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18/12/2016

I 140 anni del Corriere. La guerra come identità della borghesia italiana

“Il Romanzo dell’Italia” è il titolo del volume che il Corriere della Sera ha dedicato a se stesso per celebrare 140 anni di storia, nel corso dei quali il quotidiano della borghesia è stato sicuramente protagonista non solo al riguardo dell’informazione ma anche dell’orientamento di ampi settori dell’opinione pubblica influenzando lo stesso sviluppo culturale del Paese.
 
E’ il caso, allora, di entrare nel merito di alcune pagine che si trovano nel volume da intendersi come passaggi assolutamente significativi nella storia dell’Italia: alcuni temi si evidenziano come ricorrenti, questioni mai risolte nella complessità delle vicende politiche e sociali durante un secolo e mezzo.
 
La prima citazione riguarda, infatti, la collocazione ideale e culturale del giornale che si trova nell’editoriale di partenza, apparso senza firma ma unanimemente attribuito al primo direttore Eugenio Torelli Violler:
“.. Siamo conservatori e moderati. Conservatori prima, moderati poi. Vogliamo conservare la Dinastia e lo Statuto perché hanno dato all’Italia l’indipendenza, l’unità e la libertà, l’ordine. In grazia loro si è veduto questo gran fatto”.
 
La triade quindi è composta dalla Monarchia, il notabilato liberale, l’ordine costituito.
 
Un giornale come espressione di quella borghesia che ha fatto il Risorgimento, come fatto d’élite, ristretto, lontano dalle masse popolari come avrebbe individuato, qualche anno dopo, Antonio Gramsci.
 
Il giornale si avvia quindi a occuparsi dei mali atavici del Belpaese (come spesso definisce l’Italia) a partire da mafia e camorra.
 
Scrive Dario Papa da New York nel numero del 16 – 17 Febbraio 1882
Dal Napoletano e dalla Sicilia specialmente vengono qui (negli USA n.d.r.) a grandi frotte chiamati dai loro parenti e amici. E non occorre nemmeno aggiungere che, appena arrivati, cascano in mano della camorra e della mafia, secondo il luogo di provenienza. Coteste due arpie del nostro disgraziato paese, qui fioriscono ogni giorno maggiormente”.
 
Il 6 marzo 1909 in un editoriale senza firma si denuncia un altro atavico male dell’Italia di sempre, un male che oggi, 2016, affligge con grande intensità il nostro sistema: quello della mediocrità del ceto politico e nell’insieme dei gruppi dirigenti.
 
Ci troviamo alla vigilia delle elezioni del 1909 che le liste collegate con il blocco ministeriale di Giolitti vinceranno con il 61,4%.
 
“ I candidati che si presentano agli elettori non sono il fiore d’Italia. Ce ne sono degli ottimi, ma ce ne sono anche degli scadenti. La vita politica non seduce tutti, anzi talvolta ispira ripugnanze in animi elevati. E’ un male gravissimo dal quale dobbiamo guarire…
 
… Difettano gli uomini capaci di agire, di dirigere efficacemente le amministrazioni pubbliche…
 
…E finché i voti (siamo ancora al voto per censo, n.d.r) non verranno dati secondo coscienza, finché gli elettori misureranno i meriti del deputato alla stregua dei vantaggi che egli ha saputo procurare loro individualmente o al loro collegio i caratteri e le menti più elette proveranno ripugnanza per la vita politica o, vincendola, soccomberanno troppo spesso nella lotta contro avversari dalla coscienza più elastica”.
 
Nello stesso articolo però s’individua il grande nemico: lo Stato burocratico
“ Tutti, cioè, vogliamo che la macchina dello Stato si spogli di tanta ruggine, diventi più scorrevole, economica, produttiva”.
 
Sembra di ascoltare Renzi fare propaganda nel recente referendum attraverso il quale puntava a mettersi sotto i piedi la Costituzione Repubblicana.
 
Riprendiamo però il filo che traccia la lettura del “Romanzo d’Italia” nella versione Corriere della Sera.
 
La borghesia italiana, per bocca dei suoi Vati (c’è anche D’Annunzio a scrivere su quelle pagine) ha individuato tre bersagli: mafia e camorra, mediocrità della classe politica, stato burocratico.
 
Quale traguardo viene allora indicato a questa borghesia che si vuole “scorrevole, economica, produttiva” ?
La risposta è la Guerra.
Nelle due occasioni di svolta nella Storia d’Italia il “Corriere della Sera” si schiera per la tragedia: dalla parte di chi, prima gli interventisti poi il fascismo, trascina le donne e gli uomini del nostro Paese nel baratro ben dentro le più grandi tragedie del Secolo.
 
E’ impressionante leggere gli incipit degli editoriali apparsi nei giorni fatidici (senza firma, quindi da attribuire alla direzione, retta nel primo caso da Albertini e nel secondo da Borrelli).
24 Maggio 1915
“ La parola formidabile tuona da un capo all’altro dell’Italia e si avventa alla frontiera orientale, dove i cannoni la ripeteranno agli echi delle terre che aspettano la liberazione: Guerra!”
11 Giugno 1940
“Nella superba adunata popolare ieri sera il Duce ha pronunciato la parola tanto attesa. L’Italia entra in guerra. L’Italia accetta la sfida..”
Si cerchi di comprendere, per favore, il senso rabbrividente di queste citazioni: il lavoro giornalistico dei moderati ispirati dal fondatore in nome della Dinastia, dello Statuto, dell’Ordine approda all’incitamento e all’esaltazione della Guerra.
Una Guerra invocata senza alcun cenno di dubbio, senza alcun pensiero rivolto all’immensità del disastro verso il quale – comunque – ci si stava avviando.
 
Questo libro denuncia, senza volerlo anzi pervenendo a una vera e propria eterogenesi dei fini, le enormi responsabilità della borghesia “legge e ordine” nello stare dalla parte della tragedia.
 
Il libro del Corriere della Sera denuncia inconsapevolmente tutta l’insufficienza di un ceto che si voleva dirigente e che è ricaduto sempre nel provincialismo nazionalista, male storico che si è cercato – paradossalmente – di rianimare anche nell’apparente modernità dei tempi recenti.
 
Rileggersi le pagine di entusiastica chiamata alle armi rappresenta una lezione di storia che varrebbe la pena di non dimenticare.
 
Essere smemorati però rappresenta la caratteristica (anzi quasi una pre – condizione) più evidente delle donne e degli uomini capaci di impossessarsi del potere (impossessarsi del potere, cosa ben diversa dal fare politica).

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