Negli ultimi anni la politica italiana, o ciò che rimane di un modello politico che si pensava autosufficiente, riesce solo a indire dei referedum e a schierarsi sulle opzioni da mettere in campo alla tornata referendaria. Intendiamoci, in molti casi si tratta di una azione nobilissima, come la causa dell’acqua o quella della scuola, oppure di una manovra da contrastare con forza (come la riforma renziana). Ma anche la stessa politica dal basso deve essere in grado di governare crisi ed innovazioni uscendo da un piano puramente etico e deliberativo. La questione bancaria, che segnaliamo da tempo, è uno di questi terreni. Di quelli, per intendersi che non si risolverebbero con un referendum che imponesse le banche pubbliche. Ci sono tempeste globali, e tecnologiche, che impongono, al politico, innovazioni tali da non potersi fermare ad una ipotetica affermazione referendaria dello spirito del passato (la preminenza dell’interesse pubblico sulle banche, comunque da ristabilire). Di queste tempeste ne indichiamo appunto due, per rappresentare uno scenario che va colto con il senso dell’innovazione. Altrimenti sarà il deserto di sempre. Ricordiamo intanto l’affermazione del capocomico di Rignano, e della sua compagnia di giro chiamata governo: “in caso di Brexit, le conseguenze per l’Italia saranno minime”. Sono affermazioni buone per i fan che fanno la fila, se ancora la fanno, per farsi il selfie con la Boschi. Mettiamoci in modalità mondo reale, la nostra preferita visto che parliamo di rischio implosione delle banche italiane da diversi mesi (si veda il nostro articolo di dicembre e lo si confronti con l’oggi), e guardiamo questo grafico: ecco l’indice che mostra il valore della capitalizzazione delle banche italiane da gennaio ad oggi. Bene, in sei mesi le banche italiane hanno perso il 50 per cento della loro capitalizzazione.
Un crollo che il mainstream ha mostrato solo sulla vicenda delle banche venete, pompando il ruolo del fondo (privato) di salvataggio Atlante. La cui forza propulsiva come dicevamo poco più di un paio di mesi fa non avrebbe certo salvato il sistema bancario italiano. Fa bene ricordare che i media italiani da gennaio, subito dopo la vicenda Etruria, salvo eccezioni, hanno funzionato come un gigantesco sistema di propaganda bancaria. I numeri, come si vede, dicono che la crisi, esplosa di fatto lo scorso anno, continua la sua marcia. Eppure, ancora pochissimi giorni fa, un dirigente di primissimo piano del mondo bancario, già ai vertici dell’industria italiana (quando si dice che ci sono persone che incarnano il cambiamento dei livelli di comando), in una trasmissione televisiva si lamentava dell’ “allarmismo” dei media attorno alle banche. Il punto, come vediamo, è invece un altro. In un mondo globale, dove tutti osservano tutti in tempo reale, la crisi è difficile da nascondere. Ma vediamo velocemente un paio di cose.
UNO
L’Italia ha in Europa il record di emissione obbligazioni subordinate tipo Banca Etruria. Ovvero quelle che saranno messe a carico del risparmiatore in caso di necessità di “salvataggio” dell’istituto bancario eventualmente in crisi. Sovrapponendo questi dati al grafico che abbiamo visto, che riguarda la perdita di valore della capitalizzazione bancaria italiana, vediamo che i rischi di una generalizzazione del caso Etruria stanno tutti sul piatto. Va anche considerato il legame sociale che sta dietro questa emissione di obbligazioni subordinate: da una parte, essendo il legame tra banca e cliente ancora fiduciario (ancora quello di 50 anni fa) molti sottoscrittori non sanno neanche bene cosa hanno firmato. Dall’altra, con metodi molto più moderni, molti sanno cosa hanno firmato: semplicemente mutui o fidi sono stati erogati, a imprese e famiglie, solo con la sottoscrizione di obbligazioni a rischio. In modo o in un altro una costola significativa della società italiana, della sua base produttiva e riproduttiva, può entrare direttamente dentro questa crisi. Gli inglesi, a maggior ragione nella Brexit che ha effetto immediato nel mondo finanziario, si sono accorti dell’incedere della crisi bancaria italiana. E, nel momento in cui le banche della City sembrano tenere, il Telegraph pubblica il grafico dell’andamento azionario di Unicredit, gruppo top del settore bancario nazionale e leader a livello continentale, per evidenziare che la crisi del settore è più altrove che in Inghilterra:
Il grafico parla da solo. Ma si noti anche come il valore azionario di un titolo Unicredit si sia sostanzialmente dimezzato da dicembre ad oggi, sbattendo contro due crisi: quella della correzione dei valori di borsa dovuta al rialzo tassi Usa, e dal ribasso del prezzo del petrolio, e la Brexit. Non ci vuol molto quindi a capire che, se per alcuni paesi, crisi come la Brexit rappresentano l’influenza, per l’Italia si va direttamente alla polmonite. E infatti, come rivela correttamente il Telegraph, confermato da diverse fonti nazionali, l’Italia ha preparato un piano da 40 miliardi di euro per salvare le banche, senza dover passare dalla decimazione di una parte, comunque significativa, della società e dei risparmiatori. Il rimedio ovviamente sarebbe stato quello della socializzazione delle perdite: invece del bail-in (togliendo ai risparmiatori) attualmente in vigore, l’Italia avrebbe chiesto una deroga per poter applicare il bail-out (mettendo il salvataggio nel conto dei bilanci pubblici e togliendo ai servizi e ai cittadini). Questa soluzione (di classe, perché favorisce i risparmiatori penalizzando chi risparmio non ne ha), magari addolcita da un qualche intervento della Cassa Depositi e Prestiti o del fondo privato di salvataggio Atlante, è stata pubblicamente e seccamente respinta dalla Germania. In poche parole, l’Italia, almeno fino a oggi, non è stata in grado di far valere il presunto maggior peso nell’eurozona dopo il referendum sulla Brexit. Questo perché la Germania fa valere il proprio, di peso, e la propria strategia. Fattori che convergono verso un preciso desiderio di Berlino: non caricare più i bilanci pubblici, che vanno ripuliti per sostenere un euro forte e indebolire la presenza del pubblico (salvo Germania) negli investimenti. Questo comporta tre vantaggi strategici per la Germania: il primo, grazie alle regole in vigore, è quello di essere l’unico paese in grado di intervenire direttamente in caso di crisi; il secondo quello di non rafforzare le banche dei paesi “alleati” quando già in casa propria, tra banche territoriali e grandi gruppi, ci sono enormi problemi di titoli tossici da smaltire e modelli di business da ristrutturare nel mondo del tasso di interesse zero. C’è poi il terzo, che ci riguarda ancor più direttamente: in questo modo, fermando i desideri di bail-out, si può far scattare l’ESM, il meccanismo di “solidarietà” europea per i paesi bisognosi di fondi per ristrutturare le banche. Chi ha seguito il dibattito sull’ESM sa di cosa si parla. In breve: un vero e proprio commissariamento dello stato “aiutato” finanziariamente che prevede l’assoluta impermeabilità da vincoli giuridici dei funzionari dell’ESM nei confronti della giurisdizione dello stato “aiutato”. E’ evidente che la Germania vuol tenere carica questa arma, come arma di pressione nei confronti di tanti paesi. Compresa, ci mancherebbe altro, l’Italia. Gli effetti della Brexit possono ancora essere sismici meglio tenersi, a Berlino, tutti gli strumenti a disposizione. Questa è la sostanza: poi a sparare stupidaggini, a fantasticare di asse Roma-Parigi-Berlino ci pensano il Tg3, Rainews, il Tg1, Repubblica etc.
DUE
Come se non bastasse, ad una tempesta perfetta (banche in crisi da un lungo periodo, nuova crisi che ne radicalizza le debolezze, rischio terremoto nelle istituzioni europee e guerre finanziarie in corso) se ne aggiunge un’altra. Quella dell’innovazione tecnologica che sta cambiando la banca come, a suo tempo, ha semplicemente travolto la fabbrica fordista e il modello di produzione, e di riproduzione sociale, correlato e sottostante. Questo avviene nel momento in cui il livello del comando del capitale è finanziario e non produttivo. A differenza degli anni ’20, o della seconda metà dell’ottocento, la banca non cresce sulle innovazioni tecnologiche ma le subisce come mutazioni che portano a smembrarla. Questo comporta, oltre a cambiamenti sociali e produttivi di notevole portata, anche una ristrutturazione dei livelli di potere e di comando. In Italia, dove il sistema bancario è ancora, nelle leve del comando, da prima repubblica, anche questa rivoluzione è destinata a lasciare profondi effetti. Recentemente il sito dedicato ai Big data della IBM indicava le cinque tecnologie distruttive che stanno forzando, a cambiamenti epocali, il sistema bancario. Recitando una formula sintetizzabile in questo modo “Uber non ha auto, Facebook non produce contenuti, Air bnb non possiede case è una rivoluzione che toccherà anche il sistema bancario”
Non stiamo naturalmente parlando del domani ma dell’oggi. Le tecnologie indicate da IBM stanno producendo effetti profondi già oggi nel sistema bancario. Il punto è che le loro evoluzioni produrranno effetti ancora più profondi nell’immediato domani. Cambiando la faccia della società e del potere in un paese, il nostro, ancora fermo a mondi che non esistono più dal punto di vista bancario e finanziario. Con effetti potenti sul settore pubblico, centrale e locale, che sono già valutabili oggi ma che non sono valutati in una politica che vive in un mondo tutto suo, peraltro per niente allegro. Fa bene quindi citare la parole di un blog specializzato in credito alle imprese e, oltretutto, neanche catastrofista e nuovista: “l’anima delle banche sarà sempre più legata in modo indissolubile alla velocità di interpretazione di miliardi di dati trasformabili in comportamenti, azioni, proposte e perché la crescita dei sistemi blockchain [tipo bitcoin, ndr] sconvolgerà il monopolio bancario della sicurezza nelle transazioni”. Il blog che si occupa di credito alle imprese, di finanziamento all’economia delle PMI, continua in questo modo, facendo capire che è giunto il momento della rottura dei rapporti di potere bancari consolidati: “la rinuncia al dogma ‘si è sempre fatto così’ è la seconda violenza che il sistema bancario deve imporsi. La rivoluzione digitale è la tempesta perfetta per fare quello che non si è mai voluto fare prima: distruggere sistemi e processi obsoleti, a partire da quello del credito che tanti danni ha fatto in questi sette anni di crisi. Il nuovo modo di riavviare il motore del credito deve fondere la tecnologia e l’arte militare. La prima per incrociare e interpretare dati e informazioni (già oggi presenti ma dispersi) la seconda per creare motivazione e competenze superiori nella conoscenza del cliente attraverso un addestramento duro e selettivo”. Il capitalismo italiano è servito. Da parte di un sito che ne ha seguito con intelligenza, e non certo da critico del capitale, le evoluzioni del credito alle imprese dallo scoppio della crisi ad oggi (l’intero articolo si trova qui)
E così le tempeste perfette sono due. Vediamo che paese ci uscirà. La prima è portata dalla Brexit, la seconda dalla rivoluzione tecnologica. Vedremo se gli effetti saranno spettacolari, con la nave che si sfascia e affonda velocemente, o dal profondo velenoso respiro. Del resto la crisi del 2008 in Italia non si è materializzata con le code agli sportelli bancari ma in diverse, silenziose e pervasive forme fino a farsi, nello scorrere del tempo (e della retorica politica) insopportabile. Il tipo di insopportabilità che giunge quando meno te lo aspetti e porta alla paralisi, naturalmente. E che politicamente parlando non si risolve solo con l’estensione della democrazia ma anche, e soprattutto, con una mutazione, per certi versi drammatica, di paradigma economico.
Non esiste un altrove su questi temi, non c’è un “ben altro” a cui guardare. La moneta regola i comportamenti delle società da molto prima del capitalismo. Non esiste società senza moneta, persino i cultori dello stato minimo di ogni tipo dovrebbero saperlo. La moneta è una infrastruttura della coesione sociale, o del suo contrario, la cui forma è ineludibile in ogni tipo di società. Come sappiamo il capitalismo sovradetermina questo potere di regolazione facendosi profitto. Chi non vuole fare politica su questi temi strategici per l’oggi, occupandosi magari di tematiche identitarie o fatte di improbabili fantasie, faccia un favore a tutti: si occupi di altro. Ne guadagnerà in salute per sé e per gli altri. La politica e l’economia oggi impongono un tipo di centralità sistemica che, se non opportunamente interpretata, rischiano di travolgere pesantemente chiunque gli si pari davanti.
Redazione, 30 giugno 2016
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