Il poeta francese Charles Baudelaire
affermava che “la più grande astuzia del diavolo è farci credere che non
esiste”. I padroni hanno storicamente fatto tesoro di questa lezione,
tanto da dotarsi di una teoria economica – il paradigma economico oggi
dominante – che ha tra i suoi principali obiettivi quello di convincerci
che, alla fine della fiera, non c’è alcuna contrapposizione e inconciliabilità tra gli interessi dei lavoratori e quelli dei capitalisti.
Ora, chiunque abbia lavorato anche solo una settimana in vita sua, chi è
disoccupato o sottoccupato, sa benissimo che questa è una menzogna bella e buona,
utile solamente a tenere al riparo proprio i capitalisti da noiose
rivendicazioni. Una cosa apparentemente così banale e di buon senso deve
essere sfuggita ai sindacati confederali i quali, dopo tanto parlare di
partito del PIL ed armonia sociale, decidono finalmente di fare il grande passo e lanciano un ‘Appello per l’Europa’ insieme alla principale organizzazione padronale italiana, Confindustria.
Un quadro idilliaco si apre di fronte agli occhi del lettore dell’appello, un universo dove siamo tutti sulla stessa bella barca, padroni e lavoratori, tutti con la fortuna di risiedere in una Unione Europea che viene presentata come “il
progetto […] cruciale per affrontare le sfide e progettare un futuro di
benessere per l’Europa che è ancora uno dei posti migliori al mondo per
vivere, lavorare e fare impresa”.
La premessa dice già tutto. L’architettura europea è un valore di per sé
e non necessita di alcuna riflessione critica. Chi ha scritto
l’appello, chiaramente, non ha vissuto e non vive come un problema i vincoli di finanza pubblica e le politiche di austerità,
che hanno causato il ritorno della disoccupazione di massa e il
peggioramento materiale delle condizioni di vita di milioni di
lavoratori. In tutto il testo, è presente solo un vago e impersonale
riferimento a generiche “politiche di rigore”, senza neanche menzionare
chi queste politiche di rigore le ha congegnate e imposte agli Stati
membri, in particolare quelli della periferia europea. La crisi e le
suddette politiche di rigore, inoltre, sembrano due entità indipendenti
l’una dall’altra, come se non fossero state le seconde una delle cause
fondamentali della prima. E il metro di giudizio, in ogni caso, è sempre
il potenziale danno in termini di benessere di lavoratori e imprese,
quasi a voler identificare le due entità come un unicum a-conflittuale, cooperativo e pacificato.
Ma veniamo ai contenuti dell’appello. Il
documento, nell’invitare i cittadini europei all’esercizio del voto per
le elezioni del parlamento europeo – e, di fatto, nell’indirizzare
palesemente un istituto per sua natura libero e democratico in favore,
guarda caso, di quelle forze politiche sostenitrici dell’austerità europea
– esordisce con un attacco ai presunti sovranismi che hanno preso piede
in Europa, affermando che le conseguenze economiche e sociali della
crisi degli anni recenti non possono essere risolte con un ritorno
all’isolamento degli Stati nazionali e alle barriere commerciali,
suscettibili di richiamare in vita “gli inquietanti fantasmi del
Novecento”. Quest’espressione è lasciata volutamente vaga, in maniera
tale da poter far riecheggiare, nelle orecchie di qualche sincero
liberale, l’incubo del fascismo. Ma sufficientemente generica da poter
anche rievocare, nella mente del padroncino che legge, gli anni
dell’esplosione del conflitto sociale e della lotta di classe, che
mettevano a repentaglio privilegi e profitti. Se, leggendo il documento,
è molto chiaro cosa NON si deve fare per uscire dalla crisi, la parte
propositiva è affidata alla propaganda: bisogna rilanciare con forza il
progetto europeo. Un progetto che avrebbe garantito “una pace duratura
in tutto il nostro continente e ha unito i cittadini europei attorno ai
valori fondamentali dei diritti umani, della democrazia, della libertà,
della solidarietà e dell’uguaglianza”. Una pace duratura all’interno dei
confini dell’Unione che ha avuto il suo corrispettivo, giusto per
limitarci agli ultimi vent’anni, in una serie interminabile di conflitti
in giro per il mondo, partendo dai confini di casa con la guerra in Jugoslavia nel 1999, passando per Afghanistan, Iraq, Libia, Ucraina e arrivando all’appoggio e la legittimazione dati al golpista e burattino Juan Guaidó in Venezuela.
Decine di migliaia di morti, Paesi devastati e spoliati, il tutto con
la partecipazione attiva dei paesi membri dell’Unione, a titolo
individuale o sotto l’ombrello della NATO. Un’idea di ‘pace duratura’ davvero originale e che fa a pugni con la realtà.
Ma questo non sembra preoccupare gli estensori dell’appello, estensori
che possono senza problemi richiamarsi all’uguaglianza, ignorando o
fingendo di ignorare che gli ultimi 40 anni hanno visto un’esplosione delle disuguaglianze e una compressione continua e ininterrotta della quota di reddito che va ai salari e che i vincoli di finanza pubblica imposti dai Trattati impediscono il raggiungimento di qualsiasi tipo di uguaglianza sostanziale.
Sulla base di tali premesse, quali
sarebbero, allora, secondo l’appello, le strategie da adottare per il
‘rilancio’ del progetto europeo?
Il documento è diviso in tre sezioni:
nella prima, “Unire persone e luoghi”, si promuove l’Apprendistato
Europeo per permettere ai giovani di formarsi in una sorta di ‘Erasmus
in azienda’ – un programma che ben rappresenta la concezione liberista
dell’istruzione come strumento di creazione di forza-lavoro alla completa mercé delle imprese e incarnazione di quell’ideale europeo di mobilità del lavoro che non nasconde altro che una guerra tra poveri su scala continentale.
C’è poi il “Piano straordinario per gli investimenti in infrastrutture
ed in reti”, che dovrebbe “promuovere un modello di crescita e di vita
socialmente e ambientalmente sostenibile, rispettoso dell’equilibrio
naturale ed energivoro”. Parole bellissime e condivisibili, che però
fanno venire in mente la strenua difesa della TAV ad
opera di sindacati confederali e Confindustria, un progetto che
contraddice completamente il concetto di “ambientalmente sostenibile” e
che di certo non sembra puntare ad “unire territori, città e paesi” in
quanto, tanto per fare un esempio, Torino e Lione sono già collegate dalla linea ad alta velocità TGV.
La seconda sezione, intitolata “Dotarsi
degli strumenti per competere nel nuovo contesto globale”, al primo
punto ripropone il mantra liberista del rafforzamento della libertà di
movimento dei capitali. Ci era sembrato che i capitali all’interno
dell’UE non avessero particolari problemi a spostarsi dove fa più loro comodo, alla ricerca del massimo profitto,
ma secondo Confindustria e i sindacati confederali si può fare di più e
meglio. L’appello, tuttavia, dimentica di dire cosa significhi,
concretamente, la libera circolazione dei capitali, cioè la possibilità
per le imprese di delocalizzare la produzione in quei Paesi o regioni
dove sono presenti salari da fame e dove la forza-lavoro ha un potere
contrattuale nullo. O, nel ‘migliore’ dei casi, la garanzia per il
padronato di una forza contrattuale tale da costringere i lavoratori,
sotto la minaccia della delocalizzazione, ad accettare livelli salariali
più bassi e condizioni lavorative peggiorate (si pensi ad esempio alla
FIAT). Sostenere una simile posizione dona una luce sinistra anche al
proposito di armonizzare, a livello europeo, i sistemi fiscali, i
trattamenti salariali, i sistemi di protezione del lavoro e i diritti
dei lavoratori, in quanto sorge spontaneo il dubbio che la finalità di
entrambe le proposte sia quella di condurre ad una revisione o
“armonizzazione” al ribasso dei livelli salariali, dei diritti e dei prelievi fiscali proprio per favorire gli afflussi di capitale.
Tutto questo andrebbe abbinato ad una
imprecisata “politica industriale europea”, che non ha l’obiettivo di
aumentare e sostenere l’occupazione, per carità, bensì migliorare la competitività.
Leggere tali affermazioni, unite al contenuto presente nelle due
sezioni successive (“Potenziare la rete di solidarietà sociale europea” e
“Sviluppare il dialogo sociale e la contrattazione”) aiuta a
comprendere la linea seguita dal documento, laddove da un lato inserisce
qua e là qualche spruzzo di misure sociali (d’altronde, i sindacati
confederali sono tra gli estensori dell’appello), le quali però
risultano inapplicabili e inattuabili se, al contempo, si struttura
l’intera proposta con politiche in favore della libertà di movimento dei
capitali o con provvedimenti che non mettono in discussione i vincoli
europei alla spesa pubblica.
Qualora il ragionamento vertesse su una
tassazione comune a livello europeo, ad esempio sui redditi da capitale
(peraltro già piuttosto bassa in Italia, con un’aliquota unica al 24%), o
su una definizione di ‘standard retributivo’ europeo minimo
(nonostante, anche in tempi recenti,
confederali e Confindustria si siano espressi negativamente sul salario
minimo), ciò in ogni caso non sembrerebbe essere da impedimento allo
spostamento dei capitali in Paesi dove i salari sono comunque più bassi.
In altri termini, il problema è la libertà di movimento dei capitali in
sé che, tranne per un pallido accenno a forme di “dumping sociale e
salariale”, l’appello non mette minimamente in discussione.
Veniamo alle proposte contenute nella
terza sezione (“Potenziare la rete di solidarietà sociale europea”),
laddove si parla di un sostegno europeo al reddito con “funzione di
stabilizzazione del ciclo economico” in occasione di crisi di uno o più
Paesi membri. Misure di sostegno a chi perde il lavoro e ammortizzatori
sociali sono una triste necessità, all’interno di un sistema economico
che ha bisogno della disoccupazione di massa come strumento disciplinante del lavoro.
Tuttavia, Confindustria e sindacati confederali si premurano di
specificare che queste misure devono essere tali da “non pesare sulle
imprese”. E su chi dovrebbero pesare, allora? Dati i vincoli di finanza pubblica e il mantra della scarsità delle risorse,
che sia i sindacati confederali sia Confindustria sposano appieno, il
costo dell’eventuale sussidio verrebbe fatto interamente ricadere sul
lavoro dipendente. Una soluzione quanto meno curiosa, in quanto
l’erogazione di un sussidio in favore di chi perde il lavoro o di chi
versa in condizioni di povertà sarebbe a carico dei lavoratori,
contribuendo ad accentuare le disparità nella distribuzione del reddito e
a fomentare la guerra tra poveri.
Criticare ed attaccare sindacati che rappresentano milioni di lavoratori non è un esercizio piacevole o divertente. Tuttavia, purtroppo, diventa un’amara necessità nel momento in cui chi
ha il compito di difendere gli interessi dei lavoratori abdica
completamente ai suoi doveri, contribuendo a diffondere scoraggiamento,
sfiducia e rassegnazione. Il mondo del lavoro è nel pieno di una delle
peggiori fasi di arretramento degli ultimi decenni in termini di
reddito, diritti e condizioni lavorative. La migliore idea che i
sindacati confederali sono stati in grado di concepire per arrestare
questa deriva consiste nel consegnarsi, mani e piedi, alla benevolenza del padronato, sognando un inesistente mondo senza conflitti sociali.
Il tutto con la benedizione delle istituzioni europee. Non ci vuole
particolare ingegno per capire come questa strategia sia suicida.
Provare a fermarla è un dovere per chi, non ancora totalmente
accecato dalla propaganda del nemico di classe, vuole davvero difendere
gli interessi dei lavoratori e di tutti coloro che non hanno nulla da
guadagnare da questo sistema economico.
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