“Il Romanzo dell’Italia” è il titolo del
volume che il Corriere della Sera ha dedicato a se stesso per celebrare
140 anni di storia, nel corso dei quali il quotidiano della borghesia è
stato sicuramente protagonista non solo al riguardo dell’informazione
ma anche dell’orientamento di ampi settori dell’opinione pubblica
influenzando lo stesso sviluppo culturale del Paese.
E’ il caso, allora, di entrare nel merito
di alcune pagine che si trovano nel volume da intendersi come passaggi
assolutamente significativi nella storia dell’Italia: alcuni temi si
evidenziano come ricorrenti, questioni mai risolte nella complessità
delle vicende politiche e sociali durante un secolo e mezzo.
La prima citazione riguarda, infatti, la
collocazione ideale e culturale del giornale che si trova
nell’editoriale di partenza, apparso senza firma ma unanimemente
attribuito al primo direttore Eugenio Torelli Violler:
“.. Siamo conservatori e moderati.
Conservatori prima, moderati poi. Vogliamo conservare la Dinastia e lo
Statuto perché hanno dato all’Italia l’indipendenza, l’unità e la
libertà, l’ordine. In grazia loro si è veduto questo gran fatto”.
La triade quindi è composta dalla Monarchia, il notabilato liberale, l’ordine costituito.
Un giornale come espressione di quella
borghesia che ha fatto il Risorgimento, come fatto d’élite, ristretto,
lontano dalle masse popolari come avrebbe individuato, qualche anno
dopo, Antonio Gramsci.
Il giornale si avvia quindi a occuparsi
dei mali atavici del Belpaese (come spesso definisce l’Italia) a partire
da mafia e camorra.
Scrive Dario Papa da New York nel numero del 16 – 17 Febbraio 1882
“Dal Napoletano e dalla Sicilia specialmente vengono qui (negli USA n.d.r.) a
grandi frotte chiamati dai loro parenti e amici. E non occorre nemmeno
aggiungere che, appena arrivati, cascano in mano della camorra e della
mafia, secondo il luogo di provenienza. Coteste due arpie del nostro
disgraziato paese, qui fioriscono ogni giorno maggiormente”.
Il 6 marzo 1909 in un editoriale senza
firma si denuncia un altro atavico male dell’Italia di sempre, un male
che oggi, 2016, affligge con grande intensità il nostro sistema: quello
della mediocrità del ceto politico e nell’insieme dei gruppi dirigenti.
Ci troviamo alla vigilia delle elezioni
del 1909 che le liste collegate con il blocco ministeriale di Giolitti
vinceranno con il 61,4%.
“ I candidati che si presentano agli
elettori non sono il fiore d’Italia. Ce ne sono degli ottimi, ma ce ne
sono anche degli scadenti. La vita politica non seduce tutti, anzi
talvolta ispira ripugnanze in animi elevati. E’ un male gravissimo dal
quale dobbiamo guarire…
… Difettano gli uomini capaci di agire, di dirigere efficacemente le amministrazioni pubbliche…
…E finché i voti (siamo ancora al voto per censo, n.d.r) non
verranno dati secondo coscienza, finché gli elettori misureranno i
meriti del deputato alla stregua dei vantaggi che egli ha saputo
procurare loro individualmente o al loro collegio i caratteri e le menti
più elette proveranno ripugnanza per la vita politica o, vincendola,
soccomberanno troppo spesso nella lotta contro avversari dalla coscienza
più elastica”.
Nello stesso articolo però s’individua il grande nemico: lo Stato burocratico
“ Tutti, cioè, vogliamo che la macchina dello Stato si spogli di tanta ruggine, diventi più scorrevole, economica, produttiva”.
Sembra di ascoltare Renzi fare propaganda
nel recente referendum attraverso il quale puntava a mettersi sotto i
piedi la Costituzione Repubblicana.
Riprendiamo però il filo che traccia la lettura del “Romanzo d’Italia” nella versione Corriere della Sera.
La borghesia italiana, per bocca dei suoi
Vati (c’è anche D’Annunzio a scrivere su quelle pagine) ha individuato
tre bersagli: mafia e camorra, mediocrità della classe politica, stato
burocratico.
Quale traguardo viene allora indicato a questa borghesia che si vuole “scorrevole, economica, produttiva” ?
La risposta è la Guerra.
Nelle due occasioni di svolta nella
Storia d’Italia il “Corriere della Sera” si schiera per la tragedia:
dalla parte di chi, prima gli interventisti poi il fascismo, trascina le
donne e gli uomini del nostro Paese nel baratro ben dentro le più
grandi tragedie del Secolo.
E’ impressionante leggere gli incipit
degli editoriali apparsi nei giorni fatidici (senza firma, quindi da
attribuire alla direzione, retta nel primo caso da Albertini e nel
secondo da Borrelli).
24 Maggio 1915
“ La parola formidabile tuona
da un capo all’altro dell’Italia e si avventa alla frontiera orientale,
dove i cannoni la ripeteranno agli echi delle terre che aspettano la
liberazione: Guerra!”
11 Giugno 1940
“Nella superba adunata
popolare ieri sera il Duce ha pronunciato la parola tanto attesa.
L’Italia entra in guerra. L’Italia accetta la sfida..”
Si cerchi di comprendere, per favore, il
senso rabbrividente di queste citazioni: il lavoro giornalistico dei
moderati ispirati dal fondatore in nome della Dinastia, dello Statuto,
dell’Ordine approda all’incitamento e all’esaltazione della Guerra.
Una Guerra invocata senza alcun cenno di
dubbio, senza alcun pensiero rivolto all’immensità del disastro verso il
quale – comunque – ci si stava avviando.
Questo libro denuncia, senza volerlo anzi
pervenendo a una vera e propria eterogenesi dei fini, le enormi
responsabilità della borghesia “legge e ordine” nello stare dalla parte
della tragedia.
Il libro del Corriere della Sera denuncia
inconsapevolmente tutta l’insufficienza di un ceto che si voleva
dirigente e che è ricaduto sempre nel provincialismo nazionalista, male
storico che si è cercato – paradossalmente – di rianimare anche
nell’apparente modernità dei tempi recenti.
Rileggersi le pagine di entusiastica
chiamata alle armi rappresenta una lezione di storia che varrebbe la
pena di non dimenticare.
Essere smemorati però rappresenta la
caratteristica (anzi quasi una pre – condizione) più evidente delle
donne e degli uomini capaci di impossessarsi del potere (impossessarsi
del potere, cosa ben diversa dal fare politica).
Nessun commento:
Posta un commento