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06/06/2018

Siria - Manbij in mano turca

di Chiara Cruciati – il Manifesto

A due anni dalla liberazione di Manbij, dalle sigarette accese per festeggiare la libertà, i burqa neri dati alle fiamme, gli abbracci ai combattenti delle Ypg e le Ypj, Turchia e Stati Uniti decidono a tavolino il destino della città siriana.

Lunedì il ministro degli Esteri turco Cavusoglu e il segretario di Stato Usa Pompeo hanno raggiunto l’accordo definitivo su Manbij. Che si basa su un punto solo: la rimozione delle Forze Democratiche Siriane (la federazione multietnica e multiconfessionale che nell’agosto 2016 l’ha liberata) e la loro sostituzione con forze militari turche e statunitensi.

Si compie così l’ennesimo passo di Ankara verso l’agognata zona cuscinetto, pensiero fisso del presidente Erdogan dallo scoppio della guerra siriana: un corridoio che corrisponde alla regione a maggioranza curda di Rojava, lungo il confine tra Siria e Turchia, da usare come avamposto, «magazzino» di rifugiati, focolaio di islamisti. Da Afrin, cantone occupato a marzo, ad Hasakah, estremo oriente siriano.

Ieri alla road map le Ypg curde hanno risposto di essersi già ritirate a novembre 2016: le unità presenti, si legge nel comunicato del comando generale, avevano già consegnato la gestione della sicurezza al Consiglio militare di Manbij, formato da locali. «Quando il Consiglio ce lo ha chiesto, un gruppo dei nostri comandanti è rimasto come consigliere. Ora il Consiglio ha raggiunto un livello tale da potersi organizzare da solo, per questo le Ypg hanno deciso di ritirarsi». Ma, aggiunge la nota, se necessario torneremo.

La questione è ovviamente politica, non militare. Perché il ritiro di Ypg e Sdf, nella visione della Turchia, non significa l’auto-gestione dei cittadini di Manbij, ma l’assunzione di controllo di una città strategica a ovest dell’Eufrate e a metà strada tra Afrin e Kobane. E che non si fermerà: Cavusoglu ha precisato che identica road map sarà applicata a Raqqa e Kobane, come Ankara fosse potere sovrano in Siria.

Il tradimento statunitense consumato ad Afrin si ripete, proprio mentre lo Stato Islamico – ragione del sostegno accordato da Washington alle Ypg/Ypj – compiva un massacro di combattenti sciiti filo-governativi al confine con l’Iraq e occupava quattro villaggi. L’attacco è stato compiuto nella provincia di Deir Ezzor, tra il capoluogo e la città di Albu Kamal, lungo l’Eufrate: 45 morti a ricordare che cellule del «califfato» sono ancora attive.

Alle Sdf, in questi giorni impegnate contro lo Stato Islamico ad al-Dashisha (provincia nord-est di Hasakah), Pompeo ha dedicato un pensiero mentre siglava l’accordo con Erdogan. Doppiogiochismo di vecchia data: alleati quando serve, sacrificabili al più presto.

In tale contesto entra a gamba tesa Amnesty International che in un rapporto pubblicato ieri accusa la coalizione a guida Usa di aver devastato la città e aver ucciso centinaia di civili. Dopo visite in loco e interviste a 112 sopravvissuti, Amnesty denuncia attacchi diretti contro i civili in violazione del diritto internazionale umanitario (ovvero crimini di guerra). Ma nel mirino dell’organizzazione non sta «solo» il massacro. Sta anche il dopo: nessuna indagine è stata mai aperta.

«Un alto ufficiale Usa – dice la consulente di Ai, Donatella Rivera – ha dichiarato che a Raqqa sono stati esplosi più colpi di artiglieria dalla fine della guerra del Vietnam (30mila, ndr). Dato che hanno un margine di errore di oltre 100 metri, non ci si deve meravigliare che il risultato sia stato un massacro di civili». Morti in trappola, mentre la città veniva rasa al suolo dalle mine Isis e dalle bombe Usa su case, edifici pubblici, infrastrutture.

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