Si è conclusa ufficialmente la crisi diplomatica tra Israele e
Giordania scoppiata lo scorso luglio quando una guardia di sicurezza
dell’ambasciata israeliana uccise due giordani. Il ministro
degli esteri israeliano ha infatti annunciato ieri sui social network
che l’ambasciatore Amir Weissbroad è arrivato ad Amman per iniziare la
sua missione diplomatica. Weissbrod, che aveva precedentemente lavorato nell’ambasciata israeliana tra il 2001 e il 2004, sostituisce Einat Schlein che fu costretto a lasciare la Giordania quando scoppiò la crisi politica tra i due paesi.
Su quanto è accaduto lo scorso luglio nel complesso residenziale dell’ambasciata israeliana esistono ancora due versioni differenti. Secondo una indagine giordana, le uccisioni sono nate in seguito a un litigio scoppiato tra Ziv Moyal, la guardia israeliana, e il carpentiere 17enne Mohammed al-Jawawdeh.
La tensione tra i due avrebbe portato al-Jawawdeh ad aggredire con un
cacciavite Moyal che avrebbe però risposto sparandogli. Nell’incidente
sarebbe però rimasto ucciso dagli spari della guardia anche un altro
giordano di nome Bashar Hamama.
Secondo invece l’intelligence interna israeliana (Shin Bet), Moyal
sarebbe stata aggredito da al-Jawawdeh una volta che quest’ultimo aveva
scoperto che era di nazionalità israeliana. Si sarebbe pertanto trattato
di un “attacco terrorista”: Moyal avrebbe agito solo per difendersi.
La crisi diplomatica tra Giordania e Israele ebbe particolare
rilevanza nove mesi fa anche perché avveniva durante le proteste
palestinesi per la Spianata delle Moschee di Gerusalemme, terzo
luogo sacro per l’Islam e sotto la custodia giordana. La rabbia
palestinese montò allora quando le autorità dello stato ebraico decisero
di montare alcuni metal detector all’entrata del sito religioso in
seguito all’uccisione di due poliziotti israeliani da parte di 3
palestinesi cittadini d’Israele a metà luglio. Per i palestinesi
l’istallazione dei metal detector fu letta come il primo passo da parte
d’Israele per prendersi il pieno controllo del sito.
Le uccisioni dei due giordani provocarono per giorni proteste di
piazza in Giordania nonché un duro scontro diplomatico tra Amman e Tel
Aviv: la prima, infatti, insisteva a processare Moyal in un tribunale
giordano. Ipotesi, però, mai presa in considerazione da parte
israeliana: la guardia e lo staff dell’ambasciata dello stato ebraico
erano già stati rimandati a casa in Israele il giorno successivo alle
uccisioni. La crisi dell’ambasciata si legò sempre di più a quella di al-Aqsa:
alla fine le forze armate israeliane rimossero i metal detector in
quello che per molti è stato letto come un accordo tra Giordania e
Israele per porre termine alla disputa diplomatica (Tel Aviv nega però
qualunque intesa).
L’accordo, o presunto tale, calmò le acque, ma, almeno pubblicamente, non pose fine agli attriti tra i due stati:
a novembre le autorità giordane dichiararono che l’ambasciata
israeliana ad Amman non sarebbe stata riaperta finché Moyal non fosse
processato da un tribunale giordano. A gennaio, poi, l’ufficiale avvicinamento:
Israele offriva scuse pubbliche alla Giordania per le uccisioni dei due
suoi cittadini nell’ambasciata, ma anche di un giudice giordano
assassinato dai soldati israeliani nel 2014. Tel Aviv, inoltre, si
impegnava a compensare le famiglie delle vittime. Promesse semplici, ma
sufficienti per essere accolte subito da Amman. L’arrivo del nuovo
ambasciatore israeliano ha chiuso ormai definitivamente la crisi
diplomatica, in realtà più gridata che effettiva.
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