Qualche giorno fa Repubblica ha proposto un’intervista di Businessweek a Marissa Meyer, CEO di una delle più grandi corporations al mondo: Yahoo.
In questa intervista la Meyer ci svela la chiave del successo del
gigante statunitense e più in generale di ogni grande azienda: secondo
lei «Il segreto della fortuna delle aziende è quello di avere
dipendenti che si impegnano duramente. Si può arrivare a una media di
130 ore alla settimana».
In barba a tutta la retorica sulle “High-Tech companies”, sul lavoro agile e smart, alla fine il
vecchio caro sfruttamento, quello dell’allungamento della giornata
lavorativa, rimane ancora una strategia chiave per gli imprenditori
tutti.
Si tratta della sempre valida estrazione di plus-valore assoluto: si
lavora di più, la notte, i festivi, si cancella ogni possibile pausa,
annullando il tempo libero e lasciando il minimo tempo di riposo
necessario al lavoratore per reintegrare le forze. Nell’Ottocento si
collocavano i dormitori direttamente nelle fabbriche proprio per ridurre
questo tempo: oggi accade ancora nelle fabbriche-dormitorio di Shenzen,
ma chi si sarebbe aspettato che accadesse anche nelle modernissime
Yahoo e Google (dove la Meyer ha lavorato in passato)? «Nella sede di
Google c’erano le “nap room”». In diverse società americane (ma anche
giapponesi e il trend è di crescita), dove il lavoro è ininterrotto
giorno e notte, ci sono le stanze del pisolino, ma anche veri e propri
dormitori: «Per i miei primi cinque anni ho fatto più o meno una notte
bianca di lavoro a settimana».
Sembra l’Inghilterra ottocentesca di Dickens ed invece è il lavoro nelle grandi corporations
americane nel 2016. Più di un secolo, in cui i lavoratori si sono
organizzati, hanno strappato le 8 ore lavorative (in Italia dal 1923),
il giorno di riposo, le ferie, sembra non essere mai esistito: oggi
tutti questi diritti sono rimessi in discussione e non solo nelle
aziende americane, ma anche qui da noi.
...E IN ITALIA?
In questo ultimo anno in Italia c’è stata un’accelerazione sul tema:
aumento del tempo di lavoro e riduzione del tempo di vita. Già, perché
finché non si aumenta la durata della giornata (ma non diamogli questa
idea) non c’è scampo, le due cose sono strettamente interrelate: se
lavoro più ore, avrò meno tempo libero. Pensiamo soprattutto al settore commerciale
con i supermercati di molte grandi catene (Carrefour e Auchan per
prime) che hanno deciso di aprire h24, con lavoro domenicale e notturno
obbligatorio. Qui non ci poteva essere la retorica del self made man,
la promessa che in cambio dell’impegno totale ed assoluto puoi
diventare il nuovo genietto dell’informatica e vedere ripagati i tuoi
sforzi come un novello Steve Jobs o Bill Gates. In questo settore questa
retorica non poteva funzionare ed infatti è stata sostituita dal più
diretto ricatto: o così o stai a casa. Per i nuovi assunti, contratti in
cui si deve accettare l’orario flessibile (straordinari non pagati,
turni notturni e domenicali obbligatori, ti chiamo all’ultimo quando mi
servi, stai a casa quando decido io); per chi aveva il vecchio contratto
– teoricamente blindato – ecco il trasferimento punitivo, comminato in
caso di rifiuto, come accaduto all’Auchan di Torino.
Ma pensiamo anche allo straordinario comandato per i lavoratori FCA,
costretti a lavorare la domenica fino a quando, sfiniti per i carichi
di lavoro, non si sono organizzati ed hanno imposto all’azienda la
sospensione. O pensiamo ai turni di 20 ore di tanti facchini
della logistica, turni che erano la regola finché, anche qui, molti
lavoratori non hanno cominciato ad organizzarsi con alcuni sindacati di
base e sono riusciti, in molti siti, a porre un freno a questo
sfruttamento selvaggio.
Sembra che nel 2016, nelle società dell’industria 2.0, il tanto
agognato aumento della produttività passi ancora per l’aumento dello
sfruttamento assoluto, quindi del tempo di lavoro che mangia sempre più
tempo di vita. Per fortuna la Meyer ci rassicura che lavorare 130 ore è
possibile, basta pianificare tutto, anche quando andare in bagno! La
chiamano “conciliazione del tempo di vita e lavoro”, ma molto più
banalmente è la drastica e diretta riduzione del tempo libero in favore
del tempo di lavoro supplementare (per altro non pagato con
maggiorazioni). Una fregatura che di fatto impedisce ogni
possibile organizzazione della propria vita: la sera non si può uscire,
la domenica niente giornata libera, impossibile programmare qualunque
attività sociale o sportiva perché non esistono orari fissi. Esiste solo
l’interesse dell’azienda che è bene supremo e per il suo profitto
occorre sacrificare qualunque cosa, soprattutto la vita delle persone
che vi lavorano.
Così arriviamo al paradosso di oggi: una società tecnicamente
evoluta, la più evoluta di sempre, che continua a far lavorare allo
sfinimento le persone. Una società in cui c’è chi è costretto a
lavorare 60/70 ore la settimana (per rimanere su soglie leggermente più
“umane”) e una massa sconfinata di disoccupati. Secondo una ricerca dell’ILO,
l’organizzazione internazionale del lavoro, nel 2007 un lavoratore su
cinque in tutto il mondo – ovvero 600 milioni di persone – lavorava
ancora per più di 48 ore la settimana, e nella maggior parte dei casi
solo per riuscire ad arrivare alla fine del mese.
Oltre all’impossibilità di organizzarsi una propria vita al di fuori
del lavoro, occorre fare anche valutazioni sui costi sociali e umani che
questo aumento netto dello sfruttamento si trascina dietro. Orari di
lavoro molto lunghi, soprattutto per lavori pesanti, combinati con età
pensionabile sempre crescente e sempre minori obblighi per le imprese nel campo della sicurezza sul lavoro,
aumentano drammaticamente i rischi di incidenti. Con costi spesso
drammatici per chi si infortuna (o peggio perde la vita) e costi sociali
alti per tutti.
Lavorare 130 ore la settimana è possibile ci dice la Meyer. Sì, forse
standosene comodamente seduta al sessantesimo piano di un ufficio con
aria condizionata e sedia ergonomica, con governante e baby-sitter che
pensano a tutto il resto a casa lo è. Ma quanto lo è per la maggioranza
delle persone normali che non guadagnano 6500 dollari all’ora come la
protagonista dell’intervista? E, soprattutto, quanto è desiderabile un
mondo in cui tutti lavorano sempre, senza orari, senza soste? Ma
davvero vogliamo lavorare tutto il giorno, essere costretti a fare la
spesa la notte costringendo così una cassiera a fare il turno notturno?
Ma che senso ha? Non è un cortocircuito da cui dovremmo uscire
pretendendo orari di lavoro più umani per tutti e più tempo libero per
coltivare i nostri interessi, le nostre passioni, i nostri affetti?
Non è impossibile economicamente, basti pensare alla grande quantità di
ricchezza di cui si appropriano i padroni, né tecnicamente, lo è solo e
soltanto perché il capitalismo si regge sul fatto che i padroni
comprano la nostra forza-lavoro e pretendono di disporne a loro
piacimento per trarne ogni anno guadagni che noi ci sogniamo in tutta
una vita di fatica. Lo è perché questo sistema economico – fatto su
misura per aziende e persone concrete, come la Meyer – in preda a una
crisi epocale, mostra il suo vero volto, mettendo il profitto davanti ai
bisogni più elementari dell’essere umano, compresa la vita stessa.
Lo abbiamo già detto: le lotte alla FCA e nella logistica ci hanno dimostrato che è possibile fermare queste pretese dei padroni, ma solo noi possiamo farlo.
Il buon vecchio “lavorare meno lavorare tutti” non è mai stato così attuale.
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