di Michele Paris
La lunga e
inaspettata corsa di Bernie Sanders alla nomination Democratica per la
Casa Bianca si è chiusa ufficialmente questa settimana con il suo
appoggio pubblico all’ex segretario di Stato, Hillary Clinton. Per molti
aspetti, l’“endorsement” del senatore “democratico-socialista” del
Vermont alla sua ex rivale nel corso di un’apparizione congiunta in New
Hampshire è stato un evento penoso e umiliante. In questo modo, Sanders
ha chiuso di fatto la sua “rivoluzione” progressista, accettando e
promettendo di collaborare con la candidata alla presidenza
probabilmente più reazionaria mai uscita dalle primarie del Partito
Democratico da molti decenni a questa parte.
A cominciare
dall’ultimo appuntamento elettorale a inizio giugno in California,
Sanders è stato sottoposto a fortissime pressioni per accogliere gli
inviti dell’establishment Democratico ad ammettere la sconfitta e ad
allinearsi in fretta alla campagna di Hillary. Il clamoroso entusiasmo
suscitato dal suo messaggio contro le disuguaglianze di reddito negli
Stati Uniti e il controllo sulla società da parte di pochi milionari e
miliardari aveva d’altra parte messo in uno stato di autentico panico i
leader Democratici.
I primi segnali di una mobilitazione di
lavoratori, studenti e classe media, potenzialmente in opposizione allo
stesso Partito Democratico, andavano perciò neutralizzati e convogliati
in una direzione innocua, in questa tornata elettorale verso il sostegno
alla candidatura di Hillary Clinton, ovvero la più fidata
rappresentante dell’apparato di potere americano.
Il percorso
involutivo di Sanders è stato relativamente lungo e tutt’altro che
lineare. Ciò non significa tuttavia che il veterano senatore
indipendente diventato Democratico abbia mai nutrito dubbi sull’esito
che avrebbe avuto la sua campagna per la Casa Bianca.
L’ostacolo
principale per Sanders era ed è tuttora la resistenza di parte dei suoi
sostenitori a incanalare l’esperienza dei mesi scorsi sul binario morto
del Partito Democratico, storicamente vera e propria tomba dei movimenti
di protesta e di opposizione al sistema negli Stati Uniti.
Prima
di dare il proprio appoggio ufficiale a Hillary Clinton, Sanders ha
dovuto così trattare con i vertici democratici e l’entourage della ex
first lady per ottenere una serie di concessioni politiche, sia pure in
larga misura simboliche, da offrire ai suoi sostenitori.
Il punto
d’incontro tra i due contendenti alla nomination è stata la piattaforma
programmatica del partito. Questo documento viene tradizionalmente
redatto da una speciale commissione prima della convention, dove viene
poi ratificato, e costituisce in teoria il programma del partito per gli
anni a venire. Dopo scontri anche molto accesi tra i sostenitori di
Sanders e gli ambienti del partito vicini al clan Clinton, il senatore
del Vermont era riuscito a piazzare un numero consistente di propri
rappresentanti nella commissione incaricata di scrivere la piattaforma.
L’ostilità
nei confronti di Sanders è comunque andata scemando progressivamente,
una volta preso atto della necessità di offrire qualche innocua
concessione ai milioni di elettori che lo avevano votato durante le
primarie.
Sanders ha potuto così ostentare il successo nella
produzione della piattaforma “più progressista” nella storia recente del
Partito Democratico. Questa tesi risulta centrale nelle manovre dell’ex
candidato alla presidenza per convincere i suoi sostenitori a votare
Hillary Clinton a novembre. Alimentando cioè l’illusione che le
pressioni dal basso su un partito che è da tempo al servizio dei grandi
interessi economico-finanziari possano avere successo nello spostare il
suo baricentro verso sinistra, i vertici Democratici sperano di
intercettare i consensi di coloro che si erano mobilitati nelle primarie
a favore di Sanders.
Al
presunto successo nella stesura della piattaforma Democratica
quest’ultimo ha fatto più volte riferimento nel corso della sua
apparizione di martedì con Hillary in New Hampshire. I punti
programmatici influenzati da Sanders possono essere però considerati di
natura moderatamente progressista solo in relazione alla deriva
destrorsa del quadro politico americano negli ultimi decenni.
Soprattutto,
a rivelare l’inutilità e la fondamentale disonestà dello sforzo di
Sanders e Hillary è una realtà ben nota a entrambi, cioè che da tempo la
piattaforma programmatica di entrambi i principali partiti americani
non rappresenta se non in minima parte le politiche che essi intendono
perseguire a urne chiuse.
Tra le conquiste di Sanders inserite
nella piattaforma c’è ad esempio l’aumento del salario minimo federale
da 7,25 a 15 dollari l’ora, mentre Hillary aveva proposto un minimo di
12 dollari durante le primarie. L’altra questione di rilievo veicolata
da Sanders, per cui dovrebbero battersi gli eletti del Partito
Democratico, è poi la creazione di un piano di assistenza sanitaria
pubblico in competizione con le compagnie assicurative private che
dominano lo scenario creato dalla riforma di Obama in questo settore.
Queste
e altre iniziative, oltre a fare ben poco per invertire la tendenza
all’impoverimento di ampie fasce della popolazione americana, avrebbero
pochissime chances di essere approvate dal Congresso e saranno messe
rapidamente da parte dopo il voto di novembre perché considerate
irrealizzabili all’interno dell’attuale quadro politico di Washington.
La
superficialità delle concessioni fatte a Sanders è confermata dal fatto
che le sue richieste sono state bocciate seccamente su almeno un paio
di questioni che, anche come semplici dichiarazioni all’interno della
piattaforma del partito, avrebbero potuto avere qualche conseguenza
politica.
Sulle proposte di definire illegali gli insediamenti
israeliani e l’occupazione della Palestina e di dichiarare l’opposizione
del partito alla cosiddetta Partnership Trans-Pacifica (TPP), cioè il
trattato di libero scambio in fase di approvazione tra alcuni paesi
asiatici e del continente americano, il comitato Democratico incaricato
della stesura della piattaforma ha infatti sbattuto la porta in faccia a
Sanders.
Nonostante gli appelli della stampa e degli ambienti
“liberal” americani a unire il Partito Democratico attorno alla
candidatura di Hillary Clinton per evitare che Donald Trump conquisti la
Casa Bianca, per milioni di americani lo spettacolo deprimente offerto
martedì da Sanders non è passato inosservato.
Ascoltare Sanders,
che aveva lanciato slogan “rivoluzionari” per mesi e denunciato
ferocemente la simbiosi della famiglia Clinton con Wall Street, definire
l’ex segretario di Stato come la candidata più adatta a rappresentare
tutti gli americani e a battersi per “un governo basato su principi di
giustizia economica, sociale, razziale e ambientale”, deve avere
lasciato un segno profondo tra moltissimi potenziali elettori.
Se
l’abbraccio tra i due ex rivali ha avuto una qualche utilità, essa
consiste nell’avere chiarito ancora una volta come sia oggettivamente
impossibile trasformare il Partito Democratico in uno strumento di
cambiamento in senso progressista.
I corrispondenti dei media
ufficiali presenti al comizio di Sanders e Hillary sono stati costretti
ad ammettere che parecchi dei presenti hanno contestato i due ex rivali,
mentre altri, spesso in lacrime, hanno manifestato il proprio
disappunto per il “tradimento” del senatore. Tutto ciò malgrado l’evento
fosse stato annunciato da giorni e non ci fossero dubbi sulla decisione
di Sanders.
Se
le parabole di Sanders e Hillary, che sembravano irrimediabilmente
divergenti solo fino a poche settimane fa, hanno finito per convergere,
il movimento di protesta che ha animato le primarie Democratiche, ma
anche quelle Repubblicane, sia pure indirizzandosi verso tendenze
populiste e reazionarie, non si dissolverà al termine della lunghissima
stagione elettorale americana.
Anche se priva di sbocchi
politici, la mobilitazione di studenti e lavoratori, illusi dalle
prospettive di cambiamento offerte da Bernie Sanders, riflette infatti
frustrazioni e tensioni sociali profondissime difficili da contenere,
perché generate da una società e un sistema economico che tendono sempre
più a favorire una ristretta cerchia di super-ricchi.
Queste
dinamiche sono quindi destinate ad aggravarsi, visto che le richieste di
cambiamento di decine di milioni di americani sono destinate a rimanere
senza risposta, al di là dell’identità del prossimo inquilino della
Casa Bianca o del partito che a novembre si assicurerà la maggioranza
nel nuovo Congresso di Washington.
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