di Chiara Cruciati – ll Manifesto
Da settimane lo Stato
Islamico è sottoposto ad una pressione senza precedenti tra Siria e
Iraq: il cuore del progetto statuale di al-Baghdadi (domenica dato di
nuovo per ferito in un raid Usa) assiste alle controffensive di diversi
attori. In Siria ad avanzare verso Raqqa sono l’esercito governativo da
ovest e le Forze Democratiche Siriane (kurdi, arabi, assiri, turkmeni)
da nord. In Iraq è il composito fronte di Baghdad a puntare alla
liberazione definitiva della provincia di Anbar: esercito regolare,
milizie sciite, tribù sunnite, in alcuni casi peshmerga. Dal cielo Stati
Uniti e Russia coprono le guerriglie urbane con i jet.
Per la prima volta in due anni l’Isis perde territorio, mangiato giorno per giorno dai nemici kuffar,
gli infedeli. È la fase discendente, dopo gli apici toccati alla fine
del 2015 con un terzo di Siria e Iraq occupato. Ma l’acme ideologico non
è raggiunto, la capacità di attrazione non è intaccata: l’Isis non ha
imboccato la via della sconfitta. Perché? Perché il “califfato”
non è una mera macchina da guerra, ma un sofisticato sistema di
propaganda che si autoalimenta con le contraddizioni dei paesi dove
colpisce, in Africa, Medio Oriente e Occidente. Come un
camaleonte si adatta alle ambizioni dei miliziani vecchi e nuovi, si
plasma su quelle che l’adepto vede come proprie necessità identitarie ma
che dall’Isis sono state generate.
E il ritiro da Ramadi, Sinjar e – a breve – Fallujah in Iraq e da
Kobane e Palmira in Siria non fanno perdere appeal al progetto statuale
del “califfato”. Al contrario potrebbero rafforzarlo, spingendo sempre
più adepti esterni, i foreign fighters, ad aderire per riprendere quello
che è stato tolto dal nemico. Affascinerà ancora perché la
macchina della propaganda estremamente moderna e sviluppata, calibrata a
seconda dell’utente – che sia un sunnita mediorientale o un francese di
terza generazione – continuerà a marciare alimentata dalla capacità di
muoversi nelle contraddizioni interne.
Lo fa in Iraq quando fa esplodere autobombe nei quartieri sciiti di Baghdad,
in un periodo di estrema tensione interna tra il governo centrale e la
comunità sciita furiosa per la corruzione strutturale. Lo fa a Ramadi,
liberata sei mesi fa, e ieri di nuovo teatro di un attentato contro la
polizia irachena, cercando di mostrare così l’inettitudine delle forze
armate nel proteggere le comunità sunnite. E ovviamente lo fa
alimentando le divisioni confessionali, riaccese con l’invasione Usa, e
che non saranno certo vinte con la liberazione di Fallujah o Mosul, dove
prosegue la controffensiva: altri 4mila civili sono riusciti a fuggire da Fallujah nei giorni scorsi in attesa della battaglia finale.
Lo fa anche in Siria dove la contraddizione principe è la guerra
civile che si concentra su se stessa senza guardare al nemico comune. Se
a Ginevra l’Isis non è oggetto di dibattito, sul campo lo è solo per
una parte degli attori per motivi politici, nazionali e ideologici:
Damasco che non vuole la divisione del territorio e che vede negli islamisti un altro braccio del fronte di opposizione interno ed esterno; e
i kurdi di Rojava il cui modello di autogoverno, democrazia confederale
fondata su ecologia e uguaglianza di genere, si scontra naturalmente
con il sistema fascista modellato dall’Isis. Lunedì le Sdf hanno liberato altri 4 villaggi dopo i 90 ripresi dl 31 maggio tra Manbij e Raqqa.
Ma lo Stato Islamico sa colpire allo stesso modo in tutta la regione,
più ferocemente di prima, da Istanbul alle moschee in Arabia Saudita,
dallo Yemen in guerra al Sinai egiziano. E se all’estero la
principale contraddizione su cui lo Stato Islamico si riproduce è
l’assenza di integrazione socio-economica negli Stati ex-coloniali
europei, in Medio Oriente il mitico richiamo al “califfato” (la promessa
di un sistema alternativo) attira nuovi adepti che più di prima
colpiranno a livello sotterraneo. Dal 2011 sono arrivati tra
Siria e Iraq 27-31mila combattenti stranieri, di cui il 20-30% poi
rientrati nei paesi di origine. Arrivano da 86 Stati diversi, per lo più
da Asia (14mila) e da Europa (6mila, oggi il doppio rispetto al 2014).
Infine l’ultimo elemento, indispensabile a sostenerne lo sforzo militare islamista: il sostegno garantito dagli Stati-nazione.
Impossibile non vedere nello sviluppo repentino dell’Isis – attivo dal
2003 ma diventato sostituto di al Qaeda in molti scenari dal 2014 – il
ruolo distorto di paesi che dall’instabilità dei vicini colgono uno
strumento di crescita strategica: Turchia e Golfo. Se Ankara continua a
combattere i kurdi turchi e siriani, Riyadh – dopo aver finanziato i
gruppi islamisti – nelle scorse settimane ha rallentato Baghdad a
Fallujah convincendola a posporre la controffensiva di 36 ore e
garantendo così a parte dei miliziani Isis una ritirata sicura.
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