di Michele Paris
Le dimissioni a
inizio settimana dell’ormai ex consigliere per la Sicurezza Nazionale
della Casa Bianca, generale Michael Flynn, hanno infiammato il
gravissimo conflitto in corso tra il presidente Trump e una comunità
dell’intelligence americana intenzionata a imporre a tutti i costi la
propria visione strategica alla nuova amministrazione Repubblicana.
Per
quanti si attendevano una capitolazione da parte di Trump alla fazione
dell’apparato di potere ferocemente anti-russo, che fa capo agli
ambienti politici “neo-con” ed è ben rappresentato anche all’interno del
nuovo governo, le dichiarazioni del presidente nella giornata di
mercoledì sono arrivate come una doccia fredda.
Trump è infatti
tornato ad attaccare frontalmente le agenzie di intelligence americane, a
conferma non tanto della sua determinazione personale nel mettere
queste ultime sotto il controllo politico dell’esecutivo, quanto della
forza dei poteri che lo hanno lanciato verso la Casa Bianca e che
intendono perseguire strategie diverse nei confronti di Mosca rispetto a
quelle dell’amministrazione Obama.
Trump ha dunque condannato
senza mezzi termini le fughe di notizie che nei giorni scorsi avevano
provocato un’accesa polemica attorno alle discussioni di Flynn con
l’ambasciatore russo a Washington, durante le quali il consigliere del
presidente aveva promesso un rilassamento delle sanzioni adottate da
Obama nei confronti di Mosca.
Le imbeccate sui presunti legami con la Russia di uomini vicini al presidente da parte della CIA a giornali come New York Times e Washington Post,
sempre più spesso vere e proprie casse di risonanza dell’intelligence
americana, sono state definite da Trump “illegali” e “criminali” nel
corso di una conferenza stampa con il premier israeliano Netanyahu. Già
in precedenza, poi, Trump aveva tuonato su Twitter contro CIA, FBI e
NSA, minacciando una qualche purga per eliminare gli elementi ostili
alla sua amministrazione.
La battaglia contro le tendenze del
neo-presidente a fare della Russia una sorta di partner temporaneo degli
Stati Uniti, sia pure per ragioni tattiche e di natura tutt’altro che
pacifista, era stata d’altra parte alimentata poche ore prima da nuovi
articoli del Times e del Post, rigorosamente basati su informazioni non provate e ottenute da anonime fonti dell’intelligence.
Il
primo, ad esempio, aveva scritto di contatti tenuti da tempo tra
personalità vicine al presidente con esponenti dei vertici
dell’intelligence russa. Delle opinioni esposte non è stato dato come di
consueto nessun riscontro concreto, ma esse sono state presentate
nuovamente come fatti incontestabili solo perché garantite dalle parole
di anonimi “officials” dei servizi segreti, di non specificate agenzie
governative o dello stesso Consiglio per la Sicurezza Nazionale.
A
far salire le tensioni e allo stesso tempo a dare l’idea del livello di
scontro in atto è stato anche un articolo pubblicato giovedì dal Wall Street Journal.
In esso viene spiegato come le agenzie di intelligence americane
abbiano deciso di non sottoporre al presidente determinate informazioni
sensibili da loro raccolte, per il timore esplicito di possibili fughe
di notizie e, implicito, che lo stesso Trump o uomini del suo staff
possano volontariamente o accidentalmente passarle alla Russia.
Quest’ultima conclusione, anche se non espressa apertamente dal Journal o
dalle sue fonti, è particolarmente inquietante. Infatti, da una simile
considerazione alla formulazione di accuse per un eventuale impeachment,
se non addirittura per tradimento, il passo sembra decisamente breve.
Proprio dell’ipotesi impeachment per Trump si sta peraltro parlando
pubblicamente a Washington, soprattutto da parte di esponenti di un
Partito Democratico pressoché interamente allineato alle posizione
dell’intelligence americana.
Lo stesso articolo ricorda che per
l’intelligence USA non è pratica nuova tenere un presidente all’oscuro
di alcuni aspetti del proprio lavoro, in particolare riguardo ai metodi
relativi alla raccolta di informazioni o all’identità delle fonti.
Tuttavia, mentre in passato l’occultamento di alcune informazioni era
dovuto per lo più alla necessità ad esempio di proteggere le stesse
fonti o gli agenti sul campo, nel caso attuale la decisione
dell’intelligence dipende dalla mancanza di fiducia nel presidente.
Nel caso qualcuno nutrisse ancora qualche dubbio sulla natura delle divisioni tra Casa Bianca e intelligence, il Journal spiega
infine che determinate informazioni vengono tenute lontane dal tavolo
di Trump a causa delle “ripetute manifestazioni di simpatia e
ammirazione espresse dal presidente per Vladimir Putin”.
Questa
ostilità dell’intelligence nei confronti di Trump spiega anche
un’iniziativa che la Casa Bianca starebbe prendendo in considerazione e
che è circolata giovedì sui media americani. Il presidente avrebbe cioè
intenzione di affidare al numero uno del fondo di investimenti Cerberus
Capital Management, Stephen Feinberg, l’incarico di condurre una
“revisione” delle modalità con cui operano le agenzie di intelligence
USA, con l’obiettivo finale di implementare una ristrutturazione delle
stesse per portarle sotto il controllo più stretto del presidente.
Particolare
spazio alla notizia è stato dato ancora una volta dal New York Times.
Dando voce ripetutamente a minacce dei vertici dell’intelligence dai
contorni quasi mafiosi, il giornale newyorchese riporta come tra questi
ultimi ci sia una “forte resistenza” al possibile incarico da affidare a
Feinberg. Le ragioni di ciò sarebbero legate ai timori per la possibile
“limitazione dell’indipendenza” delle agenzie di intelligence e “il
ridimensionamento del flusso di informazioni contrarie al punto di vista
del presidente”.
La presunta “indipendenza” dei servizi segreti
USA è in realtà una fantasia propagandata dalla politica e dai media
ufficiali americani, visto che essi servono interamente gli interessi
della classe dirigente e dei poteri forti d’oltreoceano o, quanto meno,
della fazione all’interno di essi con la maggiore influenza in un
determinato frangente storico.
Significativo è anche il
riferimento all’ostacolo al “flusso di informazioni contrarie al punto
di vista del presidente”, da interpretare appunto nel quadro dei
tentativi messi in atto dall’intelligence per impedire la svolta
strategica auspicata da Trump in merito ai rapporti con Mosca e al
riassestamento delle priorità dell’imperialismo USA. Questi ambienti
hanno d’altronde investito parecchio nella demonizzazione del governo
russo per accettare pacificamente un cambiamento di rotta: dal golpe in
Ucraina, all’aumento delle forze NATO di stanza in Europa orientale e al
sostegno alle forze integraliste anti-Assad in Siria.
L’incarico
a Feinberg è sostenuto alla Casa Bianca dai principali fautori della
politica estera del presidente, lo “stratega capo” neo-fascista, Stephen
Bannon, e il consigliere e genero di Trump, Jared Kushner. Entrambi
avrebbero addirittura spinto dopo il voto di novembre per nominare
Feinberg a direttore dell’Intelligence Nazionale o a capo delle
operazioni clandestine della CIA. Questa candidatura, tuttavia, deve
essere naufragata ben presto sotto le pressioni delle forze “neo-con”
gravitanti attorno alla nuova amministrazione.
All’interno di
essa vi sono infatti personalità estremamente influenti che hanno legami
con lo stesso apparato militare e dell’intelligence che cerca di
ostacolare l’attuazione della visione strategica di Trump e proprio per
questo lo scontro in atto appare tanto più violento e dall’esito
incerto. Con ogni probabilità, Trump è stato costretto a fare una serie
di nomine contrarie alle proprie inclinazioni, principalmente per
evitare che il Partito Repubblicano gli voltasse le spalle in campagna
elettorale e per mediare con gli ambienti di potere a lui ostili. I
rappresentanti di questa fazione sono soprattutto il vice-presidente,
Mike Pence, il neo-direttore della CIA, Mike Pompeo, e il candidato a
direttore dell’Intelligence Nazionale, Dan Coats.
Un altro campo
su cui si consumerà il conflitto interno al governo americano è anche la
scelta del successore di Michael Flynn alla direzione del Consiglio per
la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca. I giornali americani, dopo le
dimissioni dell’ex generale si sono affrettati ad annunciare come
favoriti il vice-ammiraglio Robert Harward e l’ex comandante delle forze
di occupazione NATO in Afghanistan ed ex direttore della CIA David
Petraeus, entrambi grosso modo ascrivibili alla fazione anti-russa.
In
corsa ci sarebbe però anche la vice di Flynn nel Consiglio per la
Sicurezza Nazionale, K. T. McFarland, la cui eventuale nomina potrebbe
rappresentare un segnale di continuità e confermare l’intenzione di
Trump di perseguire una certa distensione con Mosca. La McFarland vanta
una lunga carriera nelle strutture della sicurezza nazionale americana
e, soprattutto, è considerata una discepola di Henry Kissinger, con cui
lavorò in giovanissima età nel Consiglio per la Sicurezza Nazionale
durante l’amministrazione Nixon.
Proprio Kissinger, secondo
alcuni, sia pure in maniera defilata sarebbe uno dei principali
promotori degli orientamenti strategici di Trump, basati appunto su un
relativo allentamento delle tensioni con la Russia nel tentativo di
ostacolare l’integrazione euroasiatica in fase di consolidamento e
dirottare gli sforzi diplomatico-militari americani verso quella che
viene considerata come la più grave minaccia all’egemonia americana nel
pianeta, ovvero la Cina.
Fonte
La coesione della classe dirigente statunitense pare instradata sul viale del disfacimento, non si può fare altro che rallegrarsi del fatto.
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