Per i non addetti ai lavori: questo trattato, fin qui solo “intergovernativo” e dunque applicato con una trattativa ad hoc ogni anno (la famosa “flessibilità” da conquistarsi a Bruxelles), diventerà un automatismo ragionieristico qualsiasi. In pratica, un gruppo di tecnocrati europei esaminerà la gestione dei conti pubblici nazionali ed emanerà il suo parere vincolante sui correttivi da apportare. Sia sul saldo finale (quanti soldi in più dovranno essere trovati dal governo), sia sul merito del contendere (non è un mistero che l’Unione Europea consiglia di tagliare soprattutto su pensioni, welfare, sanità e istruzione, più privatizzazioni del patrimonio pubblico, che sono anche le voci più consistenti del bilancio; insieme alla difesa, che viene invece incentivata).
In pratica, bisognerà destinare circa 50 miliardi l’anno alla riduzione del debito. Per quanto? Venti anni. Se alla fine saremo ancora vivi, come paese, verremo dichiarati “guariti dalla malattia del debito pubblico”. Gli economisti più sensati lo considerano impossibile, ma a Bruxelles (e soprattutto a Berlino) si sa bene che la nostra morte (economica e finanziaria) è la loro vita. Non c’è più posto per tutti; o perlomeno il benessere non può esistere per tutti, in questo sistema...
Sapendo questo, i partiti si guardano dal discutere in pubblico di Unione Europea, moneta unica e altri vincoli mortiferi. Sarebbe un guaio in ogni caso, sia urlando “viva l’Europa!”, sia sollevando critiche troppo aspre. Nel primo caso allontanerebbero gli elettori, nel secondo i ben più determinati e informati “mercati finanziari”.
Dunque tacciono e si sbracciano nel cercare di vendere la poca mercanzia di cui dispongono: le promesse. Ogni giorno più iperboliche, fantasiose, minimaliste o pantagrueliche (come giudicate quel Luigi Di Maio che promette 1.950 euro al mese a ogni famiglia di quattro persone al di sotto di quel reddito?).
Per il resto, chiacchiere e distintivo.
Gli ricordano invece ogni giorno quei vincoli e quel tema i media mainstream, preoccupati soprattutto della possibile reazione anticipata dei “mercati” davanti a un panorama politico egemonizzato dagli “euroscettici”, per ora individuati grottescamente nella Lega e nei Cinque Stelle. E infatti queste due formazioni non parlano più di Unione Europea, se non nei termini vaghissimi dei principi, dei valori, degli auspici, delle “riforme dei trattati”.
Ieri due quotidiani assai diversi tra loro – il super competente Sole24Ore e il popolaresco Il Giorno – hanno descritto chiaramente la materia del contendere. Il primo lamenta la pochezza di “politici” che fanno finta di non vedere il problema, il secondo – fiutando l’euroscetticismo di massa in agguato – bastona i burocrati di Bruxelles che riescono ad ottenere, politicamente, sempre il contrario di quel che vorrebbero. In pratica, il primo lancia l’allarme immediato, il secondo raccomanda di lanciarlo solo dopo le elezioni, per non pregiudicarne l’auspicato risultato (un governo di larghe intese o “del presidente”).
Comprensibile che a giocare questo ruolo – tra l’ambiguo e l’ignaro – rispetto alla questione centrale siano i partiti del regime, opposizione grillina compresa (la “normalizzazione” affidata a Di Maio è un segnale chiarissimo di resa incondizionata al potere dei “mercati”). Completamente assurdo che lo faccia chi questo sistema dice di voler ribaltare. Nell’Unione Europea non c’è spazio per battaglie politiche, “riscrittura di trattati”, ecc. A meno che l’iniziativa non sia presa dai poteri egemoni (“l’asse franco-tedesco”, sempre più squilibrato verso Berlino). I trattati, più semplicemente, non possono essere cambiati se non all’unanimità; basta che un paese – magari forte come la Germania o la Francia – si opponga e nulla può mutare. Di conseguenza, chi dice in campagna elettorale “andremo a Bruxelles, batteremo i pugni sul tavolo, cambieremo i trattati” sta vendendo fumo.
Non a caso lo dicono tutti, ma proprio tutti, gli “schieramenti” che si presentano alle elezioni. L’eccezione è rappresentata dalla sola Emma Bonino e i suoi quattro pretendenti a un seggio (+Europa).
L’Unione Europea è il tema centrale della campagna elettorale perché è il potere che governa l’Europa, mentre i governi nazionali – specie quelli dei paesi deboli o indebitati come l’Italia – possono fare scelte minime entro binari molto rigidi.
Per questo ha fatto benissimo Potere al Popolo a mettere come punto di programma la rottura dell’Unione Europea dei trattati. Non si tratta infatti di uno slogan ideologico, ma della banale concretezza dei fatti: se la riforma non è possibile, non ci sono altre soluzioni che la rottura. E’ difficile, stanti gli attuali rapporti di forza? Certamente. E siamo in campo per cambiarli. Proprio per poterli cambiare è allora necessario indicare con molta chiarezza, senza giri di parole, l’obiettivo verso cui è necessario camminare. Ricordando – per chi ha paura delle parole – che l’“Unione Europea” non è l’Europa (un continente e una cultura millenaria), ma una costruzione semi-statale fatta di trattati costitutivi e strumenti di coercizione (soprattutto economico-finanziari).
Abbiamo scritto più volte che la sfida più importante che sta affrontando Potere al Popolo è impedire che il morto afferri il vivo. E nel “morto”, lo diciamo da sempre, c’è l’illusione che un governo un po’ meno complice o arrendevole di quelli visti fin qui possa ottenere, nell’Unione Europea, risultati molto diversi.
Saremo monotoni, ma – in proposito – consigliamo spesso di rileggere la fulminante testimonianza di Yanis Varoufakis, che per sei mesi scarsi ha avuto modo di conoscere dall’interno il funzionamento dell’Eurogruppo, a contatto con Wolfgang Schaeuble. Uno che, insomma, a “riformare” i trattati ci ha pure provato. Uscendone sconfitto e sconfessato dall’ex “compagno Tsipras”.
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Il Paese davanti alle sfide europee
driana Cerretelli - da IlSole24Ore
Soprattutto quando l’esito della partita si annuncia molto incerto, le campagne elettorali vivono la folle kermesse delle più varie e acrobatiche promesse, poi quasi sempre disattese. In Italia però questa volta confusione, contraddizioni, spregiudicatezza e scarso realismo su euro, tasse, pensioni e spese varie da parte di troppi candidati protagonisti hanno sconcertato e allarmato l’Europa. Se ieri il socialista francese Pierre Moscovici, il commissario Ue agli Affari economici che distribuisce le pagelle di stabilità più o meno flessibile ai Paesi del club, ha suonato l’allarme parlando di “rischio politico” per l’Unione, non è stato per indebita intrusione nella mischia nostrana ma per legittima preoccupazione di salvaguardare la stabilità dentro le mura della casa europea che è sostenuta anche da muri italiani.
Naturalmente nessuno può impedire a nessuno di sognare nuove praterie verdi né di promettere licenze di deficit, debito e spesa fuori dai criteri di Maastricht, patto di stabilità e fiscal compact. Inevitabilmente però deve anche incassare i timori dei partner seduti sulla sua stessa barca. E deve anche spiegare ai cittadini-elettori-contribuenti rischi e prezzo da pagare se, in piena libertà, faranno una scelta dirompente. I rischi che l’Italia potrebbe correre sono molteplici. Non sono solo quelli ovvi di instabilità economica e finanziaria e relativi attacchi speculativi con un debito al 133% del Pil che si stabilizza ma non cala, con la politica monetaria accomodante della Bce prossima a una graduale ritirata, la prospettiva del rialzo dei tassi di interesse e di un più problematico collocamento dei Titoli del Tesoro, con un sistema bancario che migliora un po’ ma resta fragile, con la crescita che riparte ma resta la più modesta in un’eurozona effervescente.
I rischi ancora più insidiosi sono politici: nascerebbero dalla sempre più profonda divaricazione dell’Italia, terza economia dell’euro, dal resto del convoglio, dalla lenta deriva verso un auto-isolamento di fatto, in mancanza di sponde europee.
Il decennio della grande crisi finanziaria e recessiva, dell’euro-rigore anche scriteriato è alle spalle. Per la prima volta tutti i Paesi euro crescono. Quelli della fascia Sud, a suo tempo commissariati in cambio degli aiuti europei, sono oggi tra i più dinamici. Non c’è solo la clamorosa success-story del Portogallo. Tutti sono in forte ripresa: Spagna (pur malata della questione catalana), Cipro e Grecia. L’Irlanda ha ritrovato il suo miracolo tanto da aspirare oggi alla presidenza della Bce nel 2019, quando scadrà Mario Draghi.
La Francia corre e per la prima volta in 10 anni vede il deficit sotto il 3%: dimostra così a Berlino la credibilità dell’impegno del presidente Emmanuel Macron di rispettare le regole di bilancio Ue, premessa indispensabile per un accordo con il cancelliere tedesco su un’ambiziosa riforma dell’eurozona. E per non perdere troppo il passo con la Germania, tornata indiscussa locomotiva dell’area, con produzione industriale, export e surplus commerciale alle stelle, mentre l’attivo del bilancio pubblico è una costante ormai da tre anni.
Le crescenti virtù degli altri mettono l’Italia sotto pressione: perché in un’unione monetaria le divergenze economiche alla lunga sono insostenibili e perché oggi si incrociano con il dinamismo altrui che ne favorisce la convergenza e quindi la coesione anche politica.
Se alla fine Angela Merkel riuscirà a fare un nuovo Governo di grande coalizione con i socialdemocratici su un programma mirato anche alla rifondazione dell’Unione, l’intesa franco-tedesca diventerà il traino dell’avventura. Che si vuole però selettiva, tarata sul modello multi-speed: integrazioni più avanzate con chi ci sta ma ha anche le carte in regola. Naturalmente né l’Europa dei 27 né l’eurozona dei 19 condividono le stesse ambizioni. Qualsiasi riforma, anche a Trattati costanti, sarà dunque frutto di un travaglio difficile.
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L’effetto opposto
Se è vero che delle specie animali quella umana è l’unica che non impara mai nulla dai propri errori, verissimo è che tra i diversi tipi della specie umana svetta per perseveranza la sottospecie dei tecnocrati europei
Andrea Cangini da Il Giorno
Se è vero che delle specie animali quella umana è l’unica che non impara mai nulla dai propri errori, verissimo è che tra i diversi tipi della specie umana svetta per perseveranza la sottospecie dei tecnocrati europei. E più in generale l’establishment globale. L’abbiamo visto con Donald Trump negli Stati Uniti, con Brexit nel Regno Unito, con Mateusz Morawiecki in Polonia, con Heinz Christian Strache in Austria… C’è persino mancato poco che, a furia di dipingerla come il diavolo, una come Marine Le Pen diventasse presidente della Repubblica francese. No, con tutta evidenza la demonizzazione non paga. Anzi, secondo l’antica regola dell’eterogenesi dei fini, tende a produrre effetti opposti a quelli auspicati. E si capisce. Il sentimento di ostilità nei confronti delle istituzioni europee non è frutto di un pregiudizio, ma è figlio dell’esperienza storica. Non c’è stata crisi politica, economica o sociale che abbia visto la cosiddetta Europa accreditarsi come possibile soluzione. A
A torto o a ragione, la percezione è stata opposta: se le cose vanno di male in peggio è colpa dell’Europa. Non è del tutto vero, non è del tutto falso. Ma è questo, ormai, il sentimento diffuso. Poi, certo. l’esperienza storica ci ha anche insegnato che chi promette la rivoluzione di regola bluffa, o quantomeno si illude. L’abbiamo visto con Tsipras in Grecia, con Hollande in Francia, con Farage nel Regno Unito, con Puigdemont in Catalogna… I cambiamenti politici richiedono tempi lunghi e, nell’era della globalizzazione, vaste alleanze internazionali. Chiaro è che i Salvini e i Di Maio ci marciano. Chiarissimo è che se mai avessero qualche chance di diventare maggioranza nel Paese ciò potrebbe avvenire solo grazie agli strali politicamente corretti levati dai tecnocrati europei come è accaduto ieri.
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