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28/05/2025

[Contributo al dibattito] - Dati e mappe per capire dove Silvia Salis ha vinto a Genova

Ci sono alcuni dati interessanti che aiutano a spiegare i risultati delle elezioni comunali di Genova, vinte nettamente al primo turno dalla candidata del centrosinistra Silvia Salis: per esempio vale la pena capire come sono cambiate le cose rispetto alle comunali di tre anni fa e alle elezioni regionali di meno di un anno fa, quante persone hanno votato, come se la sono cavata i partiti e soprattutto come è cambiata la distribuzione del voto nei quartieri della città.

I risultati definitivi hanno confermato le indicazioni dei sondaggi commissionati durante la campagna elettorale che davano Silvia Salis vincente senza troppi problemi contro il candidato del centrodestra, il vicesindaco Pietro Piciocchi. Già alla diffusione dei primi exit poll si era capito che per il centrodestra c’erano poche possibilità di evitare una sconfitta al primo turno. Salis si è imposta con il 51,48 per cento dei voti, Piciocchi si è fermato al 44,2 per cento. Il distacco è stato molto ampio, di oltre sette punti percentuali e 17.629 voti (su circa 242mila).

Gli altri candidati si sono dovuti accontentare di pochi voti. Nessuno è riuscito a superare il 2 per cento: Mattia Crucioli di Uniti per la costituzione ha ottenuto l’1,45%, Antonella Marras della sinistra l’1,29, Francesco Toscano lo 0,78%, Raffaella Glauco lo 0,52 e Cinzia Ronzitti del partito comunista dei lavoratori 0,27%.


Proprio sul distacco tra centrosinistra e centrodestra si può fare qualche considerazione, perché a Genova la differenza tra le due coalizioni è stata molto simile a quella emersa dalle elezioni regionali dello scorso anno. Andrea Orlando, allora candidato del centrosinistra, perse le elezioni in tutta la regione, ma nella città di Genova riuscì a superare il candidato del centrodestra Marco Bucci di otto punti percentuali. Fu un risultato piuttosto eclatante, segnale evidente della crisi del centrodestra genovese.

Bucci infatti governava Genova da sette anni, eletto per la prima volta nel 2017 e una seconda volta nel 2022. Era stato candidato alle elezioni regionali, poi vinte grazie ai risultati ottenuti nelle altre province, perché considerato un sindaco capace, apprezzato per il suo impegno dopo il crollo del ponte Morandi.

Pochi mesi fa, dopo le regionali, il pessimo risultato ottenuto in città dal centrodestra era stato attribuito soprattutto all’inchiesta per corruzione che aveva coinvolto l’ex presidente della Regione Giovanni Toti, anche lui di centrodestra. A Genova non si era parlato d’altro per mesi. Toti si era dimesso e ha infine patteggiato una pena di due anni e tre mesi, convertita in 1.620 ore di lavori di pubblica utilità.

L’inchiesta aveva rivelato estesamente come venivano gestite alcune importanti decisioni politiche ed economiche in particolare sul porto, centrale per l’economia della città. «L’impressione, da qualsiasi latitudine politica si guardi a quanto accaduto nell’ultimo anno, è che un ciclo sia finito», ha scritto il Secolo XIX. «In sei mesi i genovesi hanno votato praticamente nello stesso modo, a prescindere dal candidato di centrosinistra ma manifestando in entrambi i casi la volontà di bocciare con decisione la giunta uscente».

Un altro dato interessante riguarda l’affluenza, più alta rispetto alle elezioni comunali del 2022 vinte da Bucci. All’epoca votò solo il 44,1 per cento, sabato e domenica il 51,91 per cento, in crescita di quasi due punti percentuali anche rispetto alle regionali dello scorso anno (per quanto comunque molto bassa). Questa mappa mostra l’affluenza in tutte le sezioni della città.


Nel festeggiare la vittoria Silvia Salis ha detto che il campo progressista può vincere potenzialmente ovunque. Campo progressista è l’espressione con cui viene indicata l’ampia alleanza di tutti i partiti ora all’opposizione del governo di destra, mentre “campo largo” è il nome dato all’alleanza tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle.

A differenza delle ultime regionali, quando Italia Viva decise di non sostenere Andrea Orlando, Silvia Salis è riuscita a mettere d’accordo tutti. «Credo che Genova in questa campagna elettorale abbia dimostrato come la destra sia legittimata solo dalla non unione del campo progressista perché quando il campo progressista si unisce e si mettono a confronto due classi dirigenti, quella della destra e quella del campo progressista, non c’è paragone», ha detto Salis.

Nella coalizione del centrosinistra è andato particolarmente bene il Partito Democratico, primo tra i partiti con poco più del 29 per cento dei voti, quasi otto punti percentuali in più rispetto alle elezioni regionali. Notevole anche il risultato della lista civica di Salis che ha raggiunto l’8,3 per cento dei voti. Alleanza Verdi e Sinistra ha ottenuto il 6,91, mentre il Movimento 5 Stelle poco più del 5 per cento.

Nel centrodestra invece Fratelli d’Italia non è andato oltre il 12,44 per cento, poco più della lista civica Piciocchi sindaco. La Lega non è arrivata nemmeno al 7 per cento.

Come si può notare dalla mappa dei risultati in tutte le sezioni, Silvia Salis ha vinto in tre quarti di città, dal centro storico fino alla zona di Ponente, compresa la Valpolcevera. Piciocchi è riuscito a mantenere soltanto alcune delle zone storicamente di centrodestra come il Levante e parte della Valbisagno.

Durante lo scrutinio diversi osservatori hanno tenuto d’occhio i risultati in Valpolcevera, storicamente di sinistra e vinta da Bucci nel 2022 dopo la ricostruzione del ponte Morandi. Stavolta è tornata al centrosinistra, che è riuscito a riconquistare molte altre zone vinte da Bucci nel 2022 come Sampierdarena, Cornigliano, Sestri Ponente, Pra’ e Pegli.


Questa mappa mostra invece i risultati di tre anni fa, nel 2022, quando vinse Marco Bucci che ora è presidente della regione Liguria.

Fonte

Qualche riflessione su quanto sopra pensiamo si renda necessaria. I dati dell'analisi del voto, infatti, crediamo non offrano spiegazione circa l'esteso "tradimento" verso la destra operato chi si è recato alle urne, che per altro si attesta ad appena la metà degli aventi diritto.
Non ci convince particolarmente la motivazione etico-giustizialista, per cui il voto, in prevalenza avrebbe punito elettoralmente gli scandali che hanno travolto il sistema Toti.
Forse, un peso lo ha avuto il risvolto più negativo per la città di un modello di sviluppo fondato sulla messa a valore del territorio. Quindi un voto di vendetta contro cantieri infiniti in ogni dove e turstificazione degli spazi urbani che hanno reso la vita in città, a partire dalla mobilità giornalieri per andare e tornare dal lavoro, un autentico inferno.

03/05/2025

Torna Farage, la crisi britannica ritrova il suo detonatore

Ricordate quel pazzo scatenato che – senza diventare mai primo ministro – alla fine è riuscito ad imporre la Brexit? Beh, è tornato. O, forse, non se ne era mai andato.

Si è appena votato per le elezioni suppletive, in Gran Bretagna, in un collegio del Nord-Ovest: Runcorn e Helsby. E qui Nigel Farage (il suo partito) è riuscito a strappare la vittoria per appena sei voti, conquistando un seggio che era appannaggio “sicuro” del partito laburista. Alle ultime elezioni politiche, quelle che hanno portato a Downing Street quel finto sinistro di Keir Starmer, i laburisti qui avevano trionfato (come sempre, nella storia) lasciando il secondo candidato a 15.000 voti di distanza.

Svaniti in appena dieci mesi... “Merito” di un premier guerrafondaio e antipopolare che dichiara ogni giorno di voler tagliare la spesa sociale per nutrire le ambizioni militari di un paese che non è più da decenni un “impero” ma ancora non si rassegna all’irrilevanza. Basti vedere l’idiozia pericolosa nutrita insieme all’ex banchiere francese, Emmanuel Macron: una “coalizione dei volenterosi” per mandare truppe Nato in Ucraina, col rischio concretissimo di provocare la Terza Guerra mondiale. Non più “a pezzi”, ma tutta intera.

Insieme al collegio “sicuro” – vista la coincidenza con le elezioni amministrative – sono saltati anche centinaia di piccoli comuni, tutti da lungo tempo appannaggio del laburisti. Il che, inevitabilmente, porta a conclusioni piuttosto chiare: se abbandoni, con la tua politica nazionale, anche l’ombra della difesa degli interessi popolari, consegni automaticamente la maggioranza della popolazione all’unica forza politica che – mentendo spudoratamente, certo – si presenta come “fuori dal teatrino della politica”. Populisti reazionari, gente impresentabile che diventa “votabile” solo perché quelli “istituzionali” (laburisti o conservatori che siano) appaiono ormai come partiti nemici.

Dalla padella alla brace, per i poveri elettori che hanno perso ogni riferimento credibile e si comportano perciò in senso stretto come consumatori: oggi voto Tizio, domani Caio, hai visto mai...

Ma questa “volubilità” acefala dell’elettore medio – soprattutto “laburista” – in prospettiva elezioni politiche, diventa un uragano. Sulla carta, il risultato di Reform UK metterebbe a rischio più di 350 dei 411 seggi vinti dal Labour nel 2024. Una cifra più che sufficiente ad ottenere la maggioranza nella Camera dei Comuni (650 seggi), ma soprattutto uno scenario da incubo per il governo Starmer.

Ovviamente, tutti gli analisti consigliano prudenza. Prendere voti alle comunali – o in un collegio – è una cosa, tutt’altra è convincere buona parte del paese a credere che la tua ricetta “volgare e sbrigativa” sia la soluzione giusta per uscire da una condizione di povertà.

Ma proprio qui casca l’asino. Il partito di Farage – “Reform UK” – è già riuscito nell’intento imponendo la Brexit nell’agenda politica britannica. La sua retorica da quattro soldi è stata comunque sufficiente a costringere i Conservatori a spostarsi su una posizione simile, fino a celebrare un referendum che ha sancito la separazione dall’Unione Europea.

Altrettanto ovviamente, non avendo i Tories un programma alternativo al neoliberismo puro e duro, quella “uscita” non è stata affatto un successo. Anzi, il contrario.

Dunque il “piccolo Trump” di Londra è e resta una sciagura reazionaria che può certamente far perdere entrambi i partiti del defunto “bipolarismo liberale obbligato” (e se lo meritano), ma ha ancora quasi zero possibilità di ascendere al governo della Gran Bretagna. Se ci riuscisse, il tracollo del Regno Unito sarebbe certo ancora più rapido.

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16/06/2024

Quando Livorno scomparve in un giorno

Le elezioni amministrative sono scadenze elettorali che sul territorio funzionano come un censimento: fanno quindi capire molto più dei dati che forniscono e ci danno una visione complessa di quello che sta accadendo in città.

Quello che è accaduto a Livorno va letto attraverso una serie di criteri: il progressivo invecchiamento della popolazione (nel 2008 i pensionati rappresentavano il 29% degli abitanti del territorio oggi oltre il 42%); il calo del potere di acquisto dei livornesi (dai dati acquisiti in campagna elettorale superiore a quello delle grandi città); l’elevata propensione all’indebitamento per il credito al consumo per compensare il calo del potere d'acquisto (Livorno è il capoluogo di provincia top in Italia per questo fenomeno); la prevalenza dei contratti precari (72%) nelle nuove assunzioni.

Questi criteri rendicontano l’esistenza di tre fenomeni che attraversano Livorno determinandone il presente e il futuro: rendita, debito, precarietà. Il debito è la zona che mette a contatto rendita e precarietà determinando significative differenze di classe visto che la rendita è in grado di usare il debito, mentre la precarietà solo di subirlo. È chiaro che la rendita sta cambiando, non solo per il degrado del sistema pensionistico, ma sia per i patrimoni ereditari che passano ai più giovani che per le mutazioni di un mercato immobiliare maggiormente legato al turismo. Ma sta cambiando anche il precariato sempre più legato a servizi di bassa qualità vista anche la presenza molto ridotta a Livorno di imprese innovative.

In questo contesto la vittoria al primo turno del centrosinistra alle amministrative 2024 è molto diversa da quelle dell’epoca del PCI o dello stesso centrosinistra negli anni della finanziarizzazione e del boom immobiliare e dei servizi dopo la fine del modello industriale in città.

Prima di tutto perché si tratta di una presa del potere ottenuta grazie a un apporto molto minore della popolazione rispetto al passato (in sostanza ha votato un cittadino su due con un -8% rispetto alla già bassa percentuale di voto nazionale). Poi perché a differenza del PCI, che esprimeva la classe dirigente dell’epoca industriale, e del centrosinistra del passato, che rappresentava comunque fenomeni emergenti, questa vittoria si spiega con l’intreccio tra poteri esistenti, rendita, debito e precarietà.

Come si direbbe in un altro linguaggio si tratta di una vittoria che interpreta pienamente il presente.

La vittoria del centrosinistra di oggi è quella della capacità di mettere assieme interessi molto diversi nei “mondi” attraversati da questi tre fenomeni che sono “abitati” in modo molto differenziato. Si tratta di una capacità ottenuta in modo tradizionale, con la classica mediazione face-to-face, con l’intervento dei cartelli elettorali e con un marketing anni ‘10 che risulta efficace specie quando egemone.

Il risultato, in termini di potere, è andato ben oltre il campo del centrosinistra visto che hanno votato Salvetti spezzoni corposi di centrodestra, in nome della capacità di salvaguardia della rendita, e in caso di secondo turno era già pronto un soccorso a sinistra. Insomma, il centrosinistra ha composto una long tail molto estesa fatta di portatori di interesse – alcuni grandi, altri piccoli – che si è riconosciuto nella proposta Salvetti. Questo fenomeno, assieme a una astensione inedita, ha fatto la differenza.

Rendita, debito precariato, assieme, hanno caratteristiche antropologico-politiche ben precise: sono fenomeni legati prevalentemente alla dimensione del presente – dominato o subito, non importa – e, oltre a interessi immediati, sono sensibili alla dimensione onirica del marketing che è il piano simbolico-comunicativo che li tiene assieme oltre a esse una industria che cresce proprio grazie a loro. Si può anche sorridere vista la gracilità degli interessi immediati garantiti dal centrosinistra e il trash dell’onirico tipico del marketing del primo cittadino durante tutto il mandato. Ma una volta smesso di sorridere si nota che tutto questo funziona e intercetta gli intrecci di potere che passano tra rendita, città indebitata e precariato.

Così a Livorno, alla restrizione seria della platea elettorale ha corrisposto, da parte del centrosinistra, l’occupazione maggioritaria della platea dei portatori di interesse. Questo in uno scenario nel quale il concetto di futuro appartiene al marketing politico elettorale, e poi a quello della vita di tutti i giorni, ma non, o almeno non al momento, alla pratica dei portatori di interesse.

Se c’è un altro fenomeno nel quale un livello di astensione mai visto a Livorno si rispecchia è quello della perdita di controllo economico, e politico, del territorio a causa del ritrarsi, dalla città, dell’economia e della politica formali (ne abbiamo parlato qui). Di per sé il fenomeno è facilmente spiegabile: meno stato ed economia sono presenti minore è la partecipazione ai fenomeni elettorali. Che tutto questo porti al rischio azzeramento della vita municipale è nei fatti.

Siamo quindi in una zona ai confini della realtà, quella concepita come tale negli ultimi due-tre decenni, ovvero nella norma delle società distopiche come le nostre. La nostra distopia è che la parte di città che si sottrae al voto semplicemente, sul piano politico e sociale, scompare. Non ricompare altrove, o in attesa di tempi migliori, semplicemente svanisce.

Se dare suggerimenti, in un contesto del genere, è da maestrini risulta invece etico avvertire che di fronte a fenomeni di questo tipo niente, o poco, delle certezze acquisite serve veramente a qualcosa se si vuol dare un futuro a questa città.

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12/04/2024

Turchia - A Van i curdi resistono e vincono contro Erdogan

Dopo le elezioni amministrative in Turchia dello scorso 31 marzo, non sono mancati episodi che hanno confermato la tensione nel Paese tra turchi e curdi.

La situazione più critica si è registrata nella città di Van, nella parte orientale della Turchia, dove il sindaco eletto, Abdullah Zeydan, appartenente al Partito della Democrazia e dell’Uguaglianza del Popolo (DEM), è stato destituito per volontà del Ministero della Giustizia, avanzando ipotesi di ineleggibilità.

Il grido dei curdi però si è fatto sentire, forte e chiaro, e la prepotenza e violenza politica del “padrone” del Paese, Erdogan, si è spezzata davanti alla rivolta popolare che c’è stata di fronte all’ennesima usurpazione, già avvenuta nelle elezioni amministrative del 2014 e poi del 2019, quando il governo di Ankara aveva mostrato il suo volto feroce nelle municipalità dove il partito dei curdi aveva vinto.

Questa volta la storia è andata diversamente ma la battaglia non è finita, sarebbe illusione pura pensarlo, perché quando il potere viene sconfitto si dimena per riappropriarsi delle posizioni perse.

Con l’associazione Verso il Kurdistan, da più di vent’anni attiva con progetti di solidarietà nei confronti delle popolazioni curde di Turchia e Iraq, abbiamo visitato Van e siamo stati ricevuti dal cinquantaduenne neo-eletto sindaco Zeydan.

La sua storia è fatta di un mandato parlamentare interrotto dalla sua incarcerazione con l’accusa di essere vicino al PKK, partito dei lavoratori del Kurdistan, messo fuorilegge perché considerato terrorista, e da diversi scioperi della fame mentre scontava la pena, uno dei quali a sostegno di Abdullah Ocalan, leader del PKK. Il neo-eletto sindaco, messo in prigione nel 2016, è uscito nel 2022.

In considerazione dei giorni tragici del 2 e 3 aprile scorso, quando le manifestazioni di piazza hanno visto la polizia turca prendere e imprigionare più di duecentottanta persone, come lo stesso Zeydan ha dichiarato, che insieme a migliaia di altre hanno posto resistenza al tentativo di cancellare l’esito delle urne, la domanda scontata da rivolgere al sindaco è stata quanto sentisse solida l’affermazione elettorale, rimarcata dalla forza di piazza che ha difeso il risultato.

Zeydan, prima di rispondere, ha precisato che la sua carica al vertice della città è condivisa con la co-sindaca Neslihan Şedal, carica inesistente per la legge turca ma scelta politica perseguita dal partito DEM.

In questo modo il DEM decide di dar voce e seguito al paradigma del confederalismo democratico di Abdullah Ocalan che nella condivisione tra uomo e donna di tutti gli incarichi istituzionali fa un perno di una nuova politica inclusiva e innovatrice.

Zeydan ha poi manifestato fiducia nella possibilità di concludere il mandato, ma ha sottolineato che sarà fattibile \.

Membri del partito e gli stessi co-sindaci hanno poi espresso un forte disappunto verso la politica dell’Unione Europea, considerata doppiogiochista, perché sventola da una parte la bandiera dei diritti umani e della loro difesa, invocando la necessità di liberare le prigioniere e i prigionieri politici, di garantire giusti processi e trattamenti dignitosi nelle carceri e dall’altra tesse relazioni con il “Sultano” nel sottobosco della politica degli interessi più meschini, che nulla hanno a che vedere con il rispetto dei diritti umani.

L’accusa, dichiarata con nettezza e chiarezza, è di tradire un popolo, quello curdo, che lotta per la propria esistenza, considerato strumentalmente dal governo turco un manipolo di terroristi da far marcire nelle patrie galere.

Nell’epoca del pensiero unico, dove le oligarchie governano indisturbate anche nel Vecchio Continente, la battaglia del neo-eletto sindaco di Van e del popolo curdo per la realizzazione del confederalismo democratico, frutto dell’analisi politica, economica e sociale del leader Apo (Abdullah Ocalan), rinchiuso dal 1999 nella prigione dell’isola di Imrali e di cui da più di due anni non si sa nulla, difficilmente troverà l’abbraccio dell’Europa che con ogni probabilità non si prenderà a cuore la sua sorte e nei fatti si disinteresserà del suo impegno coraggioso, che sfida la brutalità di un governo oppressore per costruire la democrazia, quella stessa che a noi ogni giorno di più sfugge di mano.

Con questa Europa non c’è spazio per i popoli ma solo per i quaquaraquà che la governano.

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05/04/2024

Turchia - Le recenti amministrative mettono in luce un paese diverso?

Dopo le recenti amministrative, che registrano una sconfitta ancor più sonora di quella di cinque anni or sono del governativo Akp, sono in molti a chiedersi se ci sia una nuova Turchia in grado di sostituire il modello erdoğaniano. I risultati del 31 marzo hanno visto la rielezione di sindaci repubblicani nelle maggiori città. Innanzitutto nel luogo simbolo – Istanbul – dove l’uscente Ekrem İmamoğlu ha surclassato, distanziandolo di dieci lunghezze percentuali, l’ex ministro Murat Kurum, candidato scelto direttamente dal presidente. Nella capitale non c’è stata partita, Yavas si è confermato primo cittadino con 59,6% di preferenze su un grigio Altinok (32,2). A Izmir più del 10% è stato il distacco del repubblicano Tugay sull’uomo dell’Akp Dağ. Era accaduto anche nel 2019; ora però questo successo non rappresenta più una novità bensì un solido stato delle cose. Tenete presente il concetto dell’inconsistenza degli esponenti filogovernativi, perché costituisce il fulcro dell’odierna crisi della creatura politica di Erdoğan. Ne parleremo più avanti. Lo smottamento del consenso intacca anche grandi città come la fedelissima e conservatrice Bursa per nulla sfiorata dalla precedente flessione. E anche centri minori: Balıkesir, Denizli, Uşak, Kütahya, Kırıkkale, Afyonkarahisar che rappresentavano lo zoccolo duro del Partito della Giustizia e Sviluppo. Cosa accade? Accade che le tante Turchie interne al contenitore patrio, sempre al centro delle considerazioni d’ogni elettore nel corso di consultazioni politiche, quando si vota per le municipalità rilasciano la scia delle svariate identità che non sono solo etniche, religiose, culturali. Tutto fibrilla attorno a questioni locali concernenti servizi, strutture, investimenti e aspetti che hanno pure risvolti nazionali, ma nei municipi sono particolarmente sentite dalla gente.

Oppure, come si dice, problemoni grossi come case. Queste ultime, appunto, spazzate via a centinaia di migliaia dal cataclisma del febbraio 2023 che ha colpito il sud-est (ne sono state censite 300.000) sono ferite ancora aperte e profondissime. Non tanto per chi non c’è più, oltre cinquantamila persone, ma per chi vive tuttora la precarietà abitativa: ottocentomila cittadini collocati in alloggi di emergenza. Certo, la popolazione toccata dalla catastrofe ammontava a 15 milioni, e l’agenzia governativa Afad, che s’occupa di assistenza e sostegno ai terremotati, dopo iniziali titubanze ha lavorato a pieno regime. Comunque lo scontento resta profondo fra quegli sfollati che un mese dopo sentivano Erdoğan promettere alloggi per tutti entro l’anno e si son trovati a inizio 2024 ancora senza casa. Se l’elettore dell’Akp, nel maggio delle trascorse presidenziali continuava a seguire il leader e lo confermava alla guida della nazione, poi vedendo come candidato nella metropoli-vetrina l’ex ministro Kurum si sarà spazientito voltando le spalle al partito e al padre della patria. Perché Kurum è stato a lungo manager dell’azienda statale Toki, quella che aveva creato edifici crollati e nuovamente scelta per una ricostruzione che si rivela tardiva. L’altra piaga che affligge il cittadino medio, e non salva gli elettori filo islamisti, è un’inflazione senza fondo che sale, sale davanti alle contestatissime volontà di Erdoğan d’inseguire un rilancio economico tagliando i tassi d’interesse. Lui l’ha imposto alla Banca Centrale in contrasto coi suoi ministri delle Finanze. Ne ha cambiati cinque in un paio d’anni, litigando con ciascuno perché quella mossa è agli antipodi delle misure indicate dalle ferree leggi monetarie. Ma tant’è. Si prosegue su questa strada e la gente vede alleggerire il portafoglio come mai era accaduto in un ventennio di sviluppo. Il carovita è stellare. Oggi al 70% e domani?

İmamoğlu, l’uomo che fa sognare la laicità presente nello storico gruppo kemalista, e dopo la riconferma scandiva dal palco: “È l’alba d’una nuova era”, è dinamico, accattivante, carismatico, pronto a sostituire in un futuro distante quattro anni Erdoğan. Innanzitutto perché a quel punto lui avrà 56 anni e il sultano 74. L’eternità in politica non esiste. Esiste il mito e questo l’attuale presidente l’ha creato: è entrato nell’empireo della Turchia moderna al fianco di Atatürk, addirittura sopravanzandolo. Potrebbe bastargli. Coi rapporti di forza incrinati non gli conviene tentare un rimaneggiamento della Costituzione, può costargli caro. Dovrebbe chiudere da vero padre della nazione, osservando lo scenario sopra le parti e soprattutto cercando un sostituto nel suo campo. Ma una maledizione da leader maximo lo insegue. È attorniato dai volti scoloriti di politici perdenti, come quelli giubilati in queste amministrative, che sono ciò che resta dei repulisti compiuti da lui medesimo contro le menti migliori dell’Akp che ne hanno accompagnato l’avventura politica. I Gül e Davutoğlu hanno ormai i loro anni, ma è stata la furia erdoğaniana abbattutasi su di loro che ha prodotto nell’ultimo decennio un panorama di soggetti simili più agli apparatčiki sovietici che a figure seducenti da cui poteva scaturire un delfino. Anno dopo anno il sultano ha continuato a regnare e, come accade ai grandi capi egocentrici, non ha pensato alla successione. Credendo bastasse investire del ruolo un tecnocrate, dal genero Albayrak a vari ministri incaricati e poi bocciati. È andata male. Adesso si trova con la palla a centrocampo, come il calciatore che fu a Kamsipaşa, senza avere il fiato per correre dietro a un avversario con vent’anni meno. Eppure lo stesso politico dell’ipotetico futuro, uomo col vento in poppa e forza da vendere anche nell’ambiente imprenditoriale da cui proviene, ha un contorno banalmente normale non privo di ambiguità.

Scandagliandone le radici viene fuori l’uomo probo e tradizionalista. Buon musulmano praticante, marito e padre, con la moglie Dilek che dal palco saluta coi capelli al vento, un’impronta modernista rispetto alla velata Emine, consorte del presidente. Però interrogato sull’autoritarismo esistente nel Paese İmamoğlu parla solo di stampa repressa e diritti generici. Civili? Sì. E di genere? Mah... Per non trovarsi in imbarazzo lascia correre. Gli attivisti antagonisti e i cronisti a tutto tondo che l’hanno incalzato sul tema della persecuzione omofoba contro la comunità LGBTQ diffusa nel Paese, ne hanno conosciuto pallore e silenzi. È accaduto nel quinquennio ormai archiviato da primo cittadino. Magari cambierà. Però in quest’aspetto la somiglianza con l’uomo di potere Recep è palese e imbarazzante. La tendenza a lasciar cadere tematiche sgradite, una diplomazia di comodo non sono atteggiamenti che fanno ben sperare la gioventù più radicale che vuole fuggire da Erdoğan senza tornare a vivere nel kemalismo benpensante dei loro padri, una società tutta affari e spesso corruzione. Era il sistema politico contro cui tuonava un giovane Recep, partendo anch’egli dalla municipalità di Istanbul prima di diventare uomo di potere. Il radical love che ha caratterizzato la campagna politica repubblicana del 2019 è inteso dai giovani ribelli di quella metropoli, passati per la rivolta di Gezi Park e la durissima repressione, come possibilità di vivere i desideri personali e collettivi fuori dall’autoritarismo e pure dai moralismi. Un bel pezzo di elettori del Chp non vede di buon occhio questi ragazzi, su di loro la pensano come chi vota Akp. Per la sua corsa presidenziale Kılılçdaroğlu aveva confezionato un manifesto coi volti di cittadini che avevano avuto esistenze calpestate e spezzate da coercizione e violenza. Fra costoro c’era Hande Kader, una transgender, icona dei Gay Pride trovata nel 2016 orribilmente mutilata e carbonizzata. Pura propaganda? Probabilmente sì, visto che i repubblicani predicano bene e razzolano male, tendono a non sostenere le proposte di legge per la libertà sessuale avanzate da forze di sinistra come il Turkish Worker’s Parti e il Dem Parti. Riguardo a orientamenti favorevoli a multiculture e multietnicità si ritrovano spesso ad accogliere i grevi mal di pancia della nazione che vuole espellere i profughi siriani, li ghettizza in determinate aree, s’approfitta della loro manodopera e quando può li bastona. Insomma aria vecchia, altro che progressismo.

Le alleanze, che già condizionano la stabilità dell’attuale esecutivo con l’Akp spostato più a destra del suo naturale conservatorismo nel cinico abbraccio coi nazionalisti del Mhp, saranno le protagoniste del divenire turco. Oltre quelle formazioni molto ideologiche, fra l’altro ininfluenti elettoralmente, come il citato Tip, un rapporto più stretto e proficuo il Chp potrebbe crearlo col partito filo kurdo, oggi Dem, che conserva una presa sull’elettorato del sud-est. Al di là di antichi pregiudizi con cui il kemalismo giudicava i kurdi e di conseguenza li trattava, pregiudizi che hanno lasciato strascichi e scarsa empatia fra i due blocchi, l’avvicinamento presente e futuro può avvenire esclusivamente per archiviare l’esperienza erdoğaniana. Per realizzarlo ci vorranno leader e gruppi dirigenti di buona volontà su entrambi i fronti. Un segnale che rinfocola l’islamismo, ben più duro e puro di quello dell’Akp, queste amministrative l’hanno avuto col buon risultato del Yeniden Refah di Fatih Erbakan, figlio del più noto Necmettin, già primo ministro nella seconda metà degli anni Novanta. Il 6,2% di musulmani conservatori ha riversato il voto su questa lista, allontanandosi dalla casa madre. È con la loro diaspora che l’Akp ha perduto il posto di primo partito. Comunque il banco di prova del nuovo che avanza all’interno, sarà la politica estera. Qui l’immagine di passato e futuro potrebbe apparire in tutta la sua imbarazzante somiglianza per chi dice d’essere altra cosa. Poiché nel mondo vicino e lontano il Chp di İmamoğlu e dell’attuale responsabile Özel non potrà risultare differente da quello che il partito ha sostenuto per anni: niente di diverso da quanto diceva Erdoğan. Perciò: rapporto stretto con la Nato e riferimento per il mondo islamico, con in testa i palestinesi sotto attacco come non mai da parte di Israele. Forse nessuno si lancerebbe in certe mischie da macelleria tipo quella siriana, mutando pelle, posizioni e obiettivi come ha fatto il sultano. Ma è anche a seguito di tali azzardi che l’odierna Turchia ha un peso regionale e mondiale di primo piano, dalla diplomazia concertativa alle basi militari esecutive. Questo ruolo, se non imperiale certamente centrale, inorgoglisce il cittadino turco, lo stesso che s’infuria per l’inflazione e magari la sopporta con l’amor patrio trasformato in Büyük Vatan. Se fra quattro anni la politica turca vivrà un passaggio di testimone, la nazione resterà se stessa.

Fonte

03/04/2024

Turchia - Erdogan fa spallucce davanti alla catastrofe elettorale

In Turchia, il 31 marzo, si sono svolte delle elezioni municipali e provinciali dagli esisti sorprendenti. L’AKP al governo, infatti, ha subito una sconfitta dalle dimensioni inaspettate. Infatti, oltre ad aver mantenuto Istanbul, Ankara ed Adana di larga misura, i repubblicani del CHP sono riusciti a sottrarre agli avversari anche diverse altre città, quali Bursa e Balikesir.

Nel complesso, il principale partito di opposizione ha mantenuto tutte e 14 le municipalità che controllava e ne ha guadagnate altre 12. Anche in termini di percentuali assolute, per quanto possa contare tale dato nelle elezioni locali, ha leggermente sopravanzato gli avversari (37% circa contro 36% circa), con un’affluenza alle urne del 78,5%.

Da segnalare che nelle sua principale roccaforte, ovvero l’Anatolia centrale, l’AKP, oltre ad aver perso qualcosa a beneficio dell’opposizione, ha perso quattro municipi a beneficio di due suoi alleati a livello nazionale.

Ovvero i nazionalisti del MHP e gli islamisti ancora più radicali del rifondato “Partito del Benessere”, che fu di Erdogan quando era sindaco di Istanbul, prima dello scioglimento forzato imposto dall’esercito, e che oggi è guidato dal figlio del suo ex mentore Necmettin Erbakan. La coalizione governativa, dunque, si presentava spaccata.

Si tratta, quindi, di una svolta netta rispetto alle elezioni presidenziali di meno di un anno fa, che premiarono ancora una volta nettamente Erdogan. La nuova situazione delineatasi già “apparecchia la tavola” per le prossime presidenziali del 2028.

Il riconfermato sindaco di Istanbul, Imamoglu, infatti, rafforza la sua candidatura in pectore per il CHP. Il costruttore di Trebisonda, in realtà, avrebbe già voluto correre l’anno scorso; tuttavia, è stato ostacolato da una serie di inchieste giudiziarie e balzelli burocratici.

Dall’altra parte, Erdogan, che allo stato attuale non potrà più ricandidarsi, potrebbe vedersi complicata la strada per estendere il limite di mandati, nel caso in cui avesse pensato di effettuare un passo simile; cosa che, per altro, non ha mai lasciato intendere fino ad ora, pur non essendo ancora alle viste un suo possibile erede.

Alla notizia dei risultati elettorali, il presidente della Repubblica ha pienamente ammesso la sconfitta: “Abbiamo perso e non ce lo aspettavamo – ha affermato – ma le elezioni sono il momento in cui il popolo indica la strada che vuole intraprendere. Sta a noi imparare dagli errori”.

Molti commentatori occidentali già parlano di “inizio della fine” del regno del sultano o attribuiscono un valore alto a queste elezioni locali, alla stessa maniera delle elezioni di 5 anni fa, in cui perse Istanbul per la prima volta.

Ovviamente c’è da andarci piano, perché quando si ragiona di questioni di valore non locale, ma strategico e nazionale, l’elettorato turco ha dimostrato di comportarsi diversamente e di partecipare in maniera ancora più massiccia alle elezioni: al 78,5% di affluenza del 31 marzo, fanno da contraltare l’87% e l’84% rispettivamente del primo e del secondo turno delle presidenziali del 2023.

Alla base dell’erosione del consenso nei confronti del blocco di potere attualmente egemone ci sono motivi economici legati all’inflazione, stabilmente superiore al 60%, che mettono in ombra le questioni strategiche relative alla collocazione geopolitica indipendente dagli alleati occidentali e con forte proiezione neo-ottomana, proposta dall’AKP, che negli anni scorsi è sempre stata preferita dall’elettorato, rispetto alla scialba retorica filo-NATO proposta dall’opposizione.

Veniamo, ora alla terza forza elettorale, il Partito dell’Eguaglianza e della Democrazia, ennesima denominazione con cui è stato costretto a presentarsi l’ex-HDP, partito della sinistra filo-curda, che si affacciava a queste elezioni dopo un periodo travagliato, a seguito della scelta insolita e infruttuosa di appoggiare, lo scorso anno, il candidato del CHP, partito sulla carta ancora più ostile alle minoranze dell’AKP al governo.

Dopo le presidenziali, vi è stato un cambio al vertice e una fase di autocritica, avviata dal leader in prigione Selahattin Demirtaş; quest’ultimo, dopo aver attribuito, tramite una lettera spedita dal carcere, la sconfitta non solo alla repressione, ma anche a fattori interni, aveva dichiarato di ritirarsi dalla politica attiva.

Durante l’avvicinamento a queste elezioni, il partito ha deciso di tornare alla via dell’alterità rispetto ai due principali partiti; tuttavia, ha anche deciso di non presentare candidature ovunque e ad Istanbul ha rinunciato a presentare la candidatura forte di Basak Demirtas, moglie di Selahattin, dopo averla presa in considerazione, probabilmente per non mettere in discussione la vittoria di Imamoglu.

Nonostante le tante tribolazioni, il risultato è di grande rilievo. Sono stati ripresi tutti i municipi nell’area a maggioranza curda che erano stati sciolti d’imperio dal governo centrale dopo le ondate repressive degli scorsi anni, tranne uno, andato al MHP.

Inoltre, ne sono stati tolti due all’AKP e uno al Partito Comunista di Turchia. Il tutto nel solito clima di tensione e di scontri che sempre accompagna le operazioni elettorali nelle aree a maggioranza curda, durante i quali un militante della formazione di sinistra è morto in una sparatoria nei pressi di un seggio.

Il futuro di questa forza politica resta comunque incerto, sia per fattori repressivi, sia per quel che riguarda la sua collocazione strategica nel quadro politico turco.

La questione curda, al momento, sembra chiusa dal punto di vista dello Stato turco, orientato esclusivamente alla repressione, ma le evoluzioni politiche legate al probabile approssimarsi della fine della presidenza Erdogan potrebbero riaprire degli spazi politici nei prossimi anni.

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02/04/2024

Turchia, la sorpresa diventa realtà

"Ha vinto la democrazia” dice il sultano in persona, parlando da presidente e non da leader dell’Akp per attenuare il ridimensionamento che la sua creatura politica subisce con queste amministrative. L’ipotesi di riprendersi quello che vent’anni addietro era suo e aveva resistito sino allo scossone delle municipali del 2019 è nuovamente naufragato. Istanbul, Ankara, Izmir restano saldamente in mano ai sindaci del maggiore partito d’opposizione Chp, che vince in 35 città su 81, mentre il partito di governo si prende 13 grandi centri e 12 minori. E il computo dei voti, ancora parziale e da confermare, vede lo stesso Partito Repubblicano sopravanzare quello della Giustizia e Sviluppo di due punti percentuali: 37,74 contro il 35,49%. Il successo e il sorpasso avvengono nelle aree dove l’Akp aveva un radicamento consolidato: Bursa, Balıkesir, Denizli, Uşak, Kütahya, Kırıkkale, Afyonkarahisar. La conferma maggiore, con cittadini in strada a festeggiare sin dalla notte, si verifica nelle città simbolo del Paese, Istanbul e Ankara, dove İmamoğlu e Yavaş hanno surclassato i rivali. Se nella capitale il bis di Yavaş era dato per scontato, nella metropoli sul Bosforo lo scarto fra i candidati veniva considerato minimo. Eppure il sindaco uscente ha volato sul ministro che Erdoğan gli aveva opposto (Kurum) e con questo risultato la presunta stella della politica turca riceve una collocazione definitiva sulla scena nazionale. İmamoğlu riprenderà ad amministrare la città simbolo, ma l’attende lo scenario cui punta il suo storico partito: riprendersi la guida del Paese. Se avverrà nel 2028, secondo il normale calendario elettorale o per una crisi governativa sospinta da inflazione e crisi economica che attanagliano la nazione, lo vedremo. Certo è che l’elettorato turco urbano parla una nuova lingua, se lo faranno anche i cittadini dell’Anatolia rurale il sogno d’eternità tracciato dal premier-presidente potrebbe tramontare. Anche perché i suoi uomini, coloro che sceglie di rappresentarlo, non scaldano i cuori turchi, sono fedeli alla linea e alla patria ma non hanno carisma.

İmamoğlu sì. I politologi lo valutavano positivamente anche nell’exploit di cinque anni or sono, se non avesse trovato ostacoli nella condanna inflittagli dalla magistratura e dalla corrente del partito che sosteneva l’anziano Kılıçdaroğlu , il testa a testa per la presidenza del maggio scorso con Erdoğan sarebbe stato il suo. Tutto è rimandato. I pericoli che il sindaco del Corno d’Oro corre sono solo interni al suo partito. Sembra un paradosso, ma la politica insegna questo. Il nuovo corso del leader Özel dovrà valorizzare il volto più prezioso che il kemalismo mostra per riprendersi il Paese. Comunque la Turchia si conquista guardando fuori dai confini. Il sultano che ha pensato in grande sin da quando guidava anche lui Istanbul ha trovato consenso mescolando il liberismo patriottico degli anni Ottanta del secolo scorso del conservatore Özal con l’identità cultural-religiosa e il ricordo del glorioso passato ottomano. Un mix sostenuto da alcuni ideologi del partito che la sua abilità e spregiudicatezza hanno cementato contro nemici esterni e interni. Le pianificazioni nazionali si consolidano con lo sguardo estero e la Turchia ha trovato in Erdoğan una figura dispotica, ma intuitiva e flessibile. Per gli sviluppi futuri peseranno anche le alleanze. Per sopravvivere negli ultimi anni l’Akp ha scelto l’inquietante presenza al suo fianco del nazionalismo dei ‘Lupi grigi’ rivestiti del perbenismo del leader Bahçeli. Ma anche questo personaggio sta facendo il suo tempo. Nella attuali amministrative l’Mhp non ha raggiunto neppure il 5% dei consensi, sopravanzato dal partito Refah (6,1%) e da Dem, la nuova sigla del partito filo kurdo che resiste ai continui scioglimenti imposti per legge. Il successo in tre città storiche dell’est: Diyarbakır, Mardin, Van ripropone la sua guida di quei centri, che talvolta per cavilli burocratici o imposizioni repressive sono stati sostituiti d’ufficio. Il Chp prosegue ad amministrare le città costiere del sud: Antalya, Adana, Mersin. Il rinnovamento della politica turca può partire da qui.

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06/02/2023

Ecuador - Il governo neoliberista pesantemente sconfitto alle urne

Il 5 febbraio è stata una giornata corposa e ricca per la politica ecuadoregna. Si son svolte le elezioni comunali, regionali, quelle per il rinnovo dei membri del Consiglio di Partecipazione Cittadina e Controllo Sociale e 8 quesiti per il Referendum Costituzionale. Si è cominciato con lo spoglio dei candidati a sindaco e governatore che vedono i seguenti risultati al 60% dello scrutinio. Le tre regioni più popolate e grandi del paese andrebbero ai candidati della lista 5 del partito della Revolución Ciudadana dell’ex presidente Rafael Correa. Nella regione del Pichincha il binomio Pabón e Tonello si conferma per governare 4 anni ancora. Paola Pabón vince con il 28% contro il 25,6% del candidato di Pachakutik. Fuori gioco Del Pozo, promosso dal Governo, che si attesta al 15,6%. Un’altra battuta d’arresto pesante per il governo avviene nella capitale dove il candidato governativo, Pedro Freile, viene battuto da Pabel Muñoz della RC con un 25% a 22%. Qui, l’altro candidato in corsa, Yunda (già sindaco di Quito) fermo al 23% si è già congratulato con il vincitore ammettendo la sconfitta e augurando allo stesso che il suo lavoro priorizzi il bene della città. Nella regione costegna di Manabi, territorio con un forte radicamento della RC, vince con il 43% il candidato Orlando senza molti ostacoli. La grande e forse inaspettata sorpresa viene dalla Regione del Guayas e dal suo capoluogo Guayaquil dove la destra conservatrice costegna, rappresentata dal Partito social cristiano, perde Regione e capoluogo a favore dei candidati della RC. Questa è senza dubbio la notizia più forte della giornata. La roccaforte storica del PSC viene espugnata dalla sinistra dopo tre decenni di governo. Cynthia Viteri, sindaca in carica del PSC non va oltre il 31% e viene sonoramente sconfitta dal candidato Álvarez con un 39,3%. Infine, un’altra grande regione come quella dell’Azuay vede la vittoria delle opposizioni con il candidato Lloret. Fin qui i risultati delle principali città e regioni. Ma il trend sembra confermarsi nella maggior parte del territorio nazionale ed anche nelle città minori come nel caso di Santo Domingo ed Esmeraldas (città della zona costiera) dove si affermano i due candidati della Revoluciòn Ciudadana rispettivamente con i seguenti dati: Erazo con il 61% e Villacís con il 30%. In Ecuador i sindaci e i governatori vengono eletti al primo turno senza ballottaggio.

Insieme alle elezioni comunali e regionali si sono votati ben 8 quesiti referendari costituzionali su temi molto rilevanti come: giustizia, sicurezza, partiti e movimenti politici ed ambiente. Il presidente sul Referendum si è giocato tutto ed al momento è nuovamente sconfitto. Al 10% degli scrutini, il NO è in vantaggio in tutti i quesiti con ampi margini. Le due domande che avevano una forte disputa politica tra i gruppi politici del paese, e cioè la 5 e la 6 vedono i margini più ampi con un 6 a 4 a favore dell’opposizione. Eppure i sondaggi fino a qualche giorno fa davano in testa il SI senza mezzi termini e con distanze enormi. Nell’immaginario collettivo si aveva la percezione che il Referendum avesse già un verdetto ancora prima di realizzarsi. Una su tutte, la domanda sulla riduzione dei parlamentari dagli attuali 137 a 100. Al momento è stata bocciata con un 56% a 44%. Qui, la storiella che per migliorare la qualità del Parlamento bisogna buttare fuori dallo stesso un po' di deputati e senatori non è passata anche perché sarebbero scomparse dalla rappresentanza territoriale le regioni più piccole e più povere del paese. La vittoria del NO ci dice una cosa molto netta: il popolo dell’Ecuador ha bocciato su tutta la linea le politiche economiche neoliberiste del governo Lasso e la sua incapacità a gestire e risolvere gli enormi problemi che colpiscono il paese dopo 6 anni di Neoliberismo.

A queste elezioni Lasso è giunto già con una grande deficit di ossigeno. Secondo i sondaggi del CELAG di dicembre, Lasso figurava all’ultimo posto tra i presidenti dell’America Latina con il 17% di consenso popolare. Secondo altri sondaggi emanati ultimamente, non si registrava nessun cambio sostanziale. Poi, come se non bastasse un mese fa, grazie a uno scoop del giornale La Posta, è uscito fuori un sistema di corruzione in cui figurerebbe il cognato dell’attuale presidente come il capo del sistema corruttivo. Il caso è conosciuto nel paese sotto il nome de: Il Padrino. Il Parlamento e la Magistratura hanno già attivate delle investigazioni sul caso. Tutto questo ha generato indignazione e contrarietà nella popolazione del paese che non è più disposta ad accettare la delinquenza dilagante e l’assenza di un piano di governo che risponda ai problemi strutturali del paese. Il sistema sanitario è praticamente al collasso, 7 crisi delle carceri hanno già generato 400 morti, insicurezza, lavoro sempre più precario e sottopagato e distruzione costante dell’ambiente. Lasso ha vinto le elezioni nello scorso 2021 con un programma politico basato sulla promessa (che ritorna) del milione di posti lavori, sull’incremento della produttività, sull’attivazione dell’economia e sui maggiori investimenti stranieri nel paese. A due anni di governo l’unica cosa che sembra aumentare giorno dopo giorno e la delinquenza spiccia ed organizzata che rende il paese più insicuro agli occhi di tutti. Il 2022 l’Ecuador ha chiuso con tassi di delinquenza tra i più alti della regione avvicinandosi a Messico e Colombia, storicamente insicuri e instabili. Quando c’è insicurezza e la delinquenza dilagante non si può progettare il futuro, al massimo si cerca di sopravvivere nel presente. E chi viene a investire in un paese dove parte del territorio nazionale è in mano a bande armate e a gruppi delinquenziali sempre più organizzati? Noi in Italia con le mafie territoriali presenti ormai su tutta la penisola, ne sappiamo qualcosa.

Lo slogan di Lasso “più Ecuador nel mondo e più mondo nel mondo” al momento si traduce con una nuova ondata di emigrazione ecuadoregna verso gli Stati Uniti e l’Europa (più Ecuador nel mondo) e l’omologazione della Colombia degli anni ’80 in Ecuador in termini di criminalità (più mondo in Ecuador). In questi giorni si attenderà la risposta del governo di fronte alla sonora sconfitta. Si prevede forse un rimpasto di governo per mettere in pratica il famoso motto del “cambiare per non cambiare” come scriveva Giuseppe Tommasi di Lampedusa nel famoso Gattopardo. O forse si riprenderà con il racconto che non ammalia più nessuno del “la colpa è di Correa”. O forse si andrà avanti cosi due anni ancora continuando l’agonia di un paese in balia delle onde.

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20/10/2021

La rappresentanza politica e il gioco dell’oca

Le elezioni svolte in questi giorni essendo “locali” potrebbero non essere significative sul piano nazionale, ma il fatto che si siano svolte nelle più importanti aree metropolitane del paese e che abbiano riscontrato una sostanziale omogeneità dei risultati sia nei grandi che nei piccoli centri, fornisce indizi politici interessanti e realistici.

Non è la prima volta che accade di trovarsi di fronte ad un tracollo della partecipazione elettorale dove la disaffezione politica arriva ad “acuti” che si ripetono periodicamente. È sufficiente osservare il periodo precedente, quello che va dalle elezioni del 2008, dove vinse Berlusconi, a quelle del 2013, le qualiche produssero una profonda modifica del quadro istituzionale con l’affermazione del M5S, inattesa per la sua dimensione.

Quello che portò ad una vera e propria rottura del quadro precedente, fu l’incapacità/impossibilità del governo dell’epoca di sostenere gli effetti della dilagante crisi finanziaria sotto la pressione della UE a sostegno dell’austerity, una politica che pochi anni dopo avrebbe fatto deflagrare anche la Grecia di Tsipras.

Tale situazione si protrasse fino alla defenestrazione di Berlusconi nel 2011 con l’intervento diretto della BCE con la lettera di Trichet-Draghi che imponeva tagli e sacrifici sociali, aprendo un periodo di confusione politica e istituzionale che si risolse solo con il varo del governo Monti-Napolitano fedeli attuatori dei diktat Europei.

Un primo segnale di “disaffezione” si era già manifestato con la scadenza elettorale del 2010 tenutasi nei 2/3 delle regioni italiane, quando l’astensione raggiunse il 40%, ben oltre la media usuale, ma decisivo fu il quadro indecente che emergeva da tutte le forze presenti in parlamento e dalle politiche antipopolari di Monti, a cominciare dalla famigerata riforma Fornero sulle pensioni.

In quel frangente storico esplose la crisi della rappresentanza, latente fino a quel momento e che aveva già portato all’esclusione del PRC dal parlamento, una crisi che fece avere al M5S il 25% dei voti. Tale situazione si è protratta fino al 2018, periodo in cui si sono affermate le forze cosiddette “populiste e sovraniste”, certamente inconsistenti sul piano programmatico ma che hanno raccolto l’adesione della maggior parte degli elettori e del montante malessere sociale.

Il M5S prima e la Lega poi, hanno cavalcato per quasi un decennio questo spazio vuoto della rappresentanza senza nessuna capacità progettuale, uno spazio vuoto che oggi si ripresenta senza ambiguità con un livello di astensionismo che arriva al 60%.

Irrilevante e ridicolo è il balletto che oggi viene fatto sulle TV e sulla comunicazione mainstream tra vinti e vincitori, in quanto la realtà sancisce senza infingimenti che interi pezzi della società sono e si sentono fuori e senza rappresentanza dopo l’imbroglio dei movimenti cosiddetti “antisistema”.

Certamente va fatta una analisi dei caratteri di questo tipo di astensione, non omogenea al suo interno, ma certo è che, come nel gioco dell’Oca, siamo tornati al punto di partenza di un decennio fa.

Ovviamente le condizioni complessive della società, anche a causa della pandemia, sono ben peggiori di quelle di un decennio fa, ed è pure ridotta la capacità del paese di poter decidere i propri destini come il governo Draghi, lo stesso che non casualmente ha “tagliato la testa” a Berlusconi, sta a dimostrare.

Il governo Draghi ci fa vedere nitidamente come il “superstato” europeo sia ormai in grado di dirigere in modo centralizzato un progetto continentale peraltro favorito anche dall’insorgere della pandemia. Non a caso Prodi ha sempre sostenuto che l’Unione Europea si costruisce proprio tramite le crisi e già si presenta la prossima “opportunità” nel confronto con la Polonia che vuol mantenere le sue prerogative sovraniste.

L’uscita dalla pandemia, l’operazione sul Recovery Fund, l’affermazione della UE come soggetto immerso nella “ipercompetizione”, come ci ha ben ricordato la Von Der Leyen, sono tutti elementi che non possono che peggiorare la situazione sociale e di classe. Su questo non ci dilunghiamo nell’analisi, ma i processi di ristrutturazione ed i licenziamenti che dilagano stanno li a mostrarci quali sono le prospettive per il mondo del lavoro e la società nel suo complesso.

Possiamo dire che si sta aggiungendo un altro tassello alla crisi di egemonia che procede da tempo, in quanto pur avendo i centri di potere sussunto le forze cosiddette “antisistema” – depotenziandole e trasformandole da “antieuropeiste” ad “europeiste” – riesplode la questione della crisi della rappresentanza politica dei settori di classe e sociali penalizzati, e questo può rappresentare un importante punto di ripresa di iniziativa ed organizzazione.

Certamente non ci sarà un effetto automatico e molto sarà determinato dalla soggettività organizzata che sarà messa in campo, ma si stanno ricreando le condizioni per dare un ruolo a quelle forze che hanno un carattere di classe e che hanno avuto la strada sbarrata sulla rappresentanza proprio dai cosiddetti populisti che il “sistema” ha saputo magistralmente manipolare.

Il riuscito sciopero generale dell’11 ottobre, i parziali ma pure importanti risultati elettorali avuti da Potere al Popolo nelle aree metropolitane e non solo, il crescere della conflittualità in molte fabbriche colpite dalla crisi, sono tutti segnali che vanno nella giusta direzione e che sono da rafforzare e consolidare.

Per questo la necessità di una totale indipendenza politica dal quadro istituzionale, la costruzione di un radicamento di classe organizzato, la lotta contro l’Unione Europea dentro un orizzonte di rottura socialista, sono tutte questioni che possono ritrovare forza in questo passaggio storico di crisi del capitalismo a condizione di una ritrovata e rinnovata soggettività di classe ed organizzata.

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19/10/2021

Ma quale vittoria di sinistra

Lo schieramento ed i candidati del PD hanno sbaragliato gli avversari di destra ed era nell’aria. Persino a Trieste il centrosinistra è stato sul punto di vincere.

La destra a trazione Salvini e Meloni perde ogni elezione importante, anche se i sondaggi la danno tutt’ora in maggioranza. Possono lamentarsi di essere stati colpiti da una campagna di “calunnie antifasciste”, ma considerando il loro stile e quello dei loro social, beh fanno solo ridere.

Semplicemente sono impresentabili e non hanno una proposta politica che non sia inseguire pulsioni reazionarie, ieri contro i migranti, oggi contro il reddito di cittadinanza.

Così possono trovare il consenso di Renzi, ma non quello del popolo delle periferie, colpito dalla pandemia e dalle sue conseguenze sociali.

Oggi la maggioranza si astiene e dentro la minoranza che partecipa alle elezioni il PD, con il suo venti per cento, riesce a vincere quasi tutto. Il voto in Italia somiglia sempre di più a quello degli azionisti nelle grandi società quotate in borsa. La grande maggioranza dei piccoli azionisti non partecipa alle assemblee e così la minoranza più forte, con opportune alleanze, riesce a controllare la società. Così il PD riesce a costruire il suo sindacato di controllo.

La sfiducia e la disaffezione al voto della maggioranza dei cittadini, l’alternativa rappresentata da una destra reazionaria e fascistoide, hanno creato le condizioni perché il PD si installi al centro del sistema politico.

Naturalmente in questo centro c’è un potere superiore a quello del partito di Letta, quello al quale il segretario del PD riferisce e dedica ogni successo elettorale: quello di Mario Draghi.

La politica economica e sociale del governo Draghi è una classica politica padronale, lo sanno bene i lavoratori licenziati, sfruttati e impoveriti, per cui il governo non fa assolutamente nulla, così come lo sanno la Confindustria ed i ricchi, per cui il governo fa tutto.

Il governo Draghi è un governo di destra liberale e il PD ne è l’architrave perché è tutto fuorché un partito “di sinistra”. Ma può sembrarlo di fronte alla destra più ottusa e reazionaria, con una parte della quale peraltro governa tranquillamente.

Cinque anni fa la vittoria di Appendino e Raggi, a Torino e Roma, e quella di De Magistris a Napoli sembravano scalfire il quadro politico fondato sull’alternanza tra le due destre.

Ma il trasformismo fallimentare dei Cinquestelle e la crisi dell’esperienza di sinistra alternativa a Napoli, hanno portato alla restaurazione del vecchio sistema politico.

Lo strumento arbitrario e pasticciato del green pass, vera arma di distrazione di massa, ha poi contribuito a offuscare la questione sociale. Sono cancellati i danni alla salute e alla vita delle persone da parte di un sistema, di cui la pandemia e la sua concreta gestione hanno accentuato tutte le ingiustizie.

Contro queste ingiustizie crescono lotte e mobilitazioni, lo sciopero dell’11 ottobre ne è stato un segno. Ma manca una forte alternativa politica di sinistra e la democrazia si riduce sempre più alla competizione tra diverse versioni dello stesso partito, il partito delle imprese, delle privatizzazioni e degli affari. Semplicemente la democrazia si riduce.

Costruire l’alternativa a Draghi e al sistema che lo sostiene è oggi più necessario che mai.

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07/10/2021

Elezioni amministrative, verso un nuovo grande centro?

Il primo turno delle amministrative di ottobre 2021 ci fornisce dei risultati significativi sia se guardiamo all’amministrazione delle grandi città sia se guardiamo alla quadro nazionale.

Dividiamo i due aspetti giusto per capire una serie di passaggi.

A livello di voto amministrativo si trattava di un primo turno di elezioni nelle città metropolitane più importanti (Roma, Milano, Torino, Napoli) alla vigilia di passaggi seri per quel tipo di amministrazione. Da una parte si tratta infatti di razionalizzare i bilanci, in un tipo di amministrazione locale che ha subito forti tagli negli ultimi dieci anni, dall’altra si tratta di preparare le condizioni per ricevere i fondi del Recovery (che ha comuni e città metropolitane come “piattaforma” privilegiata per questo genere di progetti pena commissariamento dei fondi). La presenza di personaggi come Gualtieri, ex ministro dell’economia, e Manfredi, ex ministro ed ex rettore della Federico II, e la conferma a candidato di Sala (già commissario Expo) andavano proprio nella dimensione di questo genere di problemi da risolvere. Ogni concezione del territorio, ogni conflitto tra interessi da risolvere, ogni impresa o cordata da accontentare per il centrosinistra deve passare dalla cruna di quel tipo di ago fatto di bilanci da consolidare e di preparazione alla ricezione dei fondi del PNRR. Va detto che la fortissima astensione, con punte record proprio in città metropolitane come Milano, questa volta ha favorito i cartelli elettorali fatti di cordate di tecnici assieme a qualche storico procacciatore di voti. Il centrodestra, in questo genere di partita (platea di pochi elettori e cordate di tecnici da proporre) non è riuscito a entrarci e sarà il risultato del secondo turno romano a dare a Meloni & C. la dimensione definitiva di questa tornata elettorale. Per il resto, come già accaduto, il M5S ha perso dove ha governato e, novità da non sottovalutare, ha vinto dove si è accorpato con il centrosinistra. Male le forze di sinistra in qualsiasi veste si siano presentate. Vedremo poi cosa cambierà nel governo delle metropoli nei prossimi anni e non saranno, comunque, questioni da poco.

A livello di equilibri politici nazionali è evidente che la maggioranza pro Draghi (qualsiasi forma assuma il futuro del presidente del consiglio) segna dei punti a favore. Sono rimaste sconfitte le forze, a diverso titolo, più ostiche a questo genere di assetto. Da una parte il progetto Conte deve ancora trovare tela da tessere, dall’altra Salvini risulta essere il vero sconfitto nella Lega, dall’altra ancora le vittorie di Napoli e di Bologna sono le più organiche a un assetto draghiano. Ma cosa è un assetto draghiano? Una grande governance privata con le forze politiche di contorno. Il grande centro verso quale l’Italia sta andando è questo. Sempre se nel 2023, per usare una frase di Raymond Aron, Cleopatra, cioè l’incidente nella storia, non ci mette il naso. Già perché le regionali dello scorso anno sembravano confermare un governo Conte e poi, come sappiamo, è accaduto qualcosa. Ma se le cose rimangono così il grande centro è pronto a estendersi su tutti i punti cardine della rappresentanza politica.

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22/06/2021

Francia - Smacco per Macron alle amministrative

Lo schiaffo rimediato da un attivista di estrema destra da Emmanuel Macron in campagna elettorale è sembrato essere poca cosa rispetto alla batosta incassata dal suo partito LREM (“La République En Marche”) nel primo turno delle elezioni amministrative francesi. I risultati sono stati condizionati in parte da livelli stratosferici di astensionismo, che la dicono lunga sulla predisposizione degli elettori nei confronti della politica d’oltralpe, ma la pessima performance dell’inquilino dell’Eliseo, assieme a quella non molto più esaltante dei neo-fascisti di Marine Le Pen, potrebbe aprire scenari inaspettati nelle presidenziali del prossimo anno.

Paradossalmente, le due forze che negli anni più recenti hanno approfittato della decomposizione di un sistema sostanzialmente bipolare – il Raggruppamento Nazionale (ex Fronte Nazionale) e, appunto, LREM – sono state penalizzate da uno spostamento dei consensi a favore di quelle tradizionali, il Partito Socialista (PS) e i gollisti di LR (“Les Républicains”). Questi ultimi sembrano essersi in qualche modo avvantaggiati dalla lontananza forzata dal potere, per lo meno a livello nazionale, in una fase storica straripante di conflitti sociali e segnata da una gravissima crisi economica e sanitaria.

Questi fattori hanno prevedibilmente pesato sulla popolarità di Macron, mentre il suo partito ha confermato la sostanziale mancanza di radici sul territorio e di essere un esperimento creato a tavolino da determinate sezioni dei poteri forti francesi. In generale, l’astensionismo, che ha sfiorato addirittura il 70%, ha penalizzato proprio i partiti lontani dal centro o teoricamente non identificabili con l’establishment, come conferma un’indagine che ha evidenziato i livelli maggiori di apatia tra gli elettori dell’estrema destra di Marine Le Pen e della sinistra di “France Insoumise”. Significativa è anche la percentuali di astenuti per fasce di età, all’87% tra i 18 e i 24 anni e all’83% tra i 25 e i 34.

Su base nazionale, il voto locale di domenica ha visto così il centro-destra gollista risalire al 29%. I socialisti, la sinistra di Jean-Luc Mélenchon e i Verdi (EELV), che potrebbero in teoria presentare un candidato unico alle presidenziali, hanno complessivamente raggiunto circa il 34%. Il RN della Le Pen ha perso più di 7 punti percentuali rispetto alle amministrative del 2015, attestandosi poco sopra il 19%. Molto peggio ha fatto LREM di Macron, appena oltre l’11% e, in varie competizioni locali, i suoi candidati non hanno nemmeno raggiunto la soglia del 10% necessaria ad assicurarsi l’accesso al ballottaggio di domenica prossima.

I dati del primo turno vanno in ogni caso presi con le molle in previsione delle presidenziali dell’aprile 2022, anche se alcune indicazioni relativamente all’astensionismo e alla relativa ripresa di gollisti e socialisti potrebbero avere qualche riflesso nazionale. Per quanto riguarda l’ex Fronte Nazionale, non sembra avere pagato il tentativo di dare al partito una facciata più moderata. Anzi, la base più “dura” dell’elettorato di riferimento dell’estrema destra ha fatto segnare un alto tasso di diserzione e, al contrario, il bacino dei moderati ha preferito i gollisti.

Molto dipenderà tuttavia dall’esito dei ballottaggi e se il RN sarà in grado di conquistare almeno una regione, dando così un impulso alla futura campagna di Marine Le Pen. L’attenzione di tutta la Francia sarà in particolare sulla regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra (PACA), dove a sfidarsi saranno il presidente uscente Renaud Muselier di LR e Thierry Mariani per l’ex Fronte Nazionale. Mariani ha chiuso il primo turno con il più alto numero di consensi (36%), ma ben al di sotto di quanto indicavano i sondaggi. Muselier, che aveva scelto rischiosamente di coalizzarsi con il partito di Macron, si è fermato al 32%.

La competizione resta aperta, anche se il ritiro del candidato dei Verdi, Jean-Laurent Félizia, potrebbe favorire Muselier. Félizia, terzo in Provenza con il 17%, aveva inizialmente annunciato l’intenzione di partecipare al ballottaggio, ma ha alla fine ceduto a pressioni e minacce per farsi da parte, in modo da riproporre il cosiddetto “fronte repubblicano” tra le forze “democratiche” francesi in funzione di argine contro l’estrema destra.

Questa strategia è in sostanza quella del “male minore” per evitare che il governo regionale finisca in mano al partito di Marine Le Pen ed è già stata in passato impiegata anche nelle presidenziali. La stessa situazione si è verificata nella regione Alta Francia, dove il partito del presidente farà convergere i propri voti sul candidato gollista, Xavier Bertrand, in netto vantaggio dopo il primo turno, per impedire l’affermazione di Sébastien Chenu del RN. La scelta dei vertici di LREM deve essere stata in questo caso sofferta, poiché Bertrand viene dato come uno dei possibili sfidanti di Macron nella corsa all’Eliseo del prossimo anno.

A sorpresa, poi, i partiti di centro-sinistra si sono ritrovati con l’opportunità di conquistare alcune regioni dove sembravano non avere possibilità. La strada verso l’eventuale successo passa però attraverso accordi per la presentazione di un unico candidato al secondo turno. In alcuni casi ciò è avvenuto, come nell’Ile-de-France, ovvero la regione di Parigi, dove il verde Julien Bayou, giunto domenica al terzo posto, ha incassato l’appoggio delle candidate del PS e dei comunisti. Complessivamente, queste forze hanno superato il 34% al primo turno, insidiando teoricamente la candidata favorita, la presidente uscente Valérie Pécresse di LR (36%). Al ballottaggio andrà anche il candidato del RN, Jordan Bardella (13%).

Altrove le cose sono andate invece diversamente, come in Bretagna. Nella regione nord-occidentale, cinque candidati sono separati da nemmeno sette punti percentuali, ma le trattative per raggiungere un qualche accordo sono naufragate. In testa c’è il presidente uscente, il socialista Loïg Chesnais-Girard, che rischia di vedersi sottrarre voti dalla candidata dei Verdi e da quello appoggiato da Macron. In corsa ci sono anche i gollisti in un ballottaggio affollato nel quale si è conquistata un posto anche l’estrema destra grazie al 14% ottenuto da Gilles Pennelle.

Stesso discorso vale per la regione sud-occidentale della Nuova Aquitania. Al secondo turno andranno in questo caso in cinque candidati dopo che le trattative per una fusione tra Verdi e socialisti sono fallite in fretta. I casi descritti evidenziano dunque come l’unità nel centro-sinistra francese, soprattutto in previsione delle presidenziali, rimanga per ora un cantiere aperto.

Dopo i risultati del ballottaggio del 27 giugno ci saranno ad ogni modo maggiori indicazioni utili in chiave nazionale. Ciò che risulta chiaro fin da ora è il terreno precario su cui poggiano le ambizioni di rielezione del presidente in carica. Allo stato attuale delle cose, Macron rischia seriamente di non qualificarsi nemmeno per il secondo turno, così che, se i suoi numeri non dovessero migliorare in maniera significative nei prossimi mesi, non è da escludere che possa anche diventare il secondo presidente francese, dopo François Hollande nel 2017, a prendere la decisione clamorosa di non ricandidarsi per un secondo mandato all’Eliseo.

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02/09/2019

Germania - Nei Lander dell’Est cresce Afd. La risposta non è il “modello Gorlitz”

La Sassonia e il Brandeburgo, per dirla educatamente, hanno complicate leggi elettorali. Le loro disposizioni in materia di indennità compensative e di mandato possono distorcere gravemente i risultati delle elezioni.

L’assegnazione dei seggi in entrambe le diete dei due Lander cruciali per la formazione di un governo, sarà presumibilmente solo il risultato finale ufficiale. Dopotutto, l’AfD nella Sassonia orientale prima di domenica sera, a volte era molto più avanti del CDU. Tuttavia, è possibile che due partiti come la CDU e i Verdi, possano formare una coalizione.

Ma a prescindere da ciò, i risultati elettorali di domenica affermano che i due partiti più forti in entrambi gli stati finora hanno potuto mantenere le loro posizioni migliori solo attraverso il voto tattico di molti elettori. Se il CDU in Sassonia e l’SPD nel Brandeburgo sono in vantaggio nonostante le notevoli perdite, allora si presenta un caso esemplare: l’elezione del sindaco a Görlitz.

Il 26 maggio c’era il candidato AfD con oltre il 36 percento nel primo turno. Per il secondo turno, tutte gli altri partiti hanno convenuto sull’elezione del candidato CDU che ha raggiunto il 55 percento il 16 giugno. Il supporto per lui e il suo partito può essere letto solo in modo condizionale.

Inoltre, la CDU sassone è un’associazione nazionale che rappresentava, prima della fondazione della parte AfD, le medesime posizioni su una base di un anticomunismo totalitario ed era responsabile del fatto che il NPD è stato due volte nella legislatura statale.

Le perdite per SPD e Die Linke, nonché la debole performance dei Verdi rispetto ai sondaggi delle ultime settimane, sono relativizzate dal comportamento di voto secondo il modello Görlitz. Tuttavia, il voto tattico non spiega tutto, in particolare non lo schianto del partito Die Linke. In Sassonia, la loro quota di voti è più che dimezzata dal picco del 23,6 per cento nel 2004, sulla base delle proteste contro “L’Agenda 2010” di SPD. I Verdi che ribollivano, nel Brandeburgo sono passati dal 28 percento nello stesso anno al 10,3 percento di oggi, dal momento che il loro profilo politico è stato completamente affinato dalla volontà quasi incondizionata alla partecipazione del governo in Sassonia. Nel Brandeburgo, dopo dieci anni di gabinetto, Die Linke non ha le sue carte da giocare, se non promesse non mantenute.

La situazione sociale nella Germania orientale ha ancora un carattere specifico. Nel frattempo questo malessere è di fatto affrontato solo dalla destra. La sinistra ha una responsabilità significativa nell’ascesa dei demagoghi di destra, specialmente a Est.

Ancora una volta, la borghesia tedesca ha fatto esplodere una fazione radicale come l’AfD e la usa come una punta ideologica e politica contro gli interessi dei lavoratori. È riuscita a fare di tutto, su temi come immigrazione, migrazione e fuga, con il supporto dei media, ma anche di parti dell’elettorato della CDU e della CSU. Ciò distrae dai contrasti sociali e dalle guerre in cui la Repubblica federale partecipa come principale fonte di distrazione di massa. I socialisti governativi del partito Die Linke non sono stati in grado di formulare la propria posizione su questa questione, un marxista lì è fuori discussione. La parola “imperialismo” è tabù.

Tuttavia, va anche notato che non c’è alcun motivo di scegliere AfD. Chiunque lo faccia, comunque è responsabile della sua scelta. Dato che i partiti si sono già messi la pelliccia sulle orecchie con la loro giustificazione neoliberista, potrebbe continuare a votare dentro una nuova e ampia coalizione che va dalla CDU ai Verdi. Chi sceglie l’AfD, sceglie la guerra sociale con una giustificazione nazionalista di destra, specialmente se la CDU è disposto a collaborare con essa.

E chi sceglie AfD, sceglie anche la guerra all’esterno. Ciò è garantito dalla Rete delle forze armate dell’AfD, che ora sta raggiungendo il massimo livello di comando con un generale a tre stelle, che è candidato al sindaco di Hannover. Il documento “Armed Forces Bundeswehr” del “Working Group Defence” del gruppo parlamentare AfD del 27 giugno ne parla ampiamente. Non vi è alcuna differenza nella politica di guerra del governo federale. In entrambi i campi, la guerra interna ed esterna, una sinistra che non avesse trasformato la funzione dei propri eletti nel governo, avrebbe avuto un campo di battaglia. Ma ciò richiede un riallineamento che questa non vuole e probabilmente non può iniziare.

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17/06/2019

Barcellona. La triste deriva di Ada Colau

La “sindaca del cambiamento” di Barcellona, Ada Colau, è stata rieletta con i voti di Barcelona en Comù ma anche dei socialisti e di tre dei sei eletti del partito di destra – liberista e nazionalista spagnolo – Ciudadanos, guidati dall’ex primo ministro francese Manuel Valls.

Colau, arrivata in seconda posizione alle recenti elezioni amministrative dopo gli indipendentisti di centrosinistra di Esquerra Republicana, ha rifiutato la più volte proferita offerta da parte di questi ultimi di formare un governo di coalizione tra ERC e BEC che le concedesse tra l’altro un ruolo preminente nella giunta cittadina.

A favore dell’alleanza anti-indipendentista si erano espressi nelle scorse ore la maggioranza dei pochi iscritti della formazione – reduce da ben due scissioni negli ultimi due anni – che hanno partecipato ad un referendum interno.

I poteri forti e le lobby liberiste gioiscono, visto che esplicitamente avevano prima caldeggiato la candidatura di Valls – punita dall’elettorato – e poi premuto per un governo della città che escludesse le formazioni indipendentiste.

Al di là del fatto che con una siffatta maggioranza – basata per ora sull’astensione dei soccorritori – sarà difficile portare avanti una amministrazione durevole e incisiva, non è malizioso pensare che in cambio del sostegno alla Colau la destra spagnolista otterrà in cambio un ulteriore annacquamento del già timido programma di riforme che la sindaca ha attuato o promesso di attuare negli anni scorsi.

D’altronde all’interno del partito socialista sono stati eletti anche rappresentanti di quella parte dell’arcipelago regionalista di destra e liberista che si è distaccato dal centrodestra catalano quando questo ha aderito alla svolta indipendentista.

Mentre quattro anni fa l’elezione a sindaca di Ada Colau da parte del Consiglio Comunale di Barcellona fu una vera e propria festa popolare, con migliaia di persone che in Placa Sant Jaume acclamavano la nascita della nuova amministrazione, oggi la situazione è completamente capovolta: fuori dall’edificio ci sono alcune centinaia di sostenitori di BEC e dall’altra parte delle transenne circa duemila militanti indipendentisti e attivisti della sinistra e dei movimenti antirepressivi che contestano la scelta della sindaca di farsi eleggere con i voti di quei partiti che hanno sostenuto la repressione contro gli elettori del 1 ottobre, il commissariamento delle istituzioni catalane e il processo contro i leader indipendentisti.

Ada Colau è costretta ad entrare in Consiglio Comunale dalla porta sul retro dell’edificio dell’Ajuntament per evitare contestazioni.

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10/06/2019

Ballottaggi - Pari e patta tra Lega e Pd

Alla fine di questa tornata elettorale nei ballottaggi per i consigli comunali di una quindicina di capoluoghi si può parlare di un pari e patta tra “l’ondata leghista” e il “recupero” del Pd. Tra i risultati da segnalare c’è il fatto che dopo 69 anni il Pd perde il governo di Ferrara dove è stato eletto il sindaco leghista Alan Fabbri, mentre il Pd recupera il sindaco a Livorno perso cinque anni fa nel ballottaggio con il M5S.

La Lega, nella “rossa” Emilia-Romagna si prende anche Forlì, ma il Pd tiene a Reggio Emilia, Cesena, e poi a Cremona, Prato, Rovigo e Verbania, Avellino (prima governato dal M5S). Il centrodestra, oltre a Ferrara e Forlì, ha vinto a Potenza (per un pelo), Ascoli Piceno, Foggia, Vercelli e Biella, queste ultime due prima governate dal centro-sinistra.

Nei comuni più piccoli la Lega e il centro-destra possono cantare vittoria in Umbria dove il Pd ha perso Orvieto e Foligno, ma si è tenuto Gubbio.

Il Movimento 5 Stelle vince a Campobasso, l’unico capoluogo in cui era riuscito ad arrivare ai ballottaggi. L’affluenza alle urne è stata al di sotto delle previsioni col 52,1%, facendo registrare un crollo del 16% rispetto al primo turno delle amministrative.

Qui di seguito una prima disamina di Franco Astengo sui dati elettorali dei ballottaggi di ieri.

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Di seguito qualche prima considerazione sull’esito dei ballottaggi svoltisi il 9 giugno: i dati sono riferiti ai 16 comuni capoluogo di provincia impegnati nei comizi elettorali.

In questi sedici comuni si è verificato il successo dei candidati presentati da coalizioni di centrosinistra in 7 occasioni, altrettante sono state quelle nelle quali è risultato vittorioso un candidato presentato dalla coalizione di centrodestra, un successo per il M5S nell’unico caso in cui questo movimento era pervenuto al ballottaggio, un successo per il candidato di una lista civica.

Grande interesse era rivolto alla partecipazione al voto: come capita in queste occasioni da quando è stato introdotto il meccanismo del ballottaggio si è registrata una diminuzione nell’afflusso di elettrici ed elettori.

La flessione è stata quasi del 14%, però – rispetto ad analoghe situazioni del passato – il totale dei voti validi espressi è rimasto al di sopra del 50% dell’intero corpo elettorale. Hanno espresso, infatti, voto valido nei 16 capoluoghi presi in considerazione 617.409 elettrici ed elettori pari al 51,95% dell’intero corpo elettorale che era composto da 1.188.447 unità.

Dal punto di vista più specificatamente rivolto all’indirizzo politico dell’esito del voto si segnale una tendenziale caduta della coalizione di centro destra.

Nel primo turno, infatti, i candidati pervenuti al ballottaggio come esponenti di coalizioni di centro destra avevano raccolto 295.602 voti, nel secondo turno sono scesi a 285.657 con una flessione di 9.945 suffragi.

In crescita, invece, i candidati esponenti di coalizioni di centro sinistra: da 260.451 voti a 287.228 con una crescita di 26.777 unità.

Nell’unico comune (Campobasso) nel quale il candidato del Movimento 5 stelle era riuscito ad approdare al ballottaggio si è assistito a un raddoppio: da 8.484 voti al primo turno a 16.139 nel secondo, mentre sono anche cresciuti i candidati delle liste civiche (presenti in 2 comuni) saliti da 20.300 voti a 27.755.

Nei 7 comuni nei quali le candidature di centrosinistra hanno prevalso registriamo un aumento di voti per i candidati vincenti a Verbania, Livorno, Cremona, Rovigo e Cesena mentre i Sindaci di Reggio Emilia e Prato sono stati eletti perdendo voti tra il primo e il secondo turno.

I candidati sconfitti presentati dal centro destra hanno fatto registrare un incremento di voti a Prato, Livorno e Cesena mentre sono arretrati a Verbania, Reggio Emilia, Cremona e Rovigo

Dalla parte dei 7 successi fatti registrare dal centro destra, a parte la situazione di Biella nella quale entrambe le candidature appartenevano a quello schieramento l’unica situazione in crescita è stata Ascoli Piceno. In calo le candidature pur alla fine vincenti a Vercelli, Ferrara, Forlì, Foggia e Potenza.

Per i candidati battuti nel centro sinistra aumento a Vercelli, Ferrara, Ascoli Piceno. In diminuzione Foggia.

Già segnalato il raddoppio del M5S a Campobasso, resta da segnalare l’aumento del candidato della Lista Civica a Potenza (pur alla fine sconfitto) e il successo in crescita di una candidatura da Lista Civica ad Avellino.

Tra il 1° e il 2° turno si sono effettuati questi sorpassi: a Verbania a favore del centro sinistra, a Rovigo a favore del centro sinistra, a Campobasso a favore del M5S, ad Avellino a favore della Lista Civica.

Da segnalare, infine, il caso di Potenza: al primo turno, infatti, il candidato del centrodestra Guarente disponeva di un vantaggio sul candidato Tramutoli (Lista civica) di quasi 7.000 voti ridottisi esattamente a 200 (16.248 a 16.048) al ballottaggio.

In sostanza, dalla prima analisi del voto nei 16 comuni capoluogo, si può rilevare un minor crollo nella partecipazione al voto rispetto a quanto poteva essere prevedibile considerata anche la stagione (ricordiamo, in questo senso, passaggi nettamente inferiori al 50%), un’evidente “fatica” nella tenuta tra un turno e l’altro da parte delle coalizioni di centro destra che complessivamente perdono voti in cifra assoluta e un buon impatto, anche se limitato nella capacità di estensione numerica, da parte delle coalizioni di centrosinistra.

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Una foto simbolo da Ferrara. Il primo atto della Lega è coprire lo striscione che campeggia al Comune e che chiede verità per Giulio Reggeni.


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03/06/2019

Mimmo Lucano e le eterne amnesie dei “ripartiamo da...”

Fino a domenica scorsa Mimmo Lucano era una star.

Tutti lo volevano e tutti lo cercavano.

Poi improvvisamente, dopo che si sono saputi i risultati delle amministrative a Riace, tutto è cambiato.

Da lunedì è cominciato un fenomeno di vera e propria rimozione della persona, delle idee e dell’esperienza politica e sociale che Mimmo rappresenta.

Che a farlo siano i media filo Pd tipo Repubblica che da sempre hanno cercato di strumentalizzare il modello Riace non mi stupisce. E non mi stupisce neanche che a farlo sia quella parte di Partito Democratico, Sala e Pisapia in testa, che hanno cercato inutilmente di coptarlo per pescare voti nel movimento antirazzista che si è sviluppato nell’ultimo anno.

Non capisco invece le reazioni di una parte del nostro mondo.

Ci sono quelli che per mesi hanno ripetuto fino allo sfinimento “la sinistra riparta da Mimmo Lucano” poi è bastata una sconfitta elettorale per andare in crisi e mettersi alla ricerca di nuovi leader e nuovi “schemi”.

Costoro restano sorpresi dai risultati della Lega a Riace perché evidentemente non vivono le contraddizioni, non le capiscono e non sanno la “fame” cosa produce nelle classi popolari.
Mimmo poteva candidarsi con il Pd e farsi eleggere. Si sarebbe potuto così difendere molto meglio dai processi oltre a fare una vita ben più comoda e con grosse prospettive di carriera.

Invece ostinato, come solo i calabresi sanno essere, si è candidato nel suo paese senza poter fare campagna elettorale e ben consapevole di quale era la situazione sociale di Riace.

Fosse solo per questo ora bisognerebbe stringersi attorno a lui più forte di prima e non defilarsi facendo finta che non sia mai esistito.

Essere solidali e sostenere Mimmo in questo momento non è solo un dovere dal punto di vista morale ma sopratutto un atto politico fondamentale. Significa continuare a mettere al centro il tema dell’antirazzismo che è imprescindibile per chiunque si ponga in una prospettiva di reale emancipazione degli oppressi.

A sinistra si sta infatti diffondendo una strana vulgata secondo la quale per battere Salvini bisogna abbandonare il terreno dell’antirazzismo perché al momento non riscuote particolare consenso tra le classi popolari. I più arditi per suffragare tale tesi addirittura tentano di utilizzare Marx stravolgendo il senso di quanto scritto dal povero Karl.

Una vera e propria follia che però rischia di attecchire in un un periodo in cui tanti sono confusi e disorientati. Una follia che può far dimenticare come proprio l’antirazzismo sia stato uno dei pochi punti di tenuta negli ultimi anni rispecchiando una sensibilità non maggioritaria ma sicuramente ancora diffusa tra le classi popolari.

Per questi motivi mai come ora occorre effettivamente ripartire da Mimmo Lucano, dalla sua coerenza, dalla sua determinazione, dalla sua sete di giustizia e dalla sua capacità di sognare.

#wMimmo sempre

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31/05/2019

L’area grigia dell’elettorato Lega-PD

La compagna Valentina Rossi, che fa parte dei quattro consiglieri di minoranza di Potere al Popolo nel comune di Santa Sofia (Cesena-Forlì), mi ha fatto conoscere dei dati sul suo comune che invitano a riflettere.

Alle europee la Lega è diventato il primo partito con quasi il 40% e 900 voti, ben dietro è rimasto il PD con 775 voti.

Elezioni europee 2019 – Partiti più votati (1)

Invece alle comunali, dove erano in competizione solo il sindaco uscente del PD e la lista di PaP, il sindaco PD ha ottenuto oltre 1900 voti, il 91% e PaP ha realizzato più dell’8%.

Questo vuol dire che nello stesso giorno gli elettori della Lega e di Forza Italia hanno votato per il proprio partito a livello nazionale e per il PD a livello locale. E l’elettorato Cinquestelle residuo, almeno in parte, ha votato PaP.

Naturalmente parliamo di un piccolo comune, dove tutti si conoscono e dove il sindaco ha sempre un consenso personale. Tuttavia non credo che questo sia un caso unico. Ho l’impressione che in molte amministrazioni comunali il PD abbia potuto raccogliere il voto di chi alle europee ha fatto vincere Salvini. Credo che le ragioni di fondo siano due.

Elezioni europee – Partiti (2)

La prima è che le amministrazioni comunali del PD, oggi, sono caratterizzate da un modo di governare totalmente affine a quello della Lega. Grandi opere, privatizzazioni e appalti, tagli ai servizi, favori alle imprese, uso speculativo e scriteriato del suolo pubblico, deriva securitaria verso migranti e poveri, sono scelte condivise da sindaci Lega e sindaci PD, in tanti comuni. Per cui chi si oppone ad essi si trova spesso di fronte lo stesso blocco di interessi e anche gli stessi discorsi.

In secondo luogo c’è qualcosa di più profondo, che riguarda proprio la spoliticizzazione e la distruzione dei valori della sinistra operata dal PD proprio fra il suo elettorato. Un elettorato a cui si è imposta l’egemonia del liberismo, la sottomissione al mercato e al profitto, la paura di perdere il poco che si ha per colpa di migranti e delinquenti; un elettorato che quindi non fa fatica a passare a Salvini se questi promette ordine e lavoro, così come può tranquillamente votare per il sindaco PD che prometta le stesse cose.

C’è un’area grigia di elettorato che il PD e la Lega hanno oggi sostanzialmente in comune.

Elezioni comunali 2019

Oggi in Italia ci sono due partiti che si appellano al voto utile contro Salvini.

I Cinquestelle, che si presentano come argine alla Lega, quando invece ne hanno alimentato i successi e l’elettorato.

Il PD, che in realtà usufruisce di una fascia di elettorato che può stare sia con Salvini sia con Zingaretti, ove non abbiano candidati contrapposti.

Credo sia un dato su cui riflettere, soprattutto per chi voglia costruire una vera alternativa a Salvini e non sia interessato a copie concorrenziali, che si distinguano dalla Lega il 25 aprile e poi facciano la stessa politica per tutti gli altri giorni dell’anno.

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Potere al Popolo - Che cosa ci consegnano i risultati elettorali?

Quale situazione e quali responsabilità ci consegnano i risultati elettorali?

Potere al Popolo, come noto, non era presente nelle elezioni europee. E’ stato in campo, dove possibile, in alcune elezioni locali con risultati interessanti. Nelle prossime settimane, il coordinamento nazionale del 1 giugno e l’assemblea nazionale del 23 giugno discuteranno la situazione con realismo ma senza i tristissimi riti post elettorali a cui ci avevano abituato e che intendiamo risparmiarci.

Salvini ha riportato a casa una parte dei voti che il blocco di destra aveva cominciato a perdere dal 2008. C’è stato un travaso di consensi interno alla compagine reazionaria e conservatrice della società. A pagarne il prezzo è stato soprattutto il M5S che aveva incamerato una parte di consensi di quel blocco.

Il Pd ha recuperato i disastri ereditati da Renzi ed è soddisfatto di aver portato a casa la pelle il tutto con un gigantesco astensionismo, con il quale sempre più spesso le classi più povere e sfruttate esprimono la loro sfiducia nella rappresentanza politica. Quasi la metà degli elettori e delle elettrici non è andata a votare, il 60% nel Mezzogiorno.

Ma l’assalto annunciato dalla destra all’apparato della governance europea è sostanzialmente fallito. Al contrario il Partito Trasversale del Pil (liberale, socialista, conservatore) si è imposto come egemone in Europa. Nel nuovo Parlamento europeo la maggioranza europeista è ben salda e gli apparati dell’Unione Europea nei prossimi mesi non faranno alcuno sconto ad un paese che ha la Lega come primo partito. Inoltre è evidente come l’elettorato leghista nelle regioni ricche del nord, per caratteristiche sociali e interessi materiali, non gradirà affatto fughe in avanti che possano mettere a ulteriore rischio le incertezze economiche del paese. Già il 5 giugno è attesa la lettera della Commissione europea per la procedura di infrazione all’Italia per debito eccessivo mentre sull’autunno incombe la manovra finanziaria “lacrime e sangue” su cui strutturare la Legge di Stabilità. Questo è un serio problema per Salvini e la Lega ma lo è anche per il M5S uscito tramortito dalle elezioni europee.

Le uniche manovre consentite saranno quelle a “costo zero” (sull’immigrazione come sulla giustizia penale) e quelle di carattere repressivo contro i movimenti e i conflitti che si oppongono alle crescenti e insopportabili disuguaglianze sociali, al patto neocorporativo tra Confindustria e CgilCislUil, al razzismo e ai raid fascisti.

Questo conferma e rafforza la necessità di un'opposizione ai vincoli e ai Trattati UE dal lato della democrazia, dei diritti sociali e del lavoro, opposizione che le istituzioni europee hanno cercato di annullare confinandola in forze reazionarie e fascistoidi definite strumentalmente sovraniste.

E qui veniamo alla situazione della “sinistra”. Il fallimento dell’ultima operazione elettorale, che ha scelto consapevolmente questa modalità e questo marchio di rappresentanza, consegna una sentenza definitiva sulla inutilità e l’esaurimento di questa rendita di posizione.

Potere al Popolo è nato proprio per indicare una necessaria rottura con questa esperienza e una ipotesi alternativa di ricostruzione e ricomposizione di un movimento politico/sociale diverso. Ha scelto la strada della sperimentazione nella realtà sociale e non quella della coazione a ripetere, ha rimesso in campo il terreno della rottura come presupposto del cambiamento, del radicamento piuttosto che dell’elettoralismo come strumento dell’accumulazione delle forze.

In un contesto sociale disgregato, mutevole, incattivito occorre misurarsi con un approccio completamente diverso, con un modello di inchiesta, sperimentazione e verifica continuo sulle proprie ipotesi di lavoro. Occorre fare, come abbiamo scelto consapevolmente di fare, “tutto al contrario”. I fatti ci dicono che è stato un approccio quantomeno lungimirante.

Il 23 giugno ne discuteremo nella nostra Assemblea Nazionale.

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Sui risultati delle elezioni amministrative. PaP dove c’è elegge!

Già le precedenti amministrative 2018 ci confermavano che, dopo il risultato iniziale del 4 marzo 2018, sui territori eravamo in crescita. Negli undici comuni in cui ci eravamo presentati avevamo raddoppiato i voti delle politiche, ottenendo risultati incoraggianti. A questa tornata riusciamo persino ad andare oltre, partecipando in 14 comuni ed eleggendo dei consiglieri!

Una cosa importantissima per noi che ci proponiamo innanzitutto di costruire comunità, radicare sui territori un modo diverso di fare politica, praticare il controllo popolare, usare le istituzioni di prossimità per far partecipare i cittadini e migliorarne la qualità della vita anche nelle piccole cose. Perché, insieme alle Case del Popolo, al mutualismo e alle lotte per il lavoro e l’ambiente, questo è un altro tassello del potere popolare che dobbiamo subito sviluppare!

Aspettiamo ancora gli ultimi risultati, ma eleggiamo un consigliere comunale a San Giorgio Bigarello (Mantova), dove prendiamo il 7,43%; quattro consiglieri a Santa Sofia (Cesena), dove prendiamo l’8,17%, un consigliere a Castelnuovo Berardenga (Siena), dove prendiamo il 7,05%, una consigliera ad Appignano, dove prendiamo il 14,14%.

A Firenze sfioriamo il 2% (3384 preferenze) ed eleggiamo con il 12% un consigliere di quartiere; a Livorno, dove facciamo il 5% (4030 preferenze), forse una consigliera comunale (questo dipenderà dall’esito del ballottaggio).

Insomma, circa 8 consiglieri comunali e uno di municipalità, che si vanno ad aggiungere ad altri che, eletti in questi anni con liste civiche, aderiscono oggi a Potere al Popolo: un primo drappello di “amministratori popolari” che a breve aprirà su questo tema spazi di confronto a livello nazionale.

Inoltre in molti comuni abbiamo appoggiato liste civiche che hanno fatto bei risultati, in totale controtendenza con la sinistra alle europee, eleggendo altri consiglieri “amici”: come a Firenze, dove si è fatto il 7% e dove oltre alla candidata sindaca Antonella Bundu è stato eletto un consigliere di Firenze Città Aperta, a Livorno dove si è totalizzato il 15% e oltre al candidato sindaco Marco Bruciati è stato eletto un consigliere di Buongiorno Livorno, a Ciampino dove è entrato in consiglio il candidato sindaco Dario Rose (coalizione: 6,41%), a San Miniato dove la lista “Cambiamenti” ha eletto con il 17,26%.

Siamo cresciuti anche a Formigine (Sassuolo), dallo 0,93% delle politiche al 2,11, a Bagno a Ripoli (Firenze), dal 2,53% al 3,3%, a Figline e Incisa Val D’arno (Firenze), dall’1,62% al 2,26%, a Ciampino (Roma), dall’1,97% al 4,07%. Più difficile la situazione a Monterotondo (0,87), Tivoli (0,65) ed Aversa (1,1). Ma, al di là del risultato elettorale, la cosa più importante è che dove abbiamo presentato delle liste si sono aggregate persone, molti giovani, e tanti ci hanno conosciuto per la prima volta.

Certo, è un piccolo test, parliamo ancora di pochissimi comuni e di percentuali insufficienti per determinare il cambiamento che vogliamo. Ma non possiamo non essere contenti.

Innanzitutto perché siamo la forza politica più giovane d’Italia, sia per nascita sia per anagrafe, e quindi non abbiamo rapporti consolidati sui territori, molti ancora non ci conoscono etc. Soprattutto perché per assemblee e nodi locali ancora piccoli come i nostri è difficile, senza fondi e senza coperture mediatiche, affrontare due campagne elettorali nel giro di un anno.

In secondo luogo perché, dopo il voto del 4 marzo 2018 e dopo la mancata presentazione alle europee, in tanti ci davano per morti, e invece continuiamo ad aprire Case del Popolo, diamo continuità al simbolo, entriamo nelle istituzioni. Potere al Popolo non è mai stato un cartello elettorale e lo sta dimostrando.

In terzo luogo perché è difficile votare un partito piccolo, in tempi in cui la competizione politica si è ormai ridotta a tre soggetti ed è stata interiorizzata la logica del “voto utile”. Invece molte persone hanno deciso di votarci sia per i valori che per il lavoro materiale che portiamo avanti, perché sapevano che, eletti o non eletti, li avremmo rappresentati.

Infine, questi risultati sono un bel segnale rispetto a quest’ombra nera che ha investito l’Europa e che si riflette anche sui piccoli territori.

Anche per questo facciamo i complimenti e mandiamo un abbraccio a tutte e tutti quelli che si sono impegnati nel presentare le liste, e ringraziamo le 12.000 persone che hanno creduto in noi. Facciamo i migliori auguri a chi è stato eletto, perché sappiamo che nel fare controllo popolare, nel fare opposizione, avranno contro i poteri che governano i territori: a loro non dovrà mancare il nostro sostegno, saranno i rappresentanti di una comunità.

Invitiamo tutte e tutti a cogliere questo segnale positivo per aprire Case del Popolo, sedi locali, continuare con i banchetti in piazza e con l’inchiesta sociale. La strada intrapresa è quella giusta, finalmente in controtendenza con tante cose viste in quest’ultimo decennio. Ci vuole un po’ di tempo ma a poco a poco trasformeremo il sogno in realtà.

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