di Luca Baiada
Cent’anni dalla fondazione dei Fasci di combattimento: Milano, piazza
San Sepolcro, 23 marzo 1919. Il fascismo, un tipico prodotto di successo
del Made in Italy; forse la parola italiana più nota
all’estero, insieme a mafia e pizza. Ipocrisia e sangue. Va al potere
con le stragi di democratici e sindacalisti, con gli incendi, coi
saccheggi; ma le condanne a morte che pronuncia col Tribunale speciale,
quelle eseguite, sono poche decine. Lupara bianca e lupara nera. Al
fascismo bastano sette anni dal suo primo governo per sforbiciare un
pezzo della capitale e consegnarlo al papato, e pochi anni in più per
legare le sorti del paese alla Germania con risultati disastrosi.
Paradosso tutto nostro, quel suicidio differito del Risorgimento passa
per patriottico.
Tre quarti di secolo dall’attacco partigiano in via Rasella (non per
caso, la Resistenza scelse il 23 marzo) e dalle Fosse Ardeatine, il
giorno dopo. L’attacco lo fecero i Gap, Gruppi di azione patriottica; patria
non sapeva di populismo e non metteva in imbarazzo. Pochi giorni prima,
il 10 marzo e sempre a Roma, per l’anniversario della morte di Mazzini i
gappisti avevano disperso a revolverate i fascisti, che in via
Tomacelli sfilavano contro il re e per la repubblica, ma quella finta di
Mussolini. Brutto colpo, per i repubblichini, che sul «Messaggero»
commentarono: «Purtroppo i soliti elementi perturbatori attentano alla
serena compostezza del corteo». I comunisti sparano sui fascisti per
impedire che si fingano mazziniani. Da approfondire, il senso di
quell’accademia a mano armata.
La memoria è rimasta prigioniera del paradigma vittimario delle
Ardeatine, crimine sepolto nel monumentalismo; l’azione ben riuscita di
via Rasella non ha avuto la considerazione che merita, anzi è stata
accusata di tutto: i partigiani che volevano l’eccidio, che dovevano
consegnarsi ai tedeschi, che ignorarono moniti e comunicati. Qualche
anno fa è stato pubblicato e demistificato il volantino fascista che
fabbricò menzogne poco dopo il massacro (una manovra disinformativa
persino più zelante di quelle tedesche); ma le smentite razionali non
bastano, l’accusa contro la Resistenza risponde a un bisogno emozionale.
Ha combattuto, ha spezzato l’inerzia, e nella città santa: è colpevole.
Mezzo secolo dalla strage di piazza Fontana, a Milano. Nel 1969 corre
lo sviluppo economico, sono in piena maturazione l’industrializzazione e
l’urbanizzazione, si è affacciata la rivoluzione sessuale, si
progettano il divorzio, il nuovo diritto di famiglia, lo Statuto dei
lavoratori. Si reclamano riforme dei codici, della scuola,
dell’università. Una parte del paese vuole entrare nella modernità,
un’altra frena: vi entrerà zoppicando.
Piazza Fontana è una strage indiscriminata, la prima di tipo bellico
dopo la guerra; le altre, da Portella della Ginestra a Reggio Emilia,
hanno un margine di selezione delle vittime. Nel 1969 si colpisce a
caso: il bersaglio grosso non è in quei morti, è il popolo. Insieme c’è
la violenza poliziesca, la macchinazione che mira all’anello debole
della contestazione: gli anarchici, estranei al circuito politico del
blocco al governo e di quello all’opposizione, riottosi alla retorica
del costituzionalismo ingessato, dissonanti dal reducismo ciellenista.
Però la morte di Giuseppe Pinelli, un po’ simmetrica e un po’ decentrata
rispetto alla bomba, colpisce mirando ed è un monito per tutti, fitta
di segni che parlano di allineamento, di ubbidienza non solo
governativa. L’uomo che quel giorno va tranquillo coi poliziotti in
questura, fiducioso in un chiarimento, ne uscirà cadavere dopo un
interrogatorio che viola ogni norma procedurale.
In carcere, additato come il mostro, finirà un altro
anarchico innocente, Pietro Valpreda; ci vorranno anni e una modifica
legislativa per tirarlo fuori. Ci si renderà conto, finalmente, che le
leggi sono ancora quelle fasciste e che un detenuto può sparire senza
garanzie. E insieme c’è la giustizia, così inadeguata che alla verità
processuale su quel 1969 mancano ancora pagine importanti. La
spiegazione corrente su Pinelli sarà un ossimoro osceno, il malore attivo, in cui – come nei Promessi sposi, con le febbri pestilenziali – l’indicibile si sposta sull’aggettivo. Qualcosa si muove, qualcuno fa, insomma c’è un che di attivo, in quella morte. Ma il sostantivo è incolpevole e sa di vecchio, di malfermo: il malore, meno grave della malattia, più svenevole di un dolorino. Pinelli era quarantenne. Da rivedere, sulla giustizia, il film Processo politico di Francesco Leonetti.
Un quarto di secolo dalla rifrequentazione di un tremendo archivio
segreto. Fra il 1943 e il 1945 gli occupanti tedeschi e i
collaborazionisti fascisti uccidono italiani in una quantità mai davvero
calcolata: probabilmente almeno trentamila. Nel 1945 si decide di
concentrare indagini e prove a Roma, negli uffici della giustizia
militare, per far meglio chiarezza. Negli anni immediatamente successivi
i fascicoli sono usati per celebrare pochissimi processi, poi sono
lasciati alla polvere, nel silenzio di tutte le strutture partitiche,
politiche, sindacali, combattentistiche. Molti sanno, tutti tacciono,
qualcuno manovra. È uno scandalo senza paragoni nell’Italia
postunitaria, forse nella storia europea: un paese occulta le prove di
due anni di massacro dei suoi cittadini, di ogni età e condizione,
compresi i bambini, i militari fedeli al governo legittimo, i
partigiani, il clero, gli ebrei.
Un giornalista battagliero, Franco Giustolisi, chiamerà questa cosa orribile Armadio della vergogna,
un’espressione fulminante. Dopo che l’Armadio è stato riaperto si
muovono commissioni d’inchiesta, si scrivono relazioni, eppure restano
oscure sia le implicazioni di un’inerzia così lunga, sia le modalità
dell’improvvisa rifrequentazione dell’archivio. Avviene, appunto, nel
1994: cioè dopo il Trattato di Maastricht e dopo la trattativa
Stato-mafia con la notte in odor di golpe denunciata da Ciampi, e dopo
l’assassinio di Falcone e Borsellino. Soprattutto, a breve distanza
dalla caduta del Muro di Berlino e dalla riunificazione tedesca, e
subito dopo l’arrivo di Berlusconi al governo. In quell’anno i Modena
City Ramblers cantano Quarant’anni: «Ho visto bombe di Stato
scoppiare nelle piazze e anarchici distratti cadere giù dalle finestre.
Ho venduto il mio didietro ad un amico americano. Ho massacrato
Borsellino e tutti gli altri. Ho protetto trafficanti e figli di
puttana. Ma ho un armadio pieno d’oro, di tangenti e di mazzette, di
armi e munizioni, di scheletri e di schifezze».
La rifrequentazione non ha neppure una data sicura. Di altri misteri
italiani si conosce almeno il giorno; nel 1994 l’Armadio ricompare senza
un verbale, senza una fotografia. Negli anni che seguono si celebrano
una ventina di dibattimenti, l’ultimo termina nel 2015; va in prigione
solo un sottufficiale. La Germania non paga nessun risarcimento; anzi,
alla Corte internazionale dell’Aia fa condannare l’Italia per lesa
maestà, perché uno studio legale ha ipotecato una villa tedesca a Como.
Attenzione. La posta in gioco non è solo di crediti italiani e di una
villa: con quella sentenza la Corte, cioè la voce giudiziaria dell’Onu,
dice che gli Stati non possono mai essere condannati a pagare, neppure
per crimini di guerra o contro l’umanità. Vale per il passato e per il
futuro, per Sant’Anna di Stazzema e per la Siria. È il 2012: la crisi
economica dilaga, terrorismo e destabilizzazioni fanno il doppio gioco
sul sangue di interi paesi, e Wikileaks, col Cablegate e coi documenti
sull’Afghanistan e l’Iraq, ha svelato intrighi e massacri. Ecco che sul
tavolo anatomico dei giuristi, all’Aia, le stragi di italiani dal 1943
al 1945 sono dissezionate e manipolate per fabbricare un salvacondotto
legale a quelle future, ovunque. Gli apprendisti stregoni cuciono i
lutti della Seconda guerra mondiale col fil di ferro del formalismo; ne
esce un mostro alla Frankenstein, servizievole alla ragion di Stato.
Sangue assolve sangue.
Settant’anni dalla fondazione della Nato. Voluta contro un blocco
politico-economico che non esiste più da un trentennio, è sopravvissuta
al suo nemico e continua a condizionare il presente. I responsabili di
crimini nazifascisti commessi in guerra sono stati protetti e adoperati;
la strategia della tensione è stata l’area in cui la Nato ha incontrato
il nazifascismo bellico e la protezione postbellica della sua impunità,
cioè l’ombra silenziosa dell’Armadio della vergogna.
Lo stragismo nazista e fascista, sempre antipopolare, sempre
collaborazionista, ha disseminato di ingiustizia e reticenza un secolo
segnandone le tappe. Durante la guerra è stato usato per fabbricare il
complesso di colpa per la Resistenza, la squalifica profonda degli
italiani, e per gettare le basi di un senso di inferiorità contrario al
Risorgimento, al socialismo e alla democrazia; da rileggere, le pagine
di Giuseppe Dossetti su Marzabotto come delitto castale. Dopo
la guerra ha stravolto l’ingresso del paese nella modernità, costruendo
col metodo terroristico la minaccia del colpo di Stato, lo scacco alle
conquiste sindacali e democratiche, la difesa a oltranza dei privilegi
di classe. Dopo la dissoluzione del blocco socialista e la
riunificazione della Germania, i contraccolpi di quel sangue e quei
silenzi hanno continuato a pesare. I segreti della strategia della
tensione e l’impunità delle stragi nazifasciste in tempo di guerra hanno
ricevuto una protezione solida, dentro l’abitudine del potere
all’utilizzo indiscriminato della criminalità organizzata e del
fascismo; abiti intercambiabili, in Italia, e sempre con l’ornato di una
cultura prostituita alla distrazione. Da rivedere l’intervista al
regista (Orson Welles), in La ricotta di Pasolini: «Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa». La ricotta
comincia col Vangelo di Marco: «Non esiste niente di nascosto che non
si debba manifestare; e niente accade occultamente, ma perché si
manifesti».
Ancora da sondare, i rapporti fra le coperture dell’Armadio della
vergogna e il reimpiego del fascismo negli anni della conflittualità
armata, come le relazioni fra crimine, fascismo e affarismo –
riciclaggio, privatizzazione di beni pubblici, traffico di droga e armi –
nella prima metà degli anni Novanta, in concomitanza coi delitti più
vistosi (Falcone, Borsellino). Tutti da affrontare, i legami con altri
delitti che hanno segnato la situazione europea poco prima della
liquidazione del socialismo o nell’immediatezza (omicidi Olof Palme,
Alfred Herrhausen, Detlev Rohwedder).
Le stragi fasciste dal 1919 preparano la dittatura, che prepara i
massacri sociali, coloniali, bellici. Le stragi belliche, massacri
dentro l’immane massacro, sorreggono l’occupazione militare, la
schiavizzazione, la deportazione, il saccheggio, la repressione
materiale e morale. Le stragi della strategia postbellica orientano il
cambiamento dell’Italia in conformità alla spartizione del mondo in
blocchi. Le stragi del 1992-1993 chiudono quella stagione, mettendo a
tacere chi sa troppo e aprendo la strada a un nuovo quadro di potere,
che serve alla penetrazione economica nei paesi ex socialisti e alla
distruzione dell’originale socialdemocrazia italiana, coi suoi specifici
miti e pilastri (democristianesimo, eurocomunismo, partecipazioni
statali, banche pubbliche). Questo lunghissimo sacrificio umano ha per
costante l’eliminazione mirata di notabili (uomini d’ordine
antifascisti, politici onesti, sindacalisti impegnati, intellettuali
coraggiosi, magistrati scomodi) e il massacro casuale, indiscriminato,
contro il popolo, che la strategia del sangue riduce a massa informe di
carne.
Davvero, tanti anniversari. Eppure, a leggerli insieme si capisce
meglio. Un uomo diritto che visse per amore, patria e poesia, e morì
d’esilio in povertà: «Non accuso la ragione di stato che vende come
branchi di pecore le nazioni: così fu sempre, e così sarà: piango la
patria mia, “Che mi fu tolta, e il modo ancor m’offende”». Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, 17 marzo.
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