La crisi dell’attuale assetto dell’Unione Europea è un fatto. Un sistema di trattati che ha messo al centro le priorità dei «mercati», programmaticamente teso a demolire il «modello sociale europeo» e i diritti sociali in nome della crescita economica, si va incagliando sui problemi posti dall’esistenza degli esseri umani, della loro libertà o meno di circolare e vivere.
La scena verificatasi ieri al consiglio degli Affari interni in corso a Lussemburgo, dove si è discusso della «riforma» del regolamento chiamato Dublino III, ha visto contrapporsi più schieramenti e allontanarsi la stessa possibilità di un accordo.
Gli accordi di Dublino, siglati per la prima volta nel 1990, definiscono le regole per l’accoglienza dei flussi migratori per tutti i paesi aderenti all’Unione Europea, e sono cambiati già due volte (2003 e 2013-4) sotto la pressione di flussi che sono andati crescendo come conseguenza di crisi economica globale, carestie, guerre scatenate in primo luogo dall’Occidente capitalista.
Le regole attuali affidano al paese di «prima accoglienza» il compito di identificare i richiedenti asilo (perseguitati per ragioni politiche o perché in fuga dalla guerra), distinguendoli dai «migranti economici», per un periodo che può arrivare anche a dieci anni. Italia, Grecia e Spagna sono i principali punti di approdo di profughi e migranti proveniente da Africa e Medio Oriente, dunque da tempo chiedevano una «riforma» che diminuisse questo periodo e criteri di redistribuzione obbligatori per tutti i paesi Ue.
La presidenza di turno, bulgara, ha avanzato una proposta di mediazione che cercava di mettere insieme interessi contrapposti (riduzione dei tempi di accoglienza e rifiuto totale di accettare anche un solo migrante sul proprio territorio). Naturalmente è stata affondata quasi all’unanimità.
Sette paesi (Italia, Spagna, Austria, Romania, Ungheria, Slovenia e Slovacchia) hanno formalmente bocciato la proposta. In tre (Estonia, Polonia, Regno Unito) si sono astenuti. I restanti 18 hanno avuto da obiettare su singoli aspetti della proposta (tra questi Grecia, Malta e Cipro, direttamente interessati come «paesi di primo ingresso»). Ma anche tra i «dialoganti» non mancano i contrari, a cominciare dall’onnipotente Germania che è riuscita a dividersi tra una Angela Merkel che ha chiesto più tempo per riflettere e un segretario di Stato – Stephan Mayer – che ha invece brutalmente chiuso la porta: “com’è attualmente non la accettiamo”.
Ma anche il fronte dei contrari è diviso in base agli interessi. Italia e Spagna vorrebbe che il periodo di accoglienza fosse ridotto a due anni (la mediazione bulgara parlava di otto anni) e che la redistribuzione fosse automatica; il gruppo di Visegrad, guidato all’Ungheria, non accetta invece nessuna redistribuzione. Se si stesse all’aspetto politico-formale, insomma, Salvini avrebbe fatto un clamoroso autogol, perché se il regolamento resta quello del 2013 l’Italia sarebbe costretta a restare nella condizione attuale.
I razzisti dei diversi paesi, però, trovano il punto di sintonia nel proposito di rimuovere militarmente il problema, chiedendo maggiore libertà in materia di «respingimenti», fin qui limitati dalle regole generali dell’Onu sui diritti umani, pacificamente recepite nella normativa europea.
La novità sta ora nel fatto che trovano ascolto e «comprensione» anche in ambiti prima impensabili, ai piani alti dell’establishment continentale. Il segretario di Stato belga responsabile delle Migrazioni, Theo Francken si è sbrigato a concludere che “La riforma del regolamento di Dublino è morta”. Secondo lui si va verso “un ribaltamento totale dell’approccio” e ne è felice: «Penso che sia positivo se l’Italia inizia a rifiutare i migranti sulle proprie coste, e non li lascia più entrare in Sicilia». Quanto ai respingimenti in mare “Dal 2012 non possiamo più farli, e finché è così, la situazione continuerà ad essere caotica. Dobbiamo rimandarli indietro. Quindi dobbiamo cercare di aggirare l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. La giurisdizione dovrà seguire questa linea, perché altrimenti non ci sarà più la Corte europea”.
Il concetto chiave è «aggirare la Convenzione europea sui diritti umani», imponendo alla Corte una radicale revisione dei suoi criteri giuridici; pena l’abolizione. Con questo passaggio, se dovesse diventare la nuova regola continentale, l’Unione Europea farebbe tranquillamente a meno del valore che sbandiera nel mondo come prova di «superiorità morale» anche a fini di «ingerenza umanitaria»: il rispetto e la difesa dei diritti umani.
Un cambio di cultura generale che avviene con un tratto di penna, per motivi contingenti (l’impossibilità di trovare una quadra all’interno dei paesi aderenti), senza alcuna discussione «epocale» sui fondamenti della società europea.
Se si fosse trattato di un contrasto economico-commerciale, non c’è dubbio che la Germania avrebbe fatto valere il proprio peso, concertando con la Francia il pacchetto da far approvare. Ai riottosi sarebbe bastato ricordare la brutale realtà delle filiere produttive nazionali, dipendenti dalle commesse tedesche.
Ma su un «problema umanitario» come quello dei migranti questo tipo di ricatto – o di «proposta che non si può rifiutare» – non scatta. Non è conveniente neppure per la Germania (non ci guadagna nulla, anzi rischia di aumentare i propri problemi politici interni).
E’ la riprova che l’Unione Europea non esiste per migliorare la vita all’interno dello spazio rientrante nella sua giurisdizione, ma solo per affermare la libertà d’azione delle imprese (multinazionali, finanziarie, ecc). La sorte degli esseri umani – immigrati o «indigeni», non fa differenza – non è di sua competenza.
Il minimo che si possa pretendere è l’abolizione del «regolamento di Dublino», non la sua «riforma». Perché sta per diventare un dispositivo che autorizza la strage degli innocenti. I «respingimenti» in mare aperto non sono qualificabili altrimenti.
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