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24/01/2018

Trump avvia la guerra con la Cina. Commerciale, per ora...

E’ cominciata l’ultima forma di guerra mondiale prima della fase armata: la guerra commerciale tra le due principali aree economiche del pianeta.

La decisione di Trump di imporre dazi sulle importazioni di lavatrici e pannelli solari è l’azione più diretta compiuta da anni contro il cosiddetto “libero commercio internazionale”. La tariffa sulle lavatrici sarà del 20% sui primi 1,2 milioni di pezzi, e salirà al 50% sui restanti fino alla fine del 2018. I dazi dureranno per i prossimi tre anni, scendendo gradualmente del 5% ogni anno. Per i pannelli solari, tariffa iniziale del 30%, ma dureranno quattro anni. Riguarderà le celle solari e i moduli oltre i 2,5 gigawatt.

Si tratta in effetti solo di una piccola porzione dell’interscambio commerciale tra i due paesi, ma il segnale politico è in ogni caso fortissimo, vista la motivazione addotta dal lunatico presidente Usa e mutuata dall’Us International Trade Commission; l’aumento delle importazioni di pannelli solari e lavatrici danneggiano i produttori nazionali.

Un precedente che da ora in poi potrà far scattare misure simili per qualsiasi altro comparto produttivo considerato “a rischio” da parte Usa.

Cina e Corea del Sud protestano, ovviamente, ma la loro reazione non può andare oltre il ricorso al Wto. La mitica Organizzazione Mondiale del Commercio, contro cui si scatenava il “movimento dei movimenti” da Seattle in poi, è oggi un cadavere senza più alcuna ragione sociale. Impotente di fronte al crescere inarrestabile delle piccole o grandi guerre doganali tra tutte le aree economiche del mondo.

La mossa statunitense mostra una volta di più la necessità di giudicare gli uomini – e le istituzioni – per quel che fanno, non per quello che dicono di sé. Nelle stesse ore in cui veniva aperta la guerra commerciale con la Cina, infatti, il Segretario al Tesoro Usa, Steven Mnuchin spiegava che gli Stati Uniti sono “assolutamente” favorevoli al libero mercato.

Mnuchin ha sostenuto che non c’è “nessuna preoccupazione” per i tassi di cambio, e che “un dollaro debole fa bene agli Stati Uniti da un punto di vista commerciale” (come per ogni paese che adotta la strategia della svalutazione competitiva, come l’Italia fino all’adozione dell’euro). Ha anche aggiunto, con invidiabile faccia tosta, che “non ci sono incoerenze” tra il programma del Presidente Trump ‘America First’ e l’obiettivo di collaborare con gli altri Paesi da un punto di vista commerciale.

La decisione trumpiana è ufficialmente mirata a difendere le imprese e i posti di lavoro Usa, ma paradossalmente nel breve periodo può provocare effetti opposti a quelli desiderati. L’Associazione dell’Industria per l’Energia Solare americana, che importa dall’estero l’80% dei pannelli installati, ha infatti calcolato che «La misura costerà agli Stati Uniti la perdita di 23mila posti di lavoro e la cancellazione di miliardi di dollari di investimenti».

Tornare indietro dalla mondializzazione della produzione manifatturiera, insomma, non provocherà meno disastri di quanti ne ha provocati la delocalizzazione selvaggia.

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