La morte di David Zard non dirà nulla ai giovani di oggi, ma alla generazione degli anni ’70 ed a quella che – in quel particolare ciclo della vicenda politica italiana – si appassionava al grande risveglio artistico e musicale il nome di questo “organizzatore di spettacoli e concerti” fa tornare alla mente come anche attorno a quella interessante fenomenologia sociale si svilupparono grandi scontri e non solo di natura “dialettica”.
Appena pochi decenni fa – quando la fruizione musicale e video era sostanzialmente relegata al vinile ed ai concerti – l’industria del comparto ruotava essenzialmente attorno ai grandi happening, alle stagioni dei concerti e ai cosiddetti festival (...non solo quello di Sanremo!)
David Zard, che era cresciuto attorno ai movimenti di lotta, seppe cogliere le novità che si palesavano sulla scena artistica di quegli anni. Zard, in particolare, seppe promuovere e diffondere gli stili, le sonorità e gli artisti del circuito anglosassone e su questa “intuizione” costruì un impero economico che per circa un decennio monopolizzò l’intero circuito musicale italiano.
Specie nel campo del rock – e nelle sue variegate declinazioni pop – Zard portò in Italia le stelle di quel tempo (da Lou Red a Santana, da Dylan ai Genesis, ai Traffic... per limitarci ai nomi ancora oggi noti) e realizzò concerti ed affari considerevoli con cifre che in quel tempo apparivano stratosferiche.
David Zard, però, assieme al suo baraccone affaristico, dovette scontarsi duramente con il protagonismo giovanile di quegli anni, con la legittima critica alla mercificazione/commercializzazione delle produzioni artistiche e con la sacrosanta rabbia di una generazione che non voleva pagare biglietti e costi che – sacrosantamente – erano ritenuti esosi ed apertamente speculativi.
Non solo le organizzazioni comuniste dell’epoca (si distinse in questa opera di critica feroce al fenomeno il quotidiano Lotta Continua, organo dell’omonima organizzazione) ma anche aggregati di tipo più “culturale e settoriale” (dalla rivista Re Nudo al circuito di Stampa Alternativa, fino ai Circoli Ottobre che erano una sorta di “commissioni artistiche della sinistra rivoluzionaria”) puntualmente davano vita ad articolate campagne di demistificazione di questi soggetti che si arricchivano con la musica e lo spettacolo ed organizzavano lo “sfondamento” ai concerti. Per essere chiari si sfondavano i cordoni di polizia, quelli della “sicurezza privata” dello stesso David Zard e si entrava nei palazzetti dello sport, nei tendoni e nei teatri senza pagare.
Memorabili furono gli scontri agli inizi degli anni ’70 al Vigorelli di Milano in occasione della prima venuta in Italia dei Led Zeppelin, ma anche le ore di guerriglia al concerto di Lou Red al Palasport dell’Eur a Roma o – quando già però iniziavano a tramontare il decennio dei “settanta” – le molotov sul palco di Carlos Santana, a Milano.
Questa pratica, però, non fu segnata solo dalle grandi esplosioni di rabbia, ma anche da centinaia di piccoli e medi episodi di contestazione che, in quasi tutte le città italiane, si producevano contro il business dello spettacolo. Non solo scontri con la polizia, ma anche “trattative” con gli organizzatori per “prezzi politici” e calmierati ai concerti, autoriduzioni dei prezzi, interruzioni degli spettacoli per leggere comunicati di protesta a proposito delle varie questioni sociali in corso.
Insomma un vero e proprio fermento culturale e partecipativo cresciuto intorno alla non supina accettazione di pagare la fruizione della musica e delle arti in generale; un protagonismo che contestava forme, metodologie di diffusione, costi e – spesso – anche i contenuti ed i messaggi artistici che venivano espressi. Da questo punto di vista il “processo proletario” a Francesco De Gregori, durante un suo spettacolo, rappresentò, seppur tra infinite contraddizione e qualche aspetto ridicolo, le potenzialità e i limiti di una stagione particolare del conflitto che iniziava a volgere verso il suo epilogo.
Zard fu il simbolo ed il catalizzatore contro cui si diressero queste proteste.
E fu giusto contestarlo, perché il suo operato non incarnava solo una operazione di arricchimento selvaggio; l’operato di questo “organizzatore di eventi” fu – soprattutto – una gigantesca operazione di normalizzazione di una bella stagione politica e sociale e di sussunzione – nei circuiti di valorizzazione e di comunicazione deviante del capitale – di un enorme patrimonio di creatività di sperimentazione e di ricerca innovativa che proveniva dalle visceri in fermento della società e che, se lasciate libere di esprimersi, avrebbero potuto continuare ad arricchire la materia sociale antisistema.
Certo la figura di David Zard – se paragonata ai Murdoch, alle star attuali e mondializzate della produzione informativa internazionale, ai creatori di Facebook e dell’universo dei social e dei loro invasivi metodi di penetrazione nella società – potrebbe oggi apparire come quella di un “provinciale organizzatore di feste di piazza”.
Ma, quarant’anni fa, questi profili personali ed il loro modus operandi hanno posto le basi per quella controffensiva del capitale che, su larga scala, ha imposto quegli elementi di regressione e di stagnazione artistica e musicale in cui siamo, tutt’ora, immersi.
Non è un caso che gli omaggi alla figura di David Zard siano oggi arrivati da quelle forze editoriali e culturali che sono l’architrave ideologica e pratica su cui si regge l’attuale caravanserraglio della “produzione di senso e di valore artistico”; quelle che oggi – oggettivamente e soggettivamente – sono parte delle moderne e sofisticate forme del dominio e di alienazione.
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