In principio, la presente ardiva ad essere una supercazzola politico-esistenziale tesa (anche) a canzonare quell'intellettaulismo tragicamente sinistro di cui è stato alfiere il soggetto da cui ho preso a prestito il mio titolo.
In contro tempo rispetto alla mia penna, però, il contingente ha diretto le mie riflessioni sulla recente presa di posizione di Formenti circa il "cognitariato", quel raggruppamento sociale cosmopolita, istruito e giovane che nella retorica del pensiero neoliberista è assurto a emblema delle magnifiche e progressive sorti del capitalismo e che, a seconda dei casi, viene chiamato in causa a giustificazione delle peggiori nefandezze, ultima in ordine di tempo il rigurgitato disprezzo verso il suffragio universale reo, qualche volta, di silurare le aspettative delle elitè globali come verificatosi nel referendum sulla Brexit.
Secondo Formenti, questo gruppo sociale rappresenta, nonostante le contraddizioni che pure in esso albergano, un nemico di classe netto, sostanzialmente inutile da mobilitare se prima non si è provveduto ad egemonizzare i soggetti maggiormente vessati dal nuovo riordino internazionale dei capitali, cioè quanti, per questioni di sopravvivenza, hanno ben poco da spendersi per il fastidio di espatriare col visto.
Consumando buona parte del mio tempo tra questo "cognitariato" ho spesso accarezzato la tesi di Formenti, e pur non possedendo la puntualità del suddetto, penso che tale pensiero stia trovando, proprio in questi mesi, alcune conferme empiriche.
Oltre al voto di classe sulla Brexit in cui il "cognitariato" è stato ininfluente a fini realmente progressisti, sono meritevoli d'attenzione:
– il caso francese, dove l'incisività dell'azione sindacale nei confronti della loi travail ha del tutto oscurato le notti dei giovani sempre in piedi, la cui "novità" s'è dissolta nel buio alla prima stretta repressiva del sempre più nero Hollande (ennesimo segno che la conflittualità non può essere solo un esercizio intellettuale o peggio retorico);
– le elezioni spagnole che hanno registrato l'inizio di una fase di decantazione del progetto Podemos, della sua attrattività e parimenti del suo (presunto) ruolo di rottura sistemica (gli approcci verso il PSOE pur d'entrare da maggiorente nelle stanze dei bottoni sono stati imbarazzanti);
– le cronache italiane circa il post-expo, che hanno registrato la contrapposizione tra l'IIT capofila del progetto Human Technopole sostenuto dal Governo Renzi e il mondo accademico, da anni fortemente ostile al citato Istituto reo, a opinione delle università, di catalizzare a proprio uso e consumo la fetta maggiore di finanziamenti che i governi destinano alla ricerca.
I primi due avvenimenti certificano, seppur in modo differente, l'errore strategico della sinistra "radicale", che a partire dal maggio francese ha impostato la propria strategia di rottura in modo sempre più esclusivo sull'egemonia e la mobilitazione dell'universo studentesco e intellettuale, incentivando la cesione tra avanguardie rivoluzionarie e masse, prestando il fianco ad un elitarismo autoreferenziale totalmente funzionale alla disgregazione di classe, divenendo causa della penetrazione delle destre, il caso Trump è in tal senso emblematico, all'interno della working class.
Del progetto inerente la riqualificazione delle aree expo, invece, non trovo particolarmente interessanti le implicazioni politiche (non è la prima volta che la ricerca viene strumentalizzata a fini politici e non sarà l'ultima) ma piuttosto le riflessioni che possono nascere dall'analisi del pensiero su cui è basato il progetto HT e, dal momento che IIT sostiene d'attenersi alle migliori pratiche del settore, più in generale su tutta la ricerca occidentale.
Senza voler entrare nel dettaglio (lo spazio non lo consente) e nel merito (per limiti di competenze sulla materia) del progetto HT, una coscienza critica può comunque riscontrare senza difficoltà ciò che vizia alla base tanto la proposta dell'IIT quanto l'assetto in cui l'Istituto stesso compete: l'unilateralità.
A detta del direttore di IIT, l'idea di Human Technopole nasce da riscontri incontrovertibili: il globo è attraversato da una fascia geopolitica estesa dall'America Latina all'Asia passando ovviamente per l'Africa, soggetta a indici di sviluppo umani ai minimi termini ma parimenti destinata a vivere un'esplosione demografica senza precedenti già entro la metà del secolo presente, con tutto ciò che ne consegue in merito a questione sociale, ambientale, energetica, sanitaria e via proseguendo.
Nulla da eccepire su questa tesi, per altro dibattuta anche nel nostro campo da diverse prospettive. Quel che risulta quanto meno superficiale è, invece, l'approccio che la "ricerca" propone per arginare il problema: a parere del direttore di IIT, infatti, lo scenario esposto è passabile di un unico metodo realmente incisivo: quello tecnologico. Ecco dunque che fa nuovamente capolino, nel governo delle sorti del mondo, il mito della "tecnica" che va a braccetto con una concezione dello sviluppo umano unilateralmente appiattita sul progresso tecnologico-industriale che annulla qualsiasi considerazione di carattere socio-economica e politica.
Produce abbastanza inquietudine che soltanto una minoritaria fetta del mondo scientifico si domandi perché le aree con sviluppi umani agli antipodi corrispondano ai soggetti storicamente imperialisti da una parte e a coloro che sono stati costantemente oggetto di rapina materiale ed umana nelle proprie terre dall'altra...
Insomma nella "propria" ideologia, la scienza moderna, quella mistificata da competizione e interesse privato, rimuove di sana pianta tutta l'analisi materiale della storia, prestando il fianco a una sorta di "creazionismo" per cui la realtà con cui ci si confronta va gestita in termini esclusivamente "emergenziali" volti a contenere gli effetti indesiderati che si riscontrano, marginalizzando le cause che li generano.
Giunti a questo punto è spontaneo domandarsi cosa abbia prodotto lo stato di cose presenti, e la risposta, funzionale a smontare anche la retorica afferente al "cognitariato" penso vada individuata nel decennale processo d'involuzione culturale che ha coinvolto la società occidentale negli ultimi 40 anni, riassumibile nel celebre "there is no alternative", che ha funzionato talmente bene da lasciare senza alternative anche la classe dominante che con tutte le proprie forze si è spesa per raggiungere tale risultato, il fatto che non si veda la fine di una crisi che data ufficialmente al 2007-2008 la dice lunga...
Come ridefinire questi squilibri? Qui torno ad abbracciare l'idea di Formenti che perora la necessità di riscoprire a sinistra il populismo, magari ripartendo dall'analisi di esperienze come quella venezuelana che da un 15ennio mostra una tenuta invidiabile nonostante tutti gli errori tattici e strategici in cui è inciampato il PSUV.
Resta parimenti necessaria anche un'opera di (nuovo) sfondamento a livello intellettuale, scardinando quotidianamente le bordate di commentatori ed "esperti" radical chic di ogni risma. Per inseguire l'obiettivo penso che non sia comunque sufficiente il solo antagonismo dialettico con quei soggetti, ma anche una riscoperta/riconquista degli spazi artistici e culturali, insomma più Romero o Waters e meno Gramellini o Albertazzi.
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