Secondo la saggezza popolare, l’erba del
vicino è sempre più verde. Un caso di scuola di questo luogo comune si
dà quando si discute della Germania e del suo modello economico. Quale
che sia il tema specifico, il sottotesto ci parla sempre della
supremazia tedesca dal punto di vista tecnologico, culturale ed
economico, un risultato ottenuto a seguito di taumaturgiche riforme e che permette alla Germania di fare da locomotiva
per la crescita di tutta l’Europa. Se questo è il mito, la realtà ci
offre tuttavia uno spaccato leggermente diverso. Ai racconti di
un’economia vitale e rigorosa, che dovrebbe fungere da esempio
terapeutico per tutti i Paesi mediterranei, si stanno pian piano
sovrapponendo cronache più nefaste: la Germania starebbe finendo in recessione.
Stando alla lettura dei media, la frenata dell’economia tedesca
deriverebbe, da un lato, dal rallentamento della domanda internazionale
e, dall’altro, dal ‘complesso adeguamento dell’industria dell’auto ai
più rigidi standard europei di emissione dei motori diesel’. Come
vedremo, però, si tratta di una spiegazione parziale e che nasconde le
cause più profonde e sistemiche, che hanno le loro radici in uno
scellerato modello di crescita per sua natura insostenibile, basato
sulla compressione salariale e sulla disponibilità di altri paesi a
continuare a comprare le merci prodotte internamente.
In qualche sobborgo di Wolfsburg sono stivate migliaia di auto invendute. Sarebbe facile associare questo fosco scenario semplicemente alle conseguenze dello scandalo Dieselgate,
che ha coinvolto la celebre casa automobilistica ‘del popolo’ (sic). Ma
la storia non è così semplice. Al di là di questo caso ‘patologico’, il
vero problema del modello economico tedesco è strutturale e per capirlo
è necessario fare un passo indietro.
La Germania compete internazionalmente sui costi di produzione a suon di precarietà e delocalizzazioni. Si tratta di un modello di crescita, perfettamente coerente con l’attuale architettura dell’Unione Europea, che la Germania persegue da ormai vent’anni a colpi di mini-job, con ripercussioni drammatiche sulle classi subalterne. Non si tratta, infatti, di una partita tra Germania e resto del mondo, bensì di un vero e proprio scontro di classe senza confini geografici.
Da decenni la Germania ci viene spacciata per l’avanguardia
dell’efficienza e della competitività, cui si contrappone
un’improduttiva periferia europea incapace di adottare un modello di
sviluppo ‘moderno’ come quello tedesco. Il fiore all’occhiello
dell’efficienza tedesca sarebbe rappresentato dalla capacità di vendere i
propri prodotti sui mercati esteri: dal 1999 ai giorni nostri, la
Germania ha in media esportato un ammontare di beni e servizi pari al
40% del proprio PIL (per un raffronto, in Italia lo stesso dato si
aggira attorno al 25%). Le ragioni della competitività tedesca sono
facilmente individuabili andando a guardare i differenziali di prezzo: i
beni realizzati in Italia, che generalmente non sono di minore qualità
di quelli prodotti a Stoccarda o a Monaco (tant’è che molta della
componentistica dei beni finali made in Germany è prodotta da
aziende italiane), sono diventati dal 1999 ad oggi più cari del 20%
rispetto alle merci tedesche. In breve, il segreto del modello tedesco
risiede soprattutto nella capacità di produrre le stesse merci a costi minori,
con l’ovvio risultato che, mentre la Germania è cresciuta grazie alla
domanda estera, i Paesi della periferia europea hanno progressivamente
perso pezzi pregiati della propria industria, con effetti drammatici
sull’occupazione.
Questa strategia di crescita è frutto di una deliberata scelta di politica economica, definita ‘crescita
trainata dalle esportazioni’. Generalmente, i beni prodotti da
un’impresa possono essere venduti nel mercato domestico, traducendosi in
domanda interna (ossia in consumi delle famiglie, investimenti di altre
imprese, oppure acquisti fatti dal settore pubblico), o su quello
estero, intercettando la domanda estera (esportazioni verso un soggetto
residente in un altro Paese). Nell’implementazione di un modello di
crescita fondato sull’export diventa cruciale il contenimento dei salari,
considerati un mero costo di produzione, al fine di moderare la
dinamica dei prezzi e dare linfa (via maggiore competitività) alle
vendite all’estero. La conseguente anemia della domanda interna (indotta da salari stagnanti), combinata alla fissazione di prezzi competitivi,
obbliga e al tempo stesso permette alle aziende di vendere i proprio
prodotti all’estero, intercettando la domanda proveniente da Paesi dove
le stesse merci sono generalmente più care.
Come si può facilmente intuire, questa
strategia fondata sulla repressione di salari e domanda interni per
stimolare le esportazioni – una strategia definita in letteratura ‘mercantilista’ – presenta degli evidenti limiti.
Il primo limite è che questo modello, per costruzione, facendo leva sulla compressione dei salari, distrugge la domanda interna
di un Paese. Oltre ad avere, quindi, conseguenze sociali
particolarmente sgradevoli, in primo luogo per la classe lavoratrice,
presenta un naturale elemento di vulnerabilità. Se la domanda estera
inizia a stagnare (a causa, ad esempio, di una congiuntura economica
avversa che coinvolge il resto del mondo), oppure entrano sul
palcoscenico mondiale nuovi competitor ancora più
concorrenziali (come i Paesi emergenti, caratterizzati da un bassissimo
costo del lavoro), il Paese che persegue questa strategia finisce per
cadere in crisi. Non sorprendentemente, le recenti statistiche ci
indicano che la Germania sta scivolando in recessione perché la crescita del commercio internazionale sta rallentando. Gli ultimi dati sugli ordinativi industriali in Germania parlano chiaro: a febbraio 2019, si è registrato un -4,2% su base mensile e un -8,4% su base annuale.
Il secondo limite ha invece a che vedere
con la possibilità di generalizzare e replicare questo modello di
crescita. Volendo dare credito alle raccomandazioni delle istituzioni
internazionali, infatti, questa sarebbe la via maestra, soprattutto per
le economie del sud Europa, per uscire dalle sacche della recessione.
Non ci vuole molto, però, per capire la fallacia di questo ragionamento,
poiché se qualcuno esporta, qualcun altro deve importare. In altre
parole: non tutti i Paesi possono campare di export. Ciononostante,
questa rappresenta ormai la ricetta standard, suggerita dall’Unione
Europea anche alla periferia europea come un modo efficace per uscire dalla crisi.
Ci dovremmo quindi tutti imbarcare per questa china, ma questa
strategia, oltre ad accrescere povertà e sfruttamento, risulterebbe
addirittura inutile in termini di esportazioni qualora fosse applicata
contestualmente da tutti i Paesi a colpi di svalutazione salariale.
Ecco il motivo delle auto stivate nelle
periferie delle grigie metropoli tedesche: come accade in tutte le fasi
di crisi, non c’è sufficiente domanda di merci, interna e/o esterna (nel
caso tedesco, sono crollati sia gli ordinativi domestici che quelli
esteri, scesi rispettivamente dell’1,6% e del 6%). Certo, nelle fasi di
depressione economica internazionale, e di conseguente bassa domanda
estera, ci sarebbe un modo relativamente semplice per tornare a
crescere: sarebbe sufficiente riattivare la domanda interna, ormai
agonizzante in quanto falcidiata dal contenimento dei salari (la cui
quota sul reddito ha perso circa 3 punti percentuali in vent’anni), ma
per farlo occorrerebbe invertire la rotta in cui l’economia tedesca è
invischiata da ormai due decadi, in cui si è assistito alla pressoché
totale deregolamentazione del mercato del lavoro e ad una concertazione
tra imprese e sindacati tedeschi funzionale alla deflazione salariale.
Non in ultimo, occorre sottolineare che nel 2012 la Germania ha
raggiunto il pareggio di bilancio e nei cinque anni successivi è
arrivata ad accumulare un avanzo pubblico (avanzo totale, non solo
primario, vedi qui
per una spiegazione delle differenze tra queste due grandezze): in
altri termini, anche lo Stato ha contribuito a frenare la domanda
interna. Se questa sottrazione di risorse da parte del settore pubblico
non ha generato crisi nel recente passato è stato solo per effetto di un
forte dinamismo dell’export: come i dati di oggi ci indicano, quando
l’export cede, il contenimento della spesa pubblica rappresenta la
ciliegina sulla torta di una strategia completamente suicida.
Dalle nostre parti, tuttavia, non si
respira un’aria molto diversa: in Italia, le esportazioni sono l’unica
componente della domanda che mostra una certa vitalità, i consumi
interni crollano a causa della stagnazione dei salari, e il processo di
riforma del mercato del lavoro è in atto dai primi anni ‘90. Per queste
ragioni, non bisogna commettere l’errore di individuare il nemico nella
Germania, bensì in un modello di crescita (di cui la Germania è solo un
esempio di fulgida attuazione, con buona pace dei proletari tedeschi
pagati un euro all’ora) che promuove precarietà, disoccupazione, crisi e, di conseguenza, redistribuzione del reddito dai salari ai profitti.
Queste considerazioni ci portano ancora una volta a riflettere sulla
vera natura degli assetti politico-economici delle attuali economie
avanzate, dove sulla contrapposizione tra ‘centro’ e ‘periferia’ europea
si innesta la realtà di una società divisa in classi, in cui la
deregolamentazione del mercato del lavoro, combinata alla libera
circolazione di merci e capitali, non può che portare a pressioni a
ribasso sul costo del lavoro, con l’unico effetto di spostare ancor più i
rapporti di forza a favore dei capitalisti.
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