Altra notte di tensione sulla capitale siriana: secondo la tv di
Stato due missili israeliani sono caduti vicino all’aeroporto
internazionale di Damasco. Nessun dettaglio in più è stato fornito,
mentre da Tel Aviv – come al solito – non giungono né conferme né
smentite.
La notizia è confermata anche dall’Osservatorio Siriano per i diritti
umani, controversa ong di stanza a Londra, con un solo membro dello
staff, fin dal 2011 schierata contro il governo del presidente Assad. Il
direttore, Rami Abdel Rahman, all’Afp ha parlato di “missili israeliani
contro un deposito di armi di Hezbollah vicino l’aeroporto”.
La contraerea siriana non sarebbe riuscita a intercettare i
missili, che però non hanno causato danni. Nel contesto della guerra
regionale diventa quasi un dettaglio: ormai gli attacchi israeliani
sulla Siria si svolgono con cadenza regolare, sempre più frequenti a
partire dal primo attacco statunitense contro il territorio siriano,
nell’aprile 2017 quando 57 missili Tomahawk lanciati dall’aviazione Usa colpirono la base siriana di Shayrat, lungo la costa mediterranea.
Da allora il ruolo israeliano è ulteriormente cresciuto, prendendo di
mira non più soltanto postazioni del movimento libanese Hezbollah, ma
presunti siti militari iraniani, vero obiettivo della guerra a distanza
di Israele contro l’asse sciita. Il 9 aprile scorso missili
israeliani provocarono la morte di sette soldati iraniani di stanza nel
centro della Siria, a maggio Tel Aviv lanciò una pioggia di missili su
decine di siti militari siriani in tutto il paese dopo il
lancio di alcuni razzi verso il Golan siriano occupato. Un attacco che
il ministro della Difesa israeliano Lieberman rivendicò affermando che
Tel Aviv aveva così distrutto buona parte delle infrastrutture iraniane
in Siria.
Fino alla scorsa settimana quando si è assistito all’ennesimo “salto
di qualità”: raid israeliani hanno colpito nella provincia di Deir Ezzor
la base militare di al-Hari, al confine con l’Iraq uccidendo 52
combattenti filogovernativi tra cui 22 iracheni. Non era mai
accaduto prima che Israele uccidesse dei miliziani iracheni né che
spostasse il proprio raggio d’azione così lontano dalle solite aree di
“intervento”. Un luogo non scelto a caso: è da lì che transitano armi e
uomini a sostegno di Bashar al-Assad, punto nodale di quel corridoio
sciita a cui l’Iran lavora da tempo per consolidare la propria influenza sui paesi vicini, dall’Iraq al Libano.
L’obiettivo è condiviso con l’amministrazione Trump e con l’alleato
de facto saudita: ridurre al minimo la presenza iraniana nella regione,
manu militari e attraverso la via diplomatica, se così si può definire,
minando lo storico accordo sul nucleare iraniano siglato dal 5+1 nel
luglio 2015 e ora sotto attacco da parte di Washington.
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