di Michele Giorgio
Atalya Ben Abba ha
20 anni e il volto di una bambina. La sua determinazione, le sue scelte
però l’hanno già resa una donna adulta, che sa ciò che vuole e, più di
tutto, cosa non deve fare. In attesa di andare all’università lavora in
una Ong di Tel Aviv che assiste ragazzi vittime di gravi violenze
domestiche. Ma appena un anno fa ha trascorso quattro mesi in una cella
di un carcere militare.
Una pena terminata con l’espulsione dalle Forze Armate. La sua
“colpa” è stata quella di dichiararsi una obiettrice di coscienza totale
e contro l’oppressione del popolo palestinese. «Mi sono rifiutata di
far parte dell’Esercito perché l’occupazione israeliana sulla Palestina è
ingiusta e deve finire. Fare il servizio di leva avrebbe tradito le mie
convinzioni e gli ideali in cui ho sempre creduto».
Atalya Ben Abba in questi giorni è attiva nella campagna di sostegno
ad Ahed Tamimi, la (quasi) 17enne palestinese arrestata, incarcerata e
sotto processo per aver schiaffeggiato a dicembre due soldati israeliani
davanti casa sua a Nabi Saleh, in Cisgiordania. «Ho incontrato il
padre, Basem Tamimi, e gli ho consegnato la lettera firmata da oltre 100
adolescenti israeliani (e inviata al ministro della difesa Lieberman,
ndr) di rifiuto di far parte dell’occupazione. Gli ho detto che
sosteniamo la lotta che porta avanti e che vogliamo lottare insieme».
Abbiamo incontrato la giovane refusenik israeliana qualche giorno fa a Gerusalemme.
Chi è Ahed Tamimi per te e per gli altri giovani israeliani che rifiutano di far parte delle Forze armate?
È un chiaro esempio di coloro che non possono più sopportare di
vivere sotto l’oppressione e la violenza. E che hanno il bisogno di
lottare contro di esse. Sosterrò la sua battaglia in tutti i modi che mi
saranno possibili. In Israele la condannano perché ha schiaffeggiato i
soldati. Ed è assurdo perché Ahed Tamimi vive in condizioni terribili e
aveva visto il cugino ferito alla testa (da colpi sparati da soldati
israeliani, ndr). Ma in Israele questo nessuno lo dice. Nessuno
parla di come i palestinesi sono trattati dall’esercito. Dicono
soltanto: come ha osato schiaffeggiare e umiliare i nostri soldati.
Cosa hai voluto affermare manifestando in pubblico la tua obiezione di coscienza?
Ho voluto prima di tutto che la mia decisione avesse un impatto sulla
società israeliana, per far ascoltare le ragioni del mio rifiuto. In
pubblico ho potuto denunciare che stiamo facendo cose brutte che devono
cessare, come rubare la terra ai palestinesi e risorse come l’acqua
oppure compiendo detenzioni amministrative (senza accuse formali e senza
processo, ndr). Andare in prigione è stato un atto di responsabilità nei
confronti della mia società.
Come hanno reagito i comandi dell’Esercito alla tua posizione?
Più o meno con “...ecco una ragazza giovane e stupida che ha bisogno di
svegliarsi perché non saremo indulgenti con la sua follia...”. Il
comandante della prigione mi diceva che sarei potuta diventare un’ottima
soldatessa e che accettando la leva avrei cambiato il sistema al suo
interno. Sono stata in prigione quattro volte perché il massimo periodo
di detenzione (per questi casi) è di un mese. Alla fine di ogni mese di
carcere mi chiedevano di accettare la leva e di fronte al mio rifiuto mi
rimettevano in cella.
Come è stato il carcere militare? Hai subito abusi?
No o forse sono stati abusi legali. In quel tipo di prigione senti
davvero di essere nelle Forze armate. Devi indossare l’uniforme, c’è un
comandante. È stato difficile ma allo stesso tempo molto interessante.
Un periodo dal quale ho imparato molto. Ricordo che in cella eravamo
sette ragazze. Le altre in gran parte avevano disertato per vari motivi,
non erano obiettrici. Perciò erano sorprese dalle ragioni che mi
avevano portato in quella prigione.
Come la società e le persone intorno a te hanno reagito alla
tua decisione. Le Forze Armate erano e restano la spina dorsale dello
Stato di Israele?
Il 98% per cento della società mi ha visto come una traditrice, una
che rifiuta di assumersi le proprie responsabilità. Almeno all’inizio molti
pensato questo. Poi ho spiegato le mie ragioni ad un po’ di persone, ho
detto che avrei potuto usare delle scorciatoie (per non entrare
nell’Esercito) e che invece ho preferito dichiarare le mie idee in modo
da farle conoscere ad altri. Qualcuno mi ha detto che sono stata
coraggiosa.
Di recente diverse ragazze israeliane hanno detto di no al servizio militare. È un fenomeno nuovo?
Non lo definirei nuovo. Va avanti da tempo, siamo collegate tra di
noi, attraverso la rete Mesarvot. E non riguarda solo le donne ma anche i
ragazzi. In questo momento è in carcere come obiettore Mattan Helman e
siamo in contatto con lui e la sua famiglia. Siamo un gruppo di
attivisti che lavora insieme.
I refusenik non sono nuovi nella storia delle Forze Armate
israeliane. Qual è la differenza tra quelli di venti anni o trent’anni
fa e quelli di oggi?
La differenza è netta. Allora affermavano il loro rifiuto su punti
specifici, come il servizio di leva nei Territori occupati o di
determinate operazioni militari. Il nostro rifiuto invece è totale,
respingiamo di far parte del sistema militare perché anche una semplice
segretaria comunque partecipa all’occupazione. Noi non facciamo il
servizio e poi rompiamo il silenzio come alcuni soldati. Noi lo
rifiutiamo subito.
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