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08/06/2018

La sanità privata si fa strada aizzando la guerra tra poveri

La salute è una preoccupazione, e ogni problema relativo ti fa aprire il portafoglio con molta più velocità che qualsiasi altra cosa. E’ una constatazione banale, ma la distorsione culturale imposta da anni di pensiero unico neoliberale riesce a pervertire anche la percezione collettiva di un bisogno vitale (se non ti curi muori, o muori prima). Ossia di qualcosa che dovrebbe essere chiara a chiunque, ma non lo è più.

Il Rapporto Censis-Rbm sulla spesa sanitaria pubblica e privata conferma appieno alcune impressioni che tutti noi potevamo aver avuto, ma presenta anche una curiosa – ma utilissima – lettura politica di massa del perché le cose vadano così male.

Partiamo dai dati, com’è giusto. “La spesa sanitaria privata degli italiani arriverà a fine anno al valore record di 40 miliardi di euro (era di 37,3 miliardi lo scorso anno). Nel periodo 2013-2017 è aumentata del 9,6% in termini reali, molto più dei consumi complessivi (+5,3%). Nell’ultimo anno sono stati 44 milioni gli italiani che hanno speso soldi di tasca propria per pagare prestazioni sanitarie per intero o in parte con il ticket.” La prima conclusione è ovvia: se si spende per le cure ad un ritmo di crescita superiore (quasi il doppio) rispetto ai consumi normali (sia essenziali che voluttuari) probabilmente è perché la sanità pubblica fornisce sempre meno prestazioni, con tempistiche sempre più dilatate (liste d’attesa, ecc.), a una popolazione che nel frattempo invecchia, e quindi si presenta con più frequenza dal medico e in farmacia.

Vero è che quei 40 miliardi di spesa sanitaria privata contengono un po’ di tutto (dalle operazioni fatte in proprio ai ticket per farmaci e analisi), ma comunque sono un segnale difficile da minimizzare. Tanto più se “La spesa sanitaria privata pesa di più sui budget delle famiglie più deboli. Nel periodo 2014-2016 i consumi delle famiglie operaie sono rimasti fermi (+0,1%), ma le spese sanitarie private sono aumentate del 6,4% (in media 86 euro in più nell’ultimo anno per famiglia). Per gli imprenditori c’è stato invece un forte incremento dei consumi (+6%) e una crescita inferiore della spesa sanitaria privata (+4,5%: in media 80 euro in più nell’ultimo anno). Per gli operai l’intera tredicesima se ne va per pagare cure sanitarie familiari: quasi 1.100 euro all’anno. Per 7 famiglie a basso reddito su 10 la spesa privata per la salute incide pesantemente sulle risorse familiari.”

Qui la “questione di classe” salta agli occhi. I consumi operai – in senso lato – sono rimasti al chiodo in termini assoluti, anche perché il loro salario non è affatto aumentato (dunque è diminuito tenendo conto dell’inflazione, fortunatamente bassa); ma ciò nonostante la spesa sanitaria è cresciuta molto più dell’inflazione.

Andando a guardare più in dettaglio, il quadro si fa drammatico quando le cure di cui si necessita sono urgenti, al punto di non poter attendere i tempi delle liste d’attesa.

Nell’ultimo anno, per pagare le spese per la salute 7 milioni di italiani si sono indebitati e 2,8 milioni hanno dovuto usare il ricavato della vendita di una casa o svincolare risparmi. Solo il 41% degli italiani copre le spese sanitarie esclusivamente con il proprio reddito: il 23,3% deve integrarlo attingendo ai risparmi, mentre il 35,6% deve usare i risparmi o fare debiti (in questo caso la percentuale sale al 41% tra le famiglie a basso reddito). Il 47% degli italiani taglia le altre spese per pagarsi la sanità (e la quota sale al 51% tra le famiglie meno abbienti). In sintesi: meno guadagni, più devi trovare soldi aggiuntivi al reddito per pagare la sanità di cui hai bisogno.

Un crescendo di impegni finanziari obbligati – l’alternativa è attendere che la malattia faccia il suo corso, spesso mortale – che può essere ancora più dettagliato:

«Sono 150 milioni le prestazioni sanitarie pagate di tasca propria dagli italiani. Nella top five delle cure, 7 cittadini su 10 hanno acquistato farmaci (per una spesa complessiva di 17 miliardi di euro), 6 cittadini su 10 visite specialistiche (per 7,5 miliardi), 4 su 10 prestazioni odontoiatriche (per 8 miliardi), 5 su 10 prestazioni diagnostiche e analisi di laboratorio (per 3,8 miliardi) e 1 su 10 protesi e presidi (per quasi 1 miliardo), con un esborso medio di 655 euro per cittadino».

Sia chiaro: il Rapporto Censis-Rbm non punta a “realizzare il socialismo”, ma più sobriamente a promuovere una “seconda gamba” per il sistema sanitario, sul modello delle “pensioni integrative”: Questa situazione può essere contrastata solo restituendo una dimensione sociale alla spesa sanitaria privata attraverso una intermediazione strutturata da parte del settore assicurativo e dei fondi sanitari integrativi. Bisogna superare posizioni di retroguardia e attivare subito, come già avvenuto in tutti gli altri grandi Paesi europei, un secondo pilastro anche in sanità che renda disponibile su base universale – quindi a tutti i cittadini – le soluzioni che attualmente molte aziende riservano ai propri dipendenti.

Progetti Rbm a parte (è una società di assicurazione, in fondo), si comprende facilmente come una gestione così “profittevole” del sistema sanitario abbia fin qui creato rabbia, scoramento o, come da qualche tempo scrive il Censis, “rancore”. Ed è qui che l’intreccio tra disagio sociale e culture politiche superficiali crea cortocircuiti in altri tempi impensabili:

Il 37,8% degli italiani prova rabbia verso il Servizio sanitario a causa delle liste d’attesa troppo lunghe o i casi di malasanità. Il 26,8% è critico perché, oltre alle tasse, bisogna pagare di tasca propria troppe prestazioni e perché le strutture non sempre funzionano come dovrebbero. Il 17,3% prova invece un senso di protezione e di fronte al rischio di ammalarsi pensa: «meno male che il Servizio sanitario esiste». L’11,3% prova un sentimento di orgoglio, perché la sanità italiana è tra le migliori al mondo. I più arrabbiati verso il Servizio sanitario sono le persone con redditi bassi (43,3%) e i residenti al Sud (45,5%). Ma per un miglioramento della sanità il 63% degli italiani non si attende nulla dalla politica. Per il 47% i politici hanno fatto troppe promesse e lanciato poche idee valide, per il 24,5% non hanno più le competenze e le capacità di un tempo.

Ci sono insomma tutti gli elementi per cui la “rabbia” potrebbe prendere la forma dell’”odio di classe” – per dirla con Edoardo Sanguineti – ma ciò non avviene. Il “rancore” resta incosciente, incapace di individuare i responsabili veri di questa situazione (l’avanzare del capitale privato nel business della salute, grazie a tagli della spesa pubblica decisi di concerto tra Unione Europea e governi nazionali). E dunque accetta per buoni gli slogan più idioti prodotti dalla politica peggiore:

«Ognuno si curi a casa propria». È questa una delle reazioni alla sanità percepita come ingiusta, il sintomo del rancore di chi vuole escludere e punire gli altri per non vedersi sottrarre risorse pubbliche per sé e i propri familiari. Sono 13 milioni gli italiani che dicono stop alla mobilità sanitaria fuori regione. E in 21 milioni ritengono giusto penalizzare con tasse aggiuntive o limitazioni nell’accesso alle cure del Servizio sanitario le persone che compromettono la propria salute a causa di stili di vita nocivi, come i fumatori, gli alcolisti, i tossicodipendenti e gli obesi.

L’inversione della responsabilità balza agli occhi. La “colpa” è del vicino (il meridionale, il vizioso, gli immigrati, ecc.), non di chi comanda. Invece dell’odio di classe – i poveri contro i ricchi – si accetta di essere spinti nella “guerra tra poveri”, da cui comunque non potrà venire alcun giovamento, neppure nel caso – altamente improbabile – di “vittoria”. Quando pure venissero escluse dalla cure pubbliche una serie di categorie “colpevoli” (attendiamo con pazienza che la lista comprenda anche “i vecchi”), in ogni caso i tagli alla spesa sanitaria ristabilirebbero in poco tempo la situazione attuale.

Sul piano politico questa ottusità indotta è addirittura solare:

Più rancorosi verso il Servizio sanitario sono gli elettori del Movimento 5 Stelle (41,1%) e della Lega (39,2%), meno quelli di Forza Italia (32,9%) e Pd (30%). Ma gli elettori di 5 Stelle (47,1%) e Lega (44,7%) sono anche i più fiduciosi nella politica del cambiamento, rispetto a quelli di Forza Italia (31,4%) e del Pd (31%). La sanità ha giocato molto nel risultato elettorale (per l’81% dei cittadini è una questione decisiva nella scelta del partito per cui votare) e sarà il cantiere in cui gli italiani metteranno alla prova il passaggio dall’alleanza del rancore al governo del cambiamento.

In questo mondo rovesciato fin nei fondamentali, quelli che più hanno da perdere si identificano politicamente in quelli che toglieranno loro anche quel poco che è rimasto, nella convinzione che verranno colpiti “gli altri”.

Non ci vuole molto per vedere come queste “ideologie colpevolizzanti” siano prodotte in appositi think tank e poi fatte assorbire in anni di continue, pressanti, sgangherate, campagne mediatiche. Lega e Cinque Stelle passano all’incasso; imprevedibilmente, almeno per chi aveva promosso quelle campagne, ma come conseguenza piuttosto logica. A forza di indicare “il pubblico” come il luogo dello spreco e del malaffare, il capitale multinazionale neoliberista – grazie ai governi di Grosse Koalition che cancellavano praticamente la distinzione tra destra e sinistra parlamentare – ha aperto la strada al piccolo capitale in crisi, nazionalistico per limitatezza degli orizzonti e della capacità di competere globalmente, gretto e reazionario come un rettile in pericolo, ma più vicino – nella vita quotidiana – al “senso comune della gente”.

Non è la prima volta che accade. Sta a noi far sì che non accada di nuovo. Ragionando e lottando, senza farsi ingannare dai lamenti della “vecchia sinistra liberista” che in queste ore rispolvera il vocabolario antifascista.

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