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19/04/2019

Il debito pubblico giapponese e noi

Vi sono situazioni in cui, immersi in un grosso problema, vediamo plasticamente la sua limpida soluzione, che appare tuttavia subordinata ad una qualche condizione esterna insormontabile. Al realizzarsi di questa, quel problema smetterebbe di esistere. Spesso ci si accorge che siamo noi, in realtà, ad aver prodotto una condizione da cui non riusciamo a liberarci, ed essa diventa così un’artificiale camicia di forza. Particolarmente interessante, anche nella storia dei fenomeni sociali, è il caso in cui l’evidenza di un problema sia tanto chiara quanto quella del vincolo che a priori impedisce di risolverlo. Tuttavia, considerando irrazionalmente quel vincolo come una variabile data e indiscutibile, si resta incagliati in una catena illogica e viziosa. Numerosi ragionamenti della scienza economica spesso finiscono in un simile vicolo cieco argomentativo, che rivela la povertà e l’inconsistenza di molte analisi che si avvitano su sé stesse.

L’appartenenza all’Unione Europea è una di quelle certezze che semplicemente vengono date per scontate. La legittimità di discettare delle possibili opzioni politiche si estende spesso nei consessi pubblici soltanto entro il perimetro prestabilito delle prescrizioni dei Trattati europei. Ogni idea che violi in modo serio quel perimetro viene definita irrealizzabile in taluni casi, derubricata a intemperanza o follia populista/nazionalista in altri, o semplicemente ignorata. Questo modus pensandi costruito sull’esistenza di un vero e proprio tabù lo si coglie continuamente nei dibattiti pubblici o negli articoli di giornale. In particolare, emerge quando alcune evidenze empiriche relative a paesi di altre aree del mondo instillano in molti il dubbio che alcune soluzioni di politica economica, niente affatto rivoluzionarie, ma semplicemente ragionevoli, potrebbero essere adottate anche in un paese europeo.

In un recente articolo apparso sul Foglio, Veronica De Romanis ha offerto uno dei migliori spaccati di questa strategia argomentativa. Da diverso tempo il Giappone fa parlare di sé in quanto economia con il più elevato debito pubblico al mondo (250% in rapporto al PIL), dove tuttavia non si è mai avuto il sentore di una minaccia di crisi finanziaria, né percezioni di rischi di insolvenza o aumento dei tassi d’interesse. Insomma niente spread o instabilità finanziaria e politica, ma al contrario una economia con tassi sul debito pubblico prossimi allo zero. Un paese con un tasso di disoccupazione pari al 2,5% (prossimo dunque alla piena occupazione) e una crescita economica che recentemente ha ripreso a manifestarsi a tassi abbastanza sostenuti. La De Romanis parla del Giappone per parlare in realtà dell’Italia, del suo elevato debito pubblico e delle, secondo lei, improvvide scelte del governo italiano di varare misure costose come quota 100 e reddito di cittadinanza. L’obiettivo è quello di ammonirci da azzardati tentativi di usare il Giappone come pietra di paragone per dimostrare che in fondo un determinato livello di debito pubblico quale il nostro potrebbe non essere un problema.

Qualcuno infatti potrebbe legittimamente chiedersi: se il Giappone ha il 250% di debito in rapporto al PIL, perché mai l’Italia dovrebbe angosciarsi (leggasi: tagliare la spesa pubblica, aumentare le tasse e fare sacrifici di ogni tipo) per il suo 132%? L’articolo del Foglio prova a spiegarci perché il confronto non regge e lo fa elencando tre motivi.

1) Il Giappone ha una spesa pubblica minore rispetto a quella italiana, pari al 39% del Pil contro il 48% dell’Italia ed entrate tributarie pari al 36% del PIL contro il 46% dell’Italia. Ciò, secondo la De Romanis, esporrebbe quel paese a rischi minori in caso di crisi di insolvenza del paese poiché vi sarebbe più margine politico per aumentare imposte ad oggi più basse. Il ragionamento è viziato alla radice: il debito pubblico non va ripagato mai per intero ma semplicemente rinnovato anno per anno, ragion per cui è fuorviante sostenere che le tasse oggi vadano alzate per ripagare il debito di domani. Anche accettando la fallace impostazione del discorso, non viene in ogni caso detto che imposte minori sono sostenibili proprio perché non vi sono limiti all’indebitamento del paese. La minore spesa pubblica è invece un portato di uno stato sociale fortemente decentrato a livello aziendale, in un mondo del lavoro la cui ferrea disciplina è mediata da un patto tra sindacati e imprese, cui fanno da contraltare la sostanziale accettazione da parte dei sindacati di un calo continuo dei salari reali avvenuto nel periodo 1998-2013 e basse imposte pagate dalle imprese. Insomma, circostanze che non hanno a che vedere con una presunta maggior facilità di gestione di un’eventuale crisi di insolvenza. Inoltre, vediamo come la presenza di una gestione più keynesiana delle finanze pubbliche non assicuri affatto, di per sé, una maggiore forza per i lavoratori, dato che quest’ultima va costruita con la lotta sociale. L’argomento insomma non sembra pregnante. Molto più interessanti ai nostri fini, sono i due punti successivi citati nell’articolo.

2) Il Giappone ha un debito pubblico quasi interamente posseduto da investitori pubblici o privati giapponesi. Pertanto non è soggetto ai capricci degli investitori esteri e in generale ai rischi della libera circolazione dei capitali. La situazione è diversa in Italia, dove invece una fetta consistente del debito pubblico è nelle mani di banche, assicurazioni e operatori internazionali. Non c’è nulla che l’Italia potrebbe fare in tal senso, si chiede e si risponde la commendevole De Romanis? Certo, si potrebbe sempre provare a spostare quote di debito pubblico estero verso soggetti italiani – ammette lei – tuttavia ciò obbligherebbe un paese come l’Italia a introdurre limiti alla libertà di movimento dei capitali. C’è qualche particolare ragionamento economico che la De Romanis avanza, per criticare misure di questo tipo? Ovviamente no. Il problema è, semplicemente, che l’Unione Europea ha tra i suoi pilastri la libera circolazione dei capitali, al fine di garantire la possibilità per i capitalisti di muovere fondi a loro piacimento, alla ricerca del massimo profitto. Tutelare questa prerogativa dei padroni è, per la De Romanis e per le istituzioni europee, evidentemente più importante che fornire agli stati membri gli strumenti per difendersi dalla speculazione finanziaria.

3) Non solamente la maggior parte del debito pubblico giapponese è in mano ad operatori giapponesi. A fare la parte del leone è la banca centrale, che dirige la politica monetaria interna e ha lo status di principale creditore, detenendo una quota di debito pubblico pari a circa il 40% del totale. Questo in Italia invece non è possibile, poiché la politica monetaria è stata delegata alla BCE che, per suo statuto, in tempi normali non compra titoli di Stato, ma lo fa solo in situazioni particolari e sotto una logica di stretta condizionalità. “Cambiare i trattati sarebbe possibile, ma in questo momento non ci sono paesi interessati a farlo, almeno non per quanto riguarda il funzionamento dell’Istituto di Francoforte” scrive poi l’autrice. “Quindi, per avere una banca centrale disposta a comprare i nostri titoli bisognerebbe uscire dalla moneta unica”.

L’articolo si chiude quindi con l’ammissione esplicita che sono l’appartenenza all’Unione Europea e l’assurdo funzionamento della BCE a rendere il debito pubblico italiano un problema e che fuori dal contesto dei vincoli UE il problema non esisterebbe, come non esiste per il Giappone che ha un debito non esposto all’estero e soprattutto una Banca centrale che svolge una funziona di garanzia e che monetizza il debito. Si ammette anche candidamente che, internamente alla camicia di forza europea, qualsiasi tentativo di applicare politiche di spesa, persino contenutissime e di scarsissima significatività come quelle della manovra fiscale gialloverde, si traduce immediatamente nella guerra dello spread.

Non si poteva essere più chiari e diretti. Una chiarezza che non conduce neanche per un istante al dubbio che, chissà, questa camicia di forza così stretta e ingombrante possa essere rimossa con la fuoriuscita dai trattati. L’idea può non piacere, naturalmente, ma perché non prenderla neanche in considerazione, non discuterla e spiegarla? Neanche una riga dedicata ai motivi per cui davvero dovremmo allegramente sottostare a quei vincoli asfissianti, a quelle regole che condannano lavoratori e classi subalterne dei paesi europei da anni a terribili sacrifici quotidiani. Non una riga sui motivi teorici che a quelle regole e a quei sacrifici dovrebbero almeno provare a dare un senso, uno straccio di giustificazione. Nulla! Semplicemente perché la questione è solo ed esclusivamente politica, ed attiene ai rapporti di forza tra classi sociali e tra paesi che i vincoli europei hanno il compito di mantenere saldi in un ben definito assetto. Ed il miglior modo per eludere una questione che è integralmente politica è semplicemente quello di conferire al dato dell’appartenenza all’Unione Europea il valore assoluto di una circostanza quasi naturale, una certezza che non vale neanche la pena discutere, come l’evidenza del sole che sorge ogni mattina.

Questa visione dogmatica non è certo una peculiarità dell’articolo del Foglio, ma è trasversale ad un robusto blocco di forze politiche, sindacali, padronali, testate giornalistiche e intellighenzia culturale del paese con decine di varianti di destra, centro-destra, centro-sinistra e sinistra organica alla gestione dell’esistente. Blocco che peraltro include in pieno, con perfetta capacità mimetica tutte le false alternative, tra le quali quella rappresentata dall’attuale governo. La sola maniera per opporsi al dogma è restituire alla questione la sua dimensione politica.

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