origine, ci consente di differenziare i fenomeni di inurbamento dovuti al trasferimento campagna/città dai fenomeni migratori propri alle metropoli occidentali. Naturalmente andrebbero effettuate distinzioni tra i flussi migratori contemporanei verso il Nord-America da parte delle popolazioni ispaniche con il progressivo deteriorarsi delle possibilità connesse all’economia di sussistenza agricola travolta dall’agro-business, da quelle che investono il vecchio continente. Il processo di inurbamento interno ai paesi europei legati al movimento della forza-lavoro campagna/città è ampiamente concluso, l’inurbamento nel vecchio continente è essenzialmente espressione dei flussi migratori generati dalle contese egemoniche dei poli imperialistici, foriere di destabilizzazioni di intere aree geopolitiche e di disgregazioni sistematiche di organizzazioni statuali spesso ricondotte a una condizione tribale.

Allora, provando a definire un’approssimativa sintesi delle tracce proposte, l’inurbamento si propone come duplice dinamica dello stesso fenomeno, ossia, la ridefinizione delle aree di accumulazione capitalistica e del peso egemonico dei poli imperialisti nei vari scenari geostrategici, che opera sia come ridislocazione dei luoghi di produzione del valore, le cosiddette filiere produttive, sia come distruzione degli equilibri geopolitici per il grado elevato di competizione inter-imperialistica.

Meritevole di rilievo, non solo l’effetto dei flussi migratori nelle metropoli/megalopoli occidentali, per la funzione classica “dell’esercito industriale di riserva” e del ruolo di contenimento degli aggregati urbani, oltre che per l’indagine della composizione della forza-lavoro e della permeabilità alle modalità di sfruttamento richieste dalla tentacolare estensione del rapporto privatistico, ma anche il processo migratorio interno alle aree geopolitiche: al processo migratorio esterno, di cui abbiamo sommariamente elencato le cause, si aggiunge un fenomeno migratorio interno alle aree geopolitiche, ossia il trasferimento dalla periferia produttiva, tipico esempio i paesi PIIGS europei, di competenze qualitativamente significative, vedi ricerca, verso i centri di “eccellenza” dell’organizzazione capitalistica. In altri termini, forza-lavoro ad alta qualificazione, anch’essa legata ad un “effetto trascinamento” verso i luoghi della valorizzazione, che non trova collocazione nei paesi di formazione per l’inadeguato livello generale della struttura produttiva o per la loro funzione nel quadro della divisione del lavoro competitivamente determinata. Un fenomeno dalle dimensioni non trascurabili, se è vero che i dati ufficiali dei flussi in entrata ed uscita dal nostro paese, esclusa la presenza cosiddetta clandestina, sono sostanzialmente equivalenti.

La visione capitalistica sulle metropoli

Dunque, ci sembra questo il quadro di tendenze che definisce il profilo delle metropoli/megalopoli nell’attuale fase della competizione globale, con cui interagiscono le questioni sollevate dalla rivista “Limes”: urbanistica, disagio sociale, criminalità, precarietà, fenomeni di radicalizzazione islamista ecc. Eppure, pur ribadendo, l’utilità del lavoro di indagine svolto dalla rivista non ci sembra che si colga la specificità delle aggregazioni urbane nella fase attuale, a partire dal rapporto decisivo pubblico/privato. In “epoca capitalistica” i processi di urbanizzazione hanno costituto uno strumento fondamentale per l’assorbimento delle eccedenze di capitale e lavoro (Harvey), con una funzione sostanzialmente anticiclica o comunque di sostegno all’accumulazione anche con la costruzione di infrastrutture. I grandi progetti di trasformazione urbana del XIX e XX secolo sono tutti interni al rapporto tra pubblico e privato, in una relazione di preminenza dell’aspetto pubblico per le inevitabili lunghezze del ciclo produttivo e la programmazione in settori quali l’edilizia, trasporti, ecc, realizzando una dimensione di funzionalità del contesto urbano alle necessità dell’accumulazione, con un ruolo strategico assegnato allo Stato.

Il piano Ina-Casa, 1949-1963, ad esempio, ha rappresentato nel nostro paese il modello della pianificazione urbanistica dell’inurbamento del 2° dopoguerra, con una visione di città a misura di collettività, non solo enunciata e che oggi apparirebbe come esempio di propaganda bolscevica, evidenziando una funzione di indirizzo e gestione del pubblico, sostanzialmente sopravvissuta, fino alla realizzazione dei piani di Edilizia Economica e Popolare (1964-84).

La città pubblica sopraffatta dagli interessi privati

Ciò che si impone oggi nel rapporto pubblico/privato è il superamento di un equilibrio nella salvaguardia delle funzioni e di ruoli, in cui il capitale privato, sempre più a dimensione multi-transnazionale, mira a riassumere all’interno del proprio processo di valorizzazione tutti gli ambiti della vita sociale. Come questo sia avvenuto è chiaramente iscritto nel sistema di relazioni e di interessi posti a governo delle metropoli urbane. L’immagine delle metropoli offerta da “Limes” di contesti urbani periferici a “bassa pressione istituzionale e a forte informalità” confligge con la realtà di una presenza istituzionale sempre più stringente, tra cui la sperimentazione dell’esercito con funzioni di controllo sociale, e la privatizzazione del territorio assoggettato, non solo per quanto attiene alla sfera criminale-speculativa, alla logica del mercato, in cui la deregolamentazione delle relazioni formalizza in modo netto i rapporti di forza.

L’invito da parte di “Limes” a riaffermare una rinnovata collaborazione tra pubblico e privato per una rinascita delle periferie, non tiene conto di questa nuova dimensione della supremazia della categoria del profitto come parametro codificato della razionalità ed efficienza del sistema.

Una condizione ben riassunta dal paradosso della metropoli romana, in cui la decrescita del numero dei residenti si scontra con la gentrificazione strisciante e con l’aumento incessante delle cubature di cemento per l’edilizia privata e l’estensione delle cinture periferiche, riconducibile ad un modello di insediamento pulviscolare, scollegato dalla rete dei servizi, interamente nelle mani dell’interesse privato e della speculazione.

Allora il progressivo venir meno della funzione pubblica, intesa come espressione di interesse generale, anzi il suo inglobamento nei criteri del capitale privato, a cui viene riconosciuta superiorità organizzativa e gestionale e centralità economica, pone la questione periferie sul terreno “politico” dell’esercizio della sovranità della parte maggioritaria della popolazione. Recuperare sovranità nell’affermazione dei propri interessi, per un modello di città sottratto all’egemonia degli interessi privatistici, dare corpo alla rappresentanza di questi interessi e alla loro natura inevitabilmente conflittuale è il vero nesso che riannoda la questione sociale urbana del XXI secolo alle possibilità di trasformazione del modello sociale.

E questo nell’indagine di “Limes” e di tutti quelli che hanno scoperto le periferie non può proprio esserci...

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento