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14/07/2016

Leave Europe, capitalism Remain. Un referendum farsa, una falsa alternativa

Prima parte: dalla Brexit alle dimissioni di Farage

1. Essenza della cosiddetta democrazia liberale è ridurre l’intera alternativa tra il peggio e il meno peggio. Il meno peggio è spesso solo la forma presentabile del peggio. Il referendum, lungi dall’essere forma avanzata di democrazia, si sposa perfettamente con questo modello. Tanto più suonano pompose le trombe del “plebiscito”, tanto più lo spartito è scritto alle spalle della “plebe”.

2. Il fatto che in Europa ritorni tanto lo strumento referendario, dalla Grecia fino al Regno Unito passando per la Scozia, non riflette la salute democratica del capitalismo europeo. Riflette semmai la sua profonda malattia. Le masse vengono chiamate fugacemente a esprimersi con un sì o con un no, da usare come grimaldello, ricatto o materia di scambio nelle reali sedi decisionali.

3. Eppure basta questa loro fugace apparizione per inquietare i salotti della finanza continentale. Il “popolo” potrebbe finire per convincersi di contare qualcosa. E l’innocua scadenza referendaria potrebbe innescare la lotta tra le diverse classi per piegare il risultato referendario ai propri interessi.

4. Il referendum sulla Brexit non fa eccezione. Anzi, ben lontano dal clamore mediatico che l’ha accompagnato, si sta rivelando la farsa delle farse. E’ stato concepito come una scommessa interna alla lotta di frazione della destra e della borghesia inglese: l’ex primo ministro Cameron doveva contemporaneamente zittire la pressione nazionalista da destra ed essere rafforzato nelle trattative con Bruxelles. Ha scommesso quindi su una vittoria di misura del “Remain”: sufficiente da un lato ad ottenere concessioni dalla Merkel e dall’altro ad annichilire la prospettiva di abbandono della Ue. Ha tentato la “mossa del cavallo”. Ha fatto la fine dell’asino.

5. Così come è stato per il referendum greco concepito da Tsipras, anche la Brexit nasce come semplice stratagemma per strappare migliori condizioni di trattative al tavolo con la Merkel. Il “Leave” britannico è tuttavia agli antipodi dell’“Oxi” greco. Quest’ultimo era un chiaro moto di ribellione dell’anello debole della catena del capitalismo europeo, in grado di scatenare potenzialmente la lotta e la solidarietà di classe in tutta Europa. Il “Leave” è intriso del rigurgito nazionalista di una delle nazioni più potenti d’Europa che ha spinto fino all’orlo del baratro il suo ruolo di puntello “filoatlantico” e “liberista” interno all’Unione Europea. Da tempo la Gran Bretagna è la testa di ponte e la rappresentante degli Usa nel consesso delle borghesie europee. Il compito che le era assegnato, mantenendo la propria moneta e tenendosi alla finestra dell’Unione Europea, era quella dell’avvocato atlantico a Bruxelles. Una sua uscita non era quindi lontanamente contemplata.

6. Il carattere farsa della Brexit è infine sublimato da questo: da un lato la destra europeista sta esplicitando senza pudore come la “volontà popolare” sia tale solo se in accordo con i suoi dettami. Dall’altro la destra nazionalista sta rivelando di non sapere cosa farsene della “volontà popolare” e di non avere nessuna intenzione di applicarla. La campagna per un secondo referendum è vergognosa dal punto di vista di qualsiasi democrazia parlamentare. Le elezioni sono trasformate in una sorta di slot machine: tira la leva finché non vinci.

7. Le argomentazioni “europeiste” secondo cui il Leave avrebbe vinto grazie al “voto dei vecchi” – che non dovrebbero decidere per i giovani – o grazie alle persone ignoranti – che non dovrebbero esprimersi su quello che non sanno, sono argomentazioni potenzialmente utilizzabili contro l’intero suffragio universale.

8. Clamorosamente lo stesso fronte del Leave ha accettato di essere descritto così: composto principalmente da pensionati, working class di provincia, senza il voto dei giovani “perché son quelli che più hanno da guadagnare dall’Unione Europea”. Un’opinione di sé piuttosto misera, in verità. L’Ue è stata un incubo in materia di tagli e di austerità per l’istruzione pubblica: i giovani della working class non hanno da guadagnarne tanto quanto i vecchi. Tant’è che la fascia giovanile è stata semmai quella che meno si è recata a votare (36% di affluenza sotto i 24 anni, contro l’83% sopra i 65). Né accettiamo poi l’idea che una “rivolta operaia nelle urne” possa lasciare fuori centri urbani di primaria importanza come Londra, Glasgow, Edinburgo, Liverpool, Leeds, Manchester. A meno che non si voglia accreditare l’idea che la classe operaia inglese sia un fenomeno residuale di provincia e non una classe vitale composta da centinaia di migliaia di lavoratori dipendenti che vanno dai grandi centri dei servizi, ai trasporti, passando per le fabbriche, i centri commerciali, ecc. ecc.

9. Il punto non è sociologico ma politico. Stretti tra due alternative che alternative non sono, tra l’utopia di una riformabilità dell’Unione Europea e il nazionalismo britannico, un settore di giovani è rimasto a casa e la nostra classe è andata al voto in ordine sparso.

10. Il meccanismo referendario lungi dal rimettere tutta la sovranità nelle mani “della gente” restituisce completamente lo scettro alle trattative di palazzo, alle riunioni segrete e ristrette tra Bruxelles e la City.

11. L’articolo 50 del trattato di Lisbona che regola l’uscita dall’Unione non si attiva automaticamente: deve essere invocato dalla nazione che ha intenzione di uscire. E anche dopo che è stato attivato, le trattative per regolare l’uscita possono durare fino a 2 anni. Finora la Gran Bretagna non ha attivato l’articolo 50, ma ha chiesto di continuare le trattative con l’Ue: come dire, trattiamo sulla mia permanenza ma mi lascio la possibilità di andarmene quando voglio.

12. Le dimissioni di Cameron da primo ministro significano prima di tutto uno slittamento del processo di Brexit. Il suo successore sarà nominato ad ottobre. Prima di allora nessuno invocherà l’articolo 50. E difficilmente questo avverrà dopo: la maggioranza del Parlamento non è a favore della Brexit. C’è poi chi mette già in discussione che l’ordinamento inglese contempli la possibilità da parte del Governo di emettere l’atto legislativo per attivare l’articolo 50, con il possibile strascico di ricorsi legali.

13. Il quadro non è completo se non si considera che il Remain ha vinto in Scozia e in Nord Irlanda. L’attivazione dell’articolo 50 significherebbe la contestuale richiesta di Scozia e Nord Irlanda di trattare separatamente la propria permanenza nell’Ue. Nazionalismo, separazione, unificazione: concetti che la borghesia piega rapidamente da una parte o dall’altra a seconda dei propri interessi. Durante il referendum sulla Scozia, l’indipendenza scozzese era vista dai nazionalisti di tutta Europa come il processo che poteva destabilizzare l’Ue. Oggi l’indipendenza della Scozia si trasformerebbe potenzialmente in un grimaldello del capitalismo tedesco e francese nel Regno Unito.

13. Altro che primavera popolare: la Brexit, il tanto celebrato “Independence day”, ha sempre più i contorni di un complicato divorzio tra ricchi dove entrano in campo i pool di avvocati.

14. E infine sono arrivati i ritiri degli stessi Johnson e Farage, le due figure di spicco del fronte del Leave. Johnson, il biondo patinato leader dei Conservatori pro-Leave, è stato silurato a poche ore dall’annuncio della sua candidatura a sostituire Cameron. Subito dopo la vittoria del referendum era apparso in tv offrendo una linea conciliante, commentando come i mercati avessero “frainteso” e che l’obiettivo era non “abbassare totalmente il ponte levatoio” con l’Europa. In perfetto stile mafioso, i mercati hanno preteso la testa di Johnson come pegno per cominciare una possibile trattativa. Così il suo luogotenente Gove, più sobrio e pacato, l’ha pugnalato alle spalle mettendo in minoranza la sua candidatura.

15. E arriva ora il ritiro di Farage, leader dell’Ukip. Simbolo di un nazionalismo che ha promesso ciò che non può realizzare, incolpato gli immigrati di colpe che non hanno, promesso soldi alla sanità che non arriveranno, raccontato di un capitalismo britannico buono che non esiste, la vittoria della Brexit coincide con un passo indietro da parte di questo incrocio inglese tra Salvini e Grillo. Farage ritirandosi ha già indicato la nuova linea su cui si dovrà attestare l’Ukip: “Mentre è chiaro che lasceremo l’Unione Europea, i termini della nostra uscita non sono ancora chiari. Se ci sarà una retromarcia da parte del governo e con il partito Laburista sempre meno a contatto con i suoi elettori, forse i migliori giorni dello UKIP devono ancora arrivare”. In pratica l’Ukip abbandona la linea della Brexit, per prepararsi a raccogliere il voto di protesto per la mancata Brexit o per come verrà realizzata.

16. Ecco qua, dunque, in tutto il suo splendore la bancarotta della Brexit. E con essa la bancarotte dell’idea che gli scontri fondamentali tra le classi siano regolati dalle consultazioni referendarie, che la gabbia dell’Unione Europea possa essere rotta saltando da un referendum all’altro. E’ la bancarotta dell’idea che il nazionalismo borghese possa ritagliarsi uno spazio autonomo di vita a prescindere dalla borghesia stessa.

17. E l’ennesima dimostrazione di come in politica non sia importante solo cosa si fa, ma anche chi lo fa e in quale contesto. Non esiste un unico modo di rompere la gabbia dell’Unione Europea, ma esiste un unico modo per farlo in maniera progressista: non con la nostra classe a rimorchio degli appetiti di questo o quel settore di borghesia europea, ma con la nostra classe opposta all’insieme del capitalismo europeo e mondiale.

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