Per contrastare la deflazione in Giappone, l’ex capo economista del FMI Olivier Blanchard è arrivato a proporre un significativo aumento dei salari. Nel nostro continente, tuttavia, di ricette simili non si discute nemmeno.
di Emiliano Brancaccio
Le politiche espansive della BCE non sono in grado di allontanare l’eurozona dal precipizio della deflazione. Nei giorni scorsi l’istituto di Francoforte ha dovuto rivedere al ribasso le stime d’inflazione nell’eurozona per il 2017 e il 2018, e per la fine di quest’anno la previsione di crescita media dei prezzi nell’Unione monetaria continua a rimanere troppo vicina allo zero. La deflazione, del resto, già costituisce una realtà consolidata in alcuni paesi dell’Unione, tra cui Cipro, Grecia, Spagna, Croazia e Slovenia. Le ultime rilevazioni ISTAT indicano che pure l’Italia è invischiata nella secca della deflazione, con il calo dei prezzi che risulta confermato anche a luglio. Queste tendenze rischiano di vanificare gli effetti benefici dell’abbattimento dei tassi d’interesse: con prezzi ed entrate nominali in diminuzione sarà difficile per molti debitori, pubblici e privati, onorare gli impegni di pagamento.
La persistenza della deflazione viene solitamente spiegata con la diminuzione del costo delle materie prime. Ma questa giustificazione appare poco plausibile: se la banca centrale fosse realmente in grado di controllare l’andamento dei prezzi, in un ragionevole arco di tempo dovrebbe riuscire a scongiurare la deflazione anche in presenza di ribassi del prezzo del petrolio o di qualsiasi altro mutamento nello scenario macroeconomico globale.
Una spiegazione alternativa del persistente rischio di deflazione è che la politica monetaria della banca centrale non è in grado, da sola, di controllare la spesa aggregata e il reddito nominale e quindi, in generale, non può perseguire gli obiettivi dichiarati d’inflazione. Più precisamente, nella trasmissione della politica monetaria sussiste un’asimmetria di fondo: chiudendo i rubinetti della liquidità la banca centrale può provocare una recessione, ma aprendoli non è affatto detto che sia in grado di rilanciare l’economia.
Questa tesi entra in aperto conflitto con il Trattato dell’Unione, il quale conferisce al solo banchiere centrale il compito di pilotare l’andamento dei prezzi. Essa è sostenuta da economisti provenienti dalle più svariate scuole di pensiero, e trova numerose evidenze empiriche a suo favore. Una riprova recente è scaturita da un articolo di Brancaccio, Fontana, Lopreite e Realfonzo appena pubblicato sul Journal of Post-Keynesian Economics. La ricerca ha evidenziato che dalla nascita della moneta unica europea gli scostamenti del reddito nominale dell’eurozona dalla sua linea di trend non sono stati influenzati dai movimenti dei tassi di interesse: in particolare, la riduzione del costo del denaro non sembra aver favorito recuperi del reddito nominale, e quindi anche del livello dei prezzi, verso i loro andamenti tendenziali di lungo periodo. La spiegazione teorica è che la dinamica dei prezzi dipende più da altri fattori, tra cui l’andamento dei salari, mentre la massa monetaria e i tassi d’interesse incidono in termini molto più deboli e indiretti.
Sembra essersene accorto anche l’ex capo economista del Fondo monetario internazionale Olivier Blanchard, che in un articolo di pochi mesi fa scritto con Adam Posen sulla deflazione giapponese, è arrivato a proporre un significativo aumento dei salari per contrastarla. Nel nostro continente, tuttavia, di ricette simili non si discute nemmeno. Come ci ripete spesso la signora Merkel, l’Unione europea e l’eurozona sono state edificate in difesa del principio della libera circolazione dei capitali, e per questo rappresentano l’arena ideale per una gara salariale al ribasso: i paesi che ne fanno parte sono destinati a sfidarsi tra loro nella corsa alla distruzione dei sindacati e allo schiacciamento delle retribuzioni. Soprattutto dalle nostre parti, dunque, l’ipotesi di un rilancio dei salari per contrastare la deflazione costituisce un’indicibile eresia.
I dati tuttavia parlano chiaro. Con politiche salariali orientate in senso restrittivo non vi è politica monetaria che tenga. La BCE, da sola, non riuscirà a interrompere lo scivolamento di molti paesi nella palude della deflazione. Sembra così destinata a rafforzarsi la previsione del “monito degli economisti” pubblicato nel 2013 sul Financial Times: la stretta salariale e la tendenza strisciante al calo dei prezzi alimentano la deflazione da debiti, accrescono i rischi di nuove crisi bancarie e riducono ulteriormente le probabilità di tenuta futura dell’eurozona.
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