Vi sono situazioni in cui, immersi in un
grosso problema, vediamo plasticamente la sua limpida soluzione, che
appare tuttavia subordinata ad una qualche condizione esterna
insormontabile. Al realizzarsi di questa, quel problema smetterebbe di
esistere. Spesso ci si accorge che siamo noi, in realtà, ad aver
prodotto una condizione da cui non riusciamo a liberarci, ed essa
diventa così un’artificiale camicia di forza.
Particolarmente interessante, anche nella storia dei fenomeni sociali, è
il caso in cui l’evidenza di un problema sia tanto chiara quanto quella
del vincolo che a priori impedisce di risolverlo. Tuttavia,
considerando irrazionalmente quel vincolo come una variabile data e
indiscutibile, si resta incagliati in una catena illogica e viziosa.
Numerosi ragionamenti della scienza economica spesso finiscono in un
simile vicolo cieco argomentativo, che rivela la povertà e
l’inconsistenza di molte analisi che si avvitano su sé stesse.
L’appartenenza all’Unione Europea è una
di quelle certezze che semplicemente vengono date per scontate. La
legittimità di discettare delle possibili opzioni politiche si estende
spesso nei consessi pubblici soltanto entro il perimetro prestabilito
delle prescrizioni dei Trattati europei. Ogni idea che violi in modo
serio quel perimetro viene definita irrealizzabile in taluni casi,
derubricata a intemperanza o follia populista/nazionalista in altri, o
semplicemente ignorata. Questo modus pensandi costruito
sull’esistenza di un vero e proprio tabù lo si coglie continuamente nei
dibattiti pubblici o negli articoli di giornale. In particolare, emerge
quando alcune evidenze empiriche relative a paesi di altre aree del
mondo instillano in molti il dubbio che alcune soluzioni di politica
economica, niente affatto rivoluzionarie, ma semplicemente ragionevoli,
potrebbero essere adottate anche in un paese europeo.
In un recente articolo apparso sul Foglio, Veronica De Romanis ha offerto uno dei migliori spaccati di questa strategia argomentativa. Da diverso tempo il Giappone
fa parlare di sé in quanto economia con il più elevato debito pubblico
al mondo (250% in rapporto al PIL), dove tuttavia non si è mai avuto il
sentore di una minaccia di crisi finanziaria, né percezioni di rischi di
insolvenza o aumento dei tassi d’interesse. Insomma niente spread o
instabilità finanziaria e politica, ma al contrario una economia con
tassi sul debito pubblico prossimi allo zero. Un paese con un tasso di
disoccupazione pari al 2,5% (prossimo dunque alla piena occupazione) e
una crescita economica che recentemente ha ripreso a manifestarsi a
tassi abbastanza sostenuti. La De Romanis parla del Giappone per parlare
in realtà dell’Italia, del suo elevato debito pubblico e delle, secondo
lei, improvvide scelte del governo italiano di varare misure costose
come quota 100 e reddito di cittadinanza. L’obiettivo è quello di
ammonirci da azzardati tentativi di usare il Giappone come pietra di
paragone per dimostrare che in fondo un determinato livello di debito
pubblico quale il nostro potrebbe non essere un problema.
Qualcuno infatti potrebbe legittimamente
chiedersi: se il Giappone ha il 250% di debito in rapporto al PIL,
perché mai l’Italia dovrebbe angosciarsi (leggasi: tagliare la spesa
pubblica, aumentare le tasse e fare sacrifici di ogni tipo) per il suo
132%? L’articolo del Foglio prova a spiegarci perché il confronto non
regge e lo fa elencando tre motivi.
1) Il Giappone ha una spesa pubblica minore
rispetto a quella italiana, pari al 39% del Pil contro il 48%
dell’Italia ed entrate tributarie pari al 36% del PIL contro il 46%
dell’Italia. Ciò, secondo la De Romanis, esporrebbe quel paese a rischi
minori in caso di crisi di insolvenza del paese poiché vi sarebbe più
margine politico per aumentare imposte ad oggi più basse. Il
ragionamento è viziato alla radice: il debito pubblico non va ripagato
mai per intero ma semplicemente rinnovato anno per anno,
ragion per cui è fuorviante sostenere che le tasse oggi vadano alzate
per ripagare il debito di domani. Anche accettando la fallace
impostazione del discorso, non viene in ogni caso detto che imposte
minori sono sostenibili proprio perché non vi sono limiti
all’indebitamento del paese. La minore spesa pubblica è invece un
portato di uno stato sociale fortemente decentrato a livello aziendale,
in un mondo del lavoro la cui ferrea disciplina è mediata da un patto
tra sindacati e imprese, cui fanno da contraltare la sostanziale
accettazione da parte dei sindacati di un calo continuo dei salari reali
avvenuto nel periodo 1998-2013 e basse imposte pagate dalle imprese.
Insomma, circostanze che non hanno a che vedere con una presunta maggior
facilità di gestione di un’eventuale crisi di insolvenza. Inoltre,
vediamo come la presenza di una gestione più keynesiana delle finanze
pubbliche non assicuri affatto, di per sé, una maggiore forza per i
lavoratori, dato che quest’ultima va costruita con la lotta sociale.
L’argomento insomma non sembra pregnante. Molto più interessanti ai
nostri fini, sono i due punti successivi citati nell’articolo.
2) Il Giappone ha un debito pubblico quasi
interamente posseduto da investitori pubblici o privati giapponesi.
Pertanto non è soggetto ai capricci degli investitori esteri e in
generale ai rischi della libera circolazione dei capitali. La situazione
è diversa in Italia, dove invece una fetta consistente del debito
pubblico è nelle mani di banche, assicurazioni e operatori
internazionali. Non c’è nulla che l’Italia potrebbe fare in tal senso,
si chiede e si risponde la commendevole De Romanis? Certo, si
potrebbe sempre provare a spostare quote di debito pubblico estero verso
soggetti italiani – ammette lei – tuttavia ciò obbligherebbe un paese
come l’Italia a introdurre limiti alla libertà di movimento dei
capitali. C’è qualche particolare ragionamento economico che la De
Romanis avanza, per criticare misure di questo tipo? Ovviamente no. Il
problema è, semplicemente, che l’Unione Europea ha tra i suoi pilastri
la libera circolazione dei capitali, al fine di garantire la possibilità
per i capitalisti di muovere fondi a loro piacimento, alla ricerca del
massimo profitto. Tutelare questa prerogativa dei padroni è, per la De
Romanis e per le istituzioni europee, evidentemente più importante che
fornire agli stati membri gli strumenti per difendersi dalla
speculazione finanziaria.
3) Non solamente la maggior parte del
debito pubblico giapponese è in mano ad operatori giapponesi. A fare la
parte del leone è la banca centrale, che dirige la politica monetaria
interna e ha lo status di principale creditore, detenendo una quota di
debito pubblico pari a circa il 40% del totale. Questo in Italia invece
non è possibile, poiché la politica monetaria è stata delegata alla BCE
che, per suo statuto, in tempi normali non compra titoli di Stato, ma lo fa solo in situazioni particolari e sotto una logica di stretta condizionalità.
“Cambiare i trattati sarebbe possibile, ma in questo momento non ci
sono paesi interessati a farlo, almeno non per quanto riguarda il
funzionamento dell’Istituto di Francoforte” scrive poi l’autrice.
“Quindi, per avere una banca centrale disposta a comprare i nostri
titoli bisognerebbe uscire dalla moneta unica”.
L’articolo si chiude quindi con l’ammissione esplicita che sono l’appartenenza all’Unione Europea e l’assurdo funzionamento della BCE a rendere il debito pubblico italiano un problema
e che fuori dal contesto dei vincoli UE il problema non esisterebbe,
come non esiste per il Giappone che ha un debito non esposto all’estero e
soprattutto una Banca centrale che svolge una funziona di garanzia e che monetizza il debito.
Si ammette anche candidamente che, internamente alla camicia di forza
europea, qualsiasi tentativo di applicare politiche di spesa, persino
contenutissime e di scarsissima significatività come quelle della
manovra fiscale gialloverde, si traduce immediatamente nella guerra dello spread.
Non si poteva essere più chiari e
diretti. Una chiarezza che non conduce neanche per un istante al dubbio
che, chissà, questa camicia di forza così stretta e ingombrante possa
essere rimossa con la fuoriuscita dai trattati. L’idea può non piacere,
naturalmente, ma perché non prenderla neanche in considerazione, non
discuterla e spiegarla? Neanche una riga dedicata ai motivi per cui
davvero dovremmo allegramente sottostare a quei vincoli asfissianti, a
quelle regole che condannano lavoratori e classi subalterne dei paesi
europei da anni a terribili sacrifici quotidiani. Non una riga sui
motivi teorici che a quelle regole e a quei sacrifici dovrebbero almeno
provare a dare un senso, uno straccio di giustificazione. Nulla!
Semplicemente perché la questione è solo ed esclusivamente politica, ed
attiene ai rapporti di forza tra classi sociali e tra paesi che i
vincoli europei hanno il compito di mantenere saldi in un ben definito
assetto. Ed il miglior modo per eludere una questione che è
integralmente politica è semplicemente quello di conferire al dato
dell’appartenenza all’Unione Europea il valore assoluto di una
circostanza quasi naturale, una certezza che non vale neanche la pena
discutere, come l’evidenza del sole che sorge ogni mattina.
Questa visione dogmatica non è certo una
peculiarità dell’articolo del Foglio, ma è trasversale ad un robusto
blocco di forze politiche, sindacali, padronali, testate giornalistiche e
intellighenzia culturale del paese con decine di varianti di destra,
centro-destra, centro-sinistra e sinistra organica alla gestione
dell’esistente. Blocco che peraltro include in pieno, con perfetta
capacità mimetica tutte le false alternative, tra le quali quella rappresentata dall’attuale governo. La sola maniera per opporsi al dogma è restituire alla questione la sua dimensione politica.
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