“Gli immigrati ci portano via il lavoro”... Questa stronzata viene ripetuta nelle interviste a caso prese per strada, nel più sperduto paesino italiano (persino a San Ferdinando, in Calabria, dove solo dopo l’uccisione di Sacko Soumaila qualche “itagliano” ha scoperto di poter andare a raccogliere pomodori per 2,5 euro l’ora) come nelle periferie metropolitane degli Stati Uniti.
I decerebrati dalla televisione e dalla propaganda nazionalista nemmeno si accorgono – non glielo dice nessuno! – che la prima causa di disoccupazione sta diventando l’automazione. Se la prendono insomma con “gli africani” (da qualsiasi continente provengano) o con i chicanos, mentre un robot li sostituisce in poche ore.
Al fondo dell’“argomentazione” – si fa per dire – salvinian-trumpiana c’è un’idea del sistema economico come un cortile di galera: ci stanno tot posti, non uno di più, se arriva qualcun altro gli altri si devono stringere o esser fatti fuori. I dati – anche quelli statunitensi – dicono invece che “più immigrati” uguale aumento del Pil. E gli americani dovrebbero saperlo meglio di tutti, visto che su(llo sfruttamento de)ll’immigrazione hanno fondato il loro modello di vita e di successo.
Chiaro che se uno Stato non ritiene suo compito quello di promuovere l’occupazione, né degli “indigeni” né a maggior ragione dei nuovi arrivati, allora effettivamente si crea un corto circuito negativo, invece che positivo. La maggiore quantità di manodopera disponibile ha come unico effetto quello di abbassare il salario medio.
Ma è lo stesso ruolo che, su questo fronte, gioca l’automazione. Un robot sostituisce lavoratori in carne e ossa. Se l’economia non accelera nella stessa misura in cui il lavoro viene sostituito – o intorno a quella misura – ecco che l’occupazione svanisce, il salario di chi continua ad avere un lavoro cala, ecc.
Gli Stati Uniti hanno una lunga tradizione di Stato estraneo alla creazione di lavoro – perlomeno dalla fine della stagione keynesiana – mentre l’Italia è quasi una new entry in questa immonda categoria. Del resto, l’Unione Europea vieta qualsiasi “aiuto di Stato”, ossia qualsiasi intervento attivo del “pubblico” nelle attività produttive, e i governi degli ultimi 30 anni – tutti – si sono adeguati alla grande.
Quindi da entrambe le sponde dell’Atlantico si assiste senza muovere un dito alla più gigantesca eliminazione di forza lavoro umana che si sia mai vista nella Storia. Con il bel risultato che i sostituiti o sostituendi, non potendo scomparire altrettanto velocemente – non ci sono più quelle “belle guerre di trincea” in cui gli uomini morivano a milioni – non sapendo con chi prendersela se la prendono con il primo che passa. Spesso proprio quello che viene indicato da mestatori senza scrupoli, criminali politici, reazionari con più o meno fiuto.
Ma quanto pesa la robotizzazione delle attività economiche? Dati scientifici ce ne sono ancora pochi, ma di certo l’industria automobilistica è uno dei luoghi dove questo processo è andato avanti fino a creare interi segmenti di produzione senza alcun intervento umano (giusto quello degli ingegneri informatici addetti al controllo dei programmi e qualche squadra di manutentori-riparatori quando l’hardware subisce un intoppo). Re-internalizzare queste industrie, come vorrebbe fare Trump, crea dunque ben poco occupazione rispetto ai 100 milioni di disoccupati cronici che affollano le periferie statunitensi.
Tanto più se, nel frattempo, l’automazione va conquistando comparti prima totalmente gestiti da personale umano: bar, ristoranti, alberghi.
Uno dei redattori economici di punta del Corriere della Sera si è occupato, per esempio, della robotizzazione dei bar di Las Vegas. Uno che non conosce quella realtà potrebbe immaginare qualche decina di robot che sostituiscono qualche centinaio di persone. Nulla di troppo drammatico, insomma...
E invece persino l’ultraliberista Massimo Gaggi è costretto a sorprendersi davanti all’eliminazione in un colpo solo di ben 50.000 posti di lavoro. Un capoluogo di provincia, nella dimensione italiana.
Gaggi, da neoliberista convinto, se ne occupa parlando – male, ovviamente – dello sciopero ad oltranza indetto da Bethany Kahn, la donna al comando della Culinary Union, il sindacato dei dipendenti dei casinò, in rivolta contro “l’innovazione” creata da un’azienda italiana (un tocco di nazionalismo non guasta).
L’ultimo sciopero ad oltranza risale a 34 anni fa, per dire di quanto una pratica del genere sia estranea al normale corso dei rapporti di lavoro negli Usa (in Italia è praticamente vietata, ormai, grazie agli interventi legislativi messi in campo dai governi berlusconiani e piddini). E Gaggi ci informa che, in realtà, l’automazione inarrestabile in mille campi di attività economica ha “ridato vita a rappresentanze sindacali che erano considerate in via d’estinzione”.
Ecco, proprio di questo bisognerebbe parlare. La triste fine dei sindacati concertativi, CgilCislUil, è un dato di fatto, anche se la Cgil medita di rinviare il decesso affidando – probabilmente – la segreteria generale all’ex barricadiero leader della Fiom, Maurizio Landini.
La dimensione dei processi di automazione è tale – negli Usa – da rendere molto più difficile l’innesco di una “guerra tra poveri”, perché chi ti sostituisce è un pezzo di ferraglia. E quindi l’autodifesa scatta immediatamente nei confronti dell’impresa (che i robot li compra). Dove invece i processi di produzione sono più arretrati, come in molti settori dell’economia italiana, c’è ancora il margine – per le carogne – per indicare nell’“uomo nero” il responsabile della tua disoccupazione, del tuo salario da fame, dei tuoi contratti precari.
La risposta è nel conflitto sociale e politico contro imprese e governo, naturalmente. Ci vediamo in piazza il 16, a Roma.
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