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17/02/2017

Trump e la guerra con l’intelligence

di Michele Paris

Le dimissioni a inizio settimana dell’ormai ex consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, generale Michael Flynn, hanno infiammato il gravissimo conflitto in corso tra il presidente Trump e una comunità dell’intelligence americana intenzionata a imporre a tutti i costi la propria visione strategica alla nuova amministrazione Repubblicana.

Per quanti si attendevano una capitolazione da parte di Trump alla fazione dell’apparato di potere ferocemente anti-russo, che fa capo agli ambienti politici “neo-con” ed è ben rappresentato anche all’interno del nuovo governo, le dichiarazioni del presidente nella giornata di mercoledì sono arrivate come una doccia fredda.

Trump è infatti tornato ad attaccare frontalmente le agenzie di intelligence americane, a conferma non tanto della sua determinazione personale nel mettere queste ultime sotto il controllo politico dell’esecutivo, quanto della forza dei poteri che lo hanno lanciato verso la Casa Bianca e che intendono perseguire strategie diverse nei confronti di Mosca rispetto a quelle dell’amministrazione Obama.

Trump ha dunque condannato senza mezzi termini le fughe di notizie che nei giorni scorsi avevano provocato un’accesa polemica attorno alle discussioni di Flynn con l’ambasciatore russo a Washington, durante le quali il consigliere del presidente aveva promesso un rilassamento delle sanzioni adottate da Obama nei confronti di Mosca.

Le imbeccate sui presunti legami con la Russia di uomini vicini al presidente da parte della CIA a giornali come New York Times e Washington Post, sempre più spesso vere e proprie casse di risonanza dell’intelligence americana, sono state definite da Trump “illegali” e “criminali” nel corso di una conferenza stampa con il premier israeliano Netanyahu. Già in precedenza, poi, Trump aveva tuonato su Twitter contro CIA, FBI e NSA, minacciando una qualche purga per eliminare gli elementi ostili alla sua amministrazione.

La battaglia contro le tendenze del neo-presidente a fare della Russia una sorta di partner temporaneo degli Stati Uniti, sia pure per ragioni tattiche e di natura tutt’altro che pacifista, era stata d’altra parte alimentata poche ore prima da nuovi articoli del Times e del Post, rigorosamente basati su informazioni non provate e ottenute da anonime fonti dell’intelligence.

Il primo, ad esempio, aveva scritto di contatti tenuti da tempo tra personalità vicine al presidente con esponenti dei vertici dell’intelligence russa. Delle opinioni esposte non è stato dato come di consueto nessun riscontro concreto, ma esse sono state presentate nuovamente come fatti incontestabili solo perché garantite dalle parole di anonimi “officials” dei servizi segreti, di non specificate agenzie governative o dello stesso Consiglio per la Sicurezza Nazionale.

A far salire le tensioni e allo stesso tempo a dare l’idea del livello di scontro in atto è stato anche un articolo pubblicato giovedì dal Wall Street Journal. In esso viene spiegato come le agenzie di intelligence americane abbiano deciso di non sottoporre al presidente determinate informazioni sensibili da loro raccolte, per il timore esplicito di possibili fughe di notizie e, implicito, che lo stesso Trump o uomini del suo staff possano volontariamente o accidentalmente passarle alla Russia.

Quest’ultima conclusione, anche se non espressa apertamente dal Journal o dalle sue fonti, è particolarmente inquietante. Infatti, da una simile considerazione alla formulazione di accuse per un eventuale impeachment, se non addirittura per tradimento, il passo sembra decisamente breve. Proprio dell’ipotesi impeachment per Trump si sta peraltro parlando pubblicamente a Washington, soprattutto da parte di esponenti di un Partito Democratico pressoché interamente allineato alle posizione dell’intelligence americana.

Lo stesso articolo ricorda che per l’intelligence USA non è pratica nuova tenere un presidente all’oscuro di alcuni aspetti del proprio lavoro, in particolare riguardo ai metodi relativi alla raccolta di informazioni o all’identità delle fonti. Tuttavia, mentre in passato l’occultamento di alcune informazioni era dovuto per lo più alla necessità ad esempio di proteggere le stesse fonti o gli agenti sul campo, nel caso attuale la decisione dell’intelligence dipende dalla mancanza di fiducia nel presidente.

Nel caso qualcuno nutrisse ancora qualche dubbio sulla natura delle divisioni tra Casa Bianca e intelligence, il Journal spiega infine che determinate informazioni vengono tenute lontane dal tavolo di Trump a causa delle “ripetute manifestazioni di simpatia e ammirazione espresse dal presidente per Vladimir Putin”.

Questa ostilità dell’intelligence nei confronti di Trump spiega anche un’iniziativa che la Casa Bianca starebbe prendendo in considerazione e che è circolata giovedì sui media americani. Il presidente avrebbe cioè intenzione di affidare al numero uno del fondo di investimenti Cerberus Capital Management, Stephen Feinberg, l’incarico di condurre una “revisione” delle modalità con cui operano le agenzie di intelligence USA, con l’obiettivo finale di implementare una ristrutturazione delle stesse per portarle sotto il controllo più stretto del presidente.

Particolare spazio alla notizia è stato dato ancora una volta dal New York Times. Dando voce ripetutamente a minacce dei vertici dell’intelligence dai contorni quasi mafiosi, il giornale newyorchese riporta come tra questi ultimi ci sia una “forte resistenza” al possibile incarico da affidare a Feinberg. Le ragioni di ciò sarebbero legate ai timori per la possibile “limitazione dell’indipendenza” delle agenzie di intelligence e “il ridimensionamento del flusso di informazioni contrarie al punto di vista del presidente”.

La presunta “indipendenza” dei servizi segreti USA è in realtà una fantasia propagandata dalla politica e dai media ufficiali americani, visto che essi servono interamente gli interessi della classe dirigente e dei poteri forti d’oltreoceano o, quanto meno, della fazione all’interno di essi con la maggiore influenza in un determinato frangente storico.

Significativo è anche il riferimento all’ostacolo al “flusso di informazioni contrarie al punto di vista del presidente”, da interpretare appunto nel quadro dei tentativi messi in atto dall’intelligence per impedire la svolta strategica auspicata da Trump in merito ai rapporti con Mosca e al riassestamento delle priorità dell’imperialismo USA. Questi ambienti hanno d’altronde investito parecchio nella demonizzazione del governo russo per accettare pacificamente un cambiamento di rotta: dal golpe in Ucraina, all’aumento delle forze NATO di stanza in Europa orientale e al sostegno alle forze integraliste anti-Assad in Siria.

L’incarico a Feinberg è sostenuto alla Casa Bianca dai principali fautori della politica estera del presidente, lo “stratega capo” neo-fascista, Stephen Bannon, e il consigliere e genero di Trump, Jared Kushner. Entrambi avrebbero addirittura spinto dopo il voto di novembre per nominare Feinberg a direttore dell’Intelligence Nazionale o a capo delle operazioni clandestine della CIA. Questa candidatura, tuttavia, deve essere naufragata ben presto sotto le pressioni delle forze “neo-con” gravitanti attorno alla nuova amministrazione.

All’interno di essa vi sono infatti personalità estremamente influenti che hanno legami con lo stesso apparato militare e dell’intelligence che cerca di ostacolare l’attuazione della visione strategica di Trump e proprio per questo lo scontro in atto appare tanto più violento e dall’esito incerto. Con ogni probabilità, Trump è stato costretto a fare una serie di nomine contrarie alle proprie inclinazioni, principalmente per evitare che il Partito Repubblicano gli voltasse le spalle in campagna elettorale e per mediare con gli ambienti di potere a lui ostili. I rappresentanti di questa fazione sono soprattutto il vice-presidente, Mike Pence, il neo-direttore della CIA, Mike Pompeo, e il candidato a direttore dell’Intelligence Nazionale, Dan Coats.

Un altro campo su cui si consumerà il conflitto interno al governo americano è anche la scelta del successore di Michael Flynn alla direzione del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca. I giornali americani, dopo le dimissioni dell’ex generale si sono affrettati ad annunciare come favoriti il vice-ammiraglio Robert Harward e l’ex comandante delle forze di occupazione NATO in Afghanistan ed ex direttore della CIA David Petraeus, entrambi grosso modo ascrivibili alla fazione anti-russa.

In corsa ci sarebbe però anche la vice di Flynn nel Consiglio per la Sicurezza Nazionale, K. T. McFarland, la cui eventuale nomina potrebbe rappresentare un segnale di continuità e confermare l’intenzione di Trump di perseguire una certa distensione con Mosca. La McFarland vanta una lunga carriera nelle strutture della sicurezza nazionale americana e, soprattutto, è considerata una discepola di Henry Kissinger, con cui lavorò in giovanissima età nel Consiglio per la Sicurezza Nazionale durante l’amministrazione Nixon.

Proprio Kissinger, secondo alcuni, sia pure in maniera defilata sarebbe uno dei principali promotori degli orientamenti strategici di Trump, basati appunto su un relativo allentamento delle tensioni con la Russia nel tentativo di ostacolare l’integrazione euroasiatica in fase di consolidamento e dirottare gli sforzi diplomatico-militari americani verso quella che viene considerata come la più grave minaccia all’egemonia americana nel pianeta, ovvero la Cina.

Fonte

La coesione della classe dirigente statunitense pare instradata sul viale del disfacimento, non si può fare altro che rallegrarsi del fatto.

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