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25/04/2019

Ucraina: già iniziato il “repulisti” del dopo-Porošenko?

La previsione era sin troppo facile e tuttavia non completamente attesa. Era ancora fumante la canna della pistola con cui Vladimir Zelenskij aveva esploso tre (13,5 milioni di voti contro 4,5, o il 73,2% contro il 24,4%: una tripletta) colpi in fronte a Petro Porošenko, che il “repulisti” contro l’entourage di quello che è ancora ufficialmente il Presidente golpista ucraino in carica era già partito in quarta.

Nonostante le “assicurazioni” che, pare, fossero state date da Berlino e Parigi, di un trapasso senza drammatiche conseguenze, già prima del voto vari tribunali ucraini, avvertendo il vento mutato, si erano affrettati ad aprire fascicoli contro i personaggi più in vista della prima presidenza golpista. Ma, a cominciare dal 22 aprile, più nessuno scrupolo formale obbliga le Corti a “rispettare” gli esponenti della cordata perdente, rappresentanti di determinati circoli finanziario-industriali, contro altri clan oligarchici concorrenti.

Di fatto, se il voto ha rappresentato in qualche misura la volontà generale degli ucraini di porre fine al “sistema Porošenko”, le linee politiche che si annunciano col nuovo Presidente non si discostano di molto da quelle seguite sinora; sintetizzando al massimo e mutuando il lapidario commento che viene dal Donbass: “Zelenski è un Porošenko messo a nuovo”. Ci sarà un largo rimpasto di vertici golpisti, per riempire le tasche di chi è rimasto all’asciutto in questi cinque anni, ma il resto rimarrà per lo più come prima del 21 aprile.

Al pari di Porošenko, Zelenskij è per l’ingresso dell’Ucraina in UE e NATO e, di fatto, per la continuazione della guerra nel Donbass – nonostante alcune ambigue dichiarazioni della sua cerchia elettorale, che chiedono la condanna dei responsabili del conflitto nel Donbass e della “consegna” della Crimea alla Russia – rifiutando l’amnistia alle milizie prevista dagli accordi di Minsk e prospettando l’aggiunta di USA e Gran Bretagna al “formato normanno” di Francia, Germania, Russia e Ucraina.

Se Porošenko da cinque anni massacra la popolazione del Donbass, Zelenskij la definisce “feccia del Donbass” e parla della sua resistenza all’aggressione ucraina come di una “terribile, crudele e ributtante azione” delle milizie, proclamando che “nessuno avrà indulgenza per i banditi! I criminali saranno puniti”. Come Porošenko, riconosce quella ucraina quale unica lingua di stato, ignorando così tutte le minoranze linguistiche del paese, a partire da quella russofona. Al pari di Porošenko, ribadisce che il filo-nazista capo di OUN-UPA, Stepan Bandera, è “l’eroe dell’Ucraina”.

Sull’esito del voto ha certo pesato parecchio l’aperto schierarsi di Parigi a favore di Zelenskij; poi, il colpo finale di Washington – il cui rappresentante per l’Ucraina, Kurt Volker, aveva tifato fino all’ultimo per il Presidente in carica – ha evidentemente deciso il risultato, silenziando ogni appoggio ufficiale a l’uno o l’altro candidato. L’importante, per gli USA, era far apparire “democratiche” le elezioni, scongiurando una possibile larga astensione: sul sito del governo USA sono comparse 19 diverse voci di spesa relative alle elezioni presidenziali ucraine, per oltre trecentomila dollari, destinati a varie ONG e media, impegnati ad “invogliare” l’affluenza degli elettori, che ha così raggiunto un risicato 62%.

Ora, è certo possibile che, stante l’attuale composizione della Rada e prima delle elezioni parlamentari di ottobre, Zelenskij abbia qualche difficoltà a muovere liberamente le leve decisive del potere – Servizi di sicurezza, Ministeri degli interni, degli esteri, della difesa, ecc. – ma, come si dice, non c’è bisogno di esser profondi leninisti, per sapere che le decisioni chiave si prendono fuori del Parlamento. Oltretutto, non è da escludere uno scioglimento anticipato della Rada, non appena sarà ufficiale l’insediamento del nuovo Presidente, a maggio, e poi il salto di parecchi deputati da uno schieramento all’altro, come si conviene nelle rappresentanze degli “interessi che contano”.

Intanto, però, mentre è attesa per oggi l’adozione della legge sull’ucraino quale lingua unica di stato – la cosiddetta “Legge sulla totale ucrainizzazione”, che completa il percorso iniziato con lo “scisma” della chiesa ucraina dal patriarcato di Mosca, il “regime senza visti” verso i Paesi UE e la legge sull’adesione alla NATO – alla Rada si parla già di ridurre drasticamente i poteri presidenziali e l’entourage di Zelenskij grida al “colpo di stato”. Secondo lo speaker, il nazista Andrej Parubij, già oggi il Parlamento potrebbe esaminare il relativo disegno di legge, presentato dalla frazione “Auto-Aiuto” e appoggiato da “Blocco Porošenko” e “Fronte popolare” dell’ex primo Ministro Arsenij Jatsenjuk.

Nei piani, al Presidente rimarrebbero solo poche funzioni: in particolare, potrebbe proporre come primo Ministro solo il candidato designato dalla coalizione parlamentare e, pur rimanendo comandante in capo delle forze armate, ogni decisione dovrebbe essere assunta in accordo col Ministro della difesa o il primo Ministro. Tutto, secondo i dettami della Banca Mondiale, che già aveva delineato un assetto quale Repubblica parlamentare.

Di fatto, per far ciò, sono necessarie modifiche alla Costituzione da adottare in due diverse sessioni, la seconda delle quali (in autunno, in prossimità della decadenza ufficiale della Rada) a maggioranza di 2/3 e si deve tener conto che Vladimir Zelenskij, pur non avendo ancora una propria frazione parlamentare, è appoggiato da “Patria” di Julija Timošenko e “Partito radicale” di Oleg Ljaškò.

Nel frattempo, è Porošenko che rischia grosso, anche perché non è più tanto verosimile un suo colpo di mano, come non si escludeva prima del voto: le cosiddette “strutture di forza” stanno prontamente ri-orientandosi verso approdi sicuri.

Nell’ultimo “duello” dibattimentale, prima del voto del 21 aprile, Zelenskij aveva definito Porošenko “un lupo con sembianze d’agnello”, cui “verosimilmente toccherà comparire davanti ai giudici”: ecco che il giorno immediatamente successivo alla proclamazione dei risultati elettorali, sono partiti gli avvisi procedurali per l’entourage di Porošenko.

E, a quanto pare, c’è solo da attendere la sostituzione, anche formale, del Procuratore generale – l’elettrotecnico Jurij Lutsenko che, insieme ad altri ras golpisti, già alla vigilia del 21 aprile aveva ricevuto avviso di comparizione – perché si aprano diversi procedimenti nei confronti dello stesso Porošenko per tradimento, violazione dell’integrità territoriale dello stato, corruzione, crimini di guerra, appropriazioni su vasta scala, impedimenti alla giustizia e altro. Secondo la TV Razvedčik, il disco verde sarà dato ancora una volta da Emmanuel Macron, che accuserà Porošenko di aver attizzato la guerra nel Donbass, e consiglierà a Zelenskij di ristabilire relazioni con Mosca: pare che l’enfant parigino della banca Rothschild abbia qualcosa da dire a proposito dei passati affari sottobanco del primo golpista, relativi alla gestione della Roshen Corporation.

E, a dirla tutta, anche Donald Trump non avrebbe nulla in contrario a veder finire Porošenko dietro le sbarre: non si è certo dimenticato degli affari curati in Ucraina dall’ex vice Presidente USA John Biden, per conto del figlio Hunter e della società di gas Burisma (che anche un mese fa si è distinta per i legami con Porošenko, nell'acquisizione di giacimenti in Ucraina) i cui introiti erano egregiamente serviti alla campagna elettorale di Hillary Clinton.

Non privo di sottintesi il messaggio di congratulazioni inviato a Vladimir Zelenskij dal leader ceceno, Ramzan Kadyrov che, augurandogli successi “nella nobile azione volta alla rinascita dell’Ucraina e all’unità dei popoli ucraino e russo”, gli ha anche consigliato di “ricordare che la Russia, e non gli Stati Uniti, è il vicino più prossimo” del suo paese.

Che Mosca guardi ancora con cautela alle mosse di Zelenskij, lo dimostra il decreto firmato ieri da Vladimir Putin (se ne parlava già prima del 21 aprile) sulla semplificazione delle procedure per la concessione della cittadinanza russa agli abitanti delle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk, che non dovranno eccedere i tre mesi.

Mentre il rappresentante ucraino all’ONU ha immediatamente chiesto la convocazione straordinaria del Consiglio di sicurezza, il Ministro degli esteri golpista, Pavel Klimkin, si è rivolto agli abitanti di DNR e LNR (ma lo aveva forse fatto quando sono stati esclusi dal voto?) invitandoli a non ricevere la cittadinanza russa: “La Russia vi ha privato del presente e ora attenta al vostro futuro”, ha scritto su twitter, evidentemente pensando invece al ruolo dell’Ucraina.

Il quartier generale di Zelenskij ha commentato l’ukaz putiniano affermando che con esso Mosca “ha ammesso le propria responsabilità quale stato occupante”.

“Non desideriamo creare problemi alla nuova leadership ucraina” ha detto Putin, “ma ora, tollerare una situazione per cui le persone che vivono nel territorio delle repubbliche di Donetsk e Lugansk sono completamente private di diritti civili, supera ogni limite dal punto di vista dei diritti umani. E’ una questione puramente umanitaria”.

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