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18/04/2019

Liberazione

Sono chiuso qui dentro da almeno ventiquattro ore. Ho dormito su una branda dura e “dormito” è una parola grossa. C’è un viavai di gente che non s’è visto neanche alle ultime primarie del PD. Prima una delle guardie s’è lasciata scappare che fuori ci sono almeno trentamila persone e che il numero cresce di ora in ora.

Passano secondini che mi vogliono toccare, altri che mi guardano e basta, chi con la paura o la rabbia negli occhi, chi con la venerazione. E infine c’è chi sottovoce mormora un grazie. Ma quel soffio di voce deve essere un urlo dentro quel corpo, come quello di Martellini nell’82: “Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!”.

Campioni del cazzo, dico io. Adesso come ne esco da ‘sta situazione? Del governo non si è visto ancora nessuno. Dell’opposizione nemmeno. Staranno litigando sulla linea da prendere nei miei confronti.

L’unica a venire è stata Emma Bonino. Abbiamo parlato un po’, le ho raccontato cosa è successo, come se non l’avesse visto poi: eravamo in diretta TV e su tutti i social, mentre premier e vicepremier ricamavano un paio di cazzate sulla liberazione. La Bonino avrà fumato una decina di sigarette seduta a terra in un angolo, rendendo l’aria anche più irrespirabile.

Le ho chiesto quando mi avrebbero rimesso in libertà, non avendo fatto niente, e lei ha bofonchiato: “Meglio se ti trattieni qui finché le acque non si saranno calmate”.

Mi guardo intorno. La cella è più grande della stanza dove vivo e almeno questa è gratis. Vitto e alloggio pagato, meglio del reddito di cittadinanza.

Non mi fraintendete, non è che voglio farmi mantenere dallo Stato, ma dopo un po’ che mezza Italia ti sfrutta, la tentazione è forte.

Sono un ragazzo a posto, io. Laureato in lettere, obiettore di coscienza. Ho un lavoro precario, sono anni che non vado in vacanza e non mi compro una macchina nuova; vado a lavorare pure con la febbre, pure con la peste, o sono guai. Ho a malapena i soldi per andare a mangiare una pizza il sabato sera. Insomma, me la cavavo fino a ventiquattro ore fa. Tutto fino a quel maledetto 25 aprile. Ma non potevo starmene a casa?

Sento dei passi avvicinarsi. Dietro le sbarre compare una faccia conosciuta. È Di Maio.

Porca puttana, questo mi ammazza ora! Con lui ci sono cinque uomini, in giacca e cravatta, occhiali scuri e con quegli stupidi auricolari all’orecchio. Sembra la scena di Matrix, quando l’agente Smith sta per interrogare Neo. Qui si mette male. Penso a Stefano Cucchi. Se urlo qui sotto, chi vuoi che mi senta?

Di Maio si fa aprire la cella e, incredibilmente, entra da solo. Si siede accanto a me. Non dico una parola, ma sento la vescica sgomitare sotto i pantaloni; se non ci sto attento va a finire che me la faccio sotto.

Il vice premier mi guarda e sul suo volto si apre un sorriso gigantesco. Non posso trattenermi e sorrido a mia volta.

“Allora”, esordisce, “come sta il nostro... come ti devo chiamare?”.

“Col mio nome sarebbe sufficiente signor vice premier signore”. Rispondo quasi in modo militare per apparire rispettoso a sufficienza.

“Diciamocelo” riprende Di Maio quasi sussurandomi all’orecchio, “l’hai combinata grossa eh”.

“Veramente non ho fatto niente signor vice premier, l’avete visto tutti!”, rivolgendomi ai cinque giganti impassibili fuori dalla cella.

“Eh niente... come niente...” dice iniziando a camminare avanti e indietro per poi fermarsi di scatto: “Hai ucciso un vice premier!”

“Ma gli ho solo augurato di morire... e comunque non volevo...”

“No no, tu volevi eccome. Gli hai urlato contro davanti a tutti: ‘Magari muori ora!’ e zac, lui è morto!”.

“Signor Di Maio è stato un caso. Un colpo di fortuna... cioè sfortuna”, insisto io.

“Fortuna, sfortuna. Ma proprio il 25 aprile poi? Ma lo sai che già girano le battute sulla seconda liberazione d’Italia?”.

Di Maio mi guarda con occhi esaltati: “Lo sai che hai mandato in trend l’hashtag #MagariMuoriOra e non si schioda dal primo posto?”.

Resta qualche secondo in silenzio, poi riprende: “Senti, ma come hai fatto? Insomma, questo potere dove l’hai preso?”.

“Ma quale potere...” dico io, mordendomi subito la lingua. Di Maio mi guarda strano. Non dico come farebbe Toninelli, ma poco ci manca. Sembra quasi posseduto dalla mia figura, manco fossi una scia chimica. Se voglio uscire, forse conviene ammettere di averlo questo dono di ammazzare la gente sparando insulti.

“Questo potere”, continuo, “non so se posso parlargliene...”.

Lui resta in silenzio qualche secondo, poi chiede alla sua scorta di uscire.

Deve ripeterlo due volte, quasi spazientito. Ma voi lo lascereste un vice premier solo nella stessa cella con uno capace di farti fuori augurandoti semplicemente la morte?

Appena siamo soli, Di Maio riprende a parlare: “Vedi, io ci ho provato. Ho incontrato Di Battista e gli ho detto: ‘Magari muori ora!’, ma non è successo niente. Funziona solo con gli altri partiti? Tu per chi voti? Perché non mi insegni a farlo? Insieme... potremmo dare finalmente un futuro a questo Paese...” dice, lasciando la frase sospesa con lo sguardo perso nel vuoto come se al posto del muro ci fosse l’orizzonte.

Insieme! Ma quando mai! Se davvero potessi insegnargli a uccidere con un insulto, il primo a farne le spese sarei io.

Confusione, voci concitate. Qualcuno sta discutendo. La porta si spalanca e la scorta rientra velocemente, mentre un’altra scorta si fa largo nel piccolo spazio antistante la cella. Dietro, vedo arrivare Nicola Zingaretti. Di Maio si irrigidisce e come spinto da una molla si alza in piedi. I due si guardano attraverso le sbarre, coronando forse un sogno covato da sempre: vedere l’avversario in gabbia.

“Onorevole vice premier...” dice Zingaretti.

“Presidente Zingaretti, ero venuto a sincerarmi delle condizioni di questo giovane sfortunato”, replica Di Maio che dopo avermi guardato con un sorriso di circostanza mi saluta dicendomi: “Caro ragazzo, sono convinto che avremo altre occasioni per parlare di questa sfortunata circostanza”. Poi, dopo avermi stretto la mano a lungo, fissandomi con i suoi occhi spiritati, esce dalla cella lasciandomi solo con Zingaretti e la sua scorta. Lui, quasi seguendo lo stesso copione di Di Maio resta in silenzio qualche secondo, poi con un cenno chiede alla scorta di essere lasciato solo.

Zingaretti si avvicina e mi si siede accanto: “Qui fuori ci sono mezzo milione di persone e il numero sta crescendo. Ci sono stati già scontri tra tuoi seguaci e tuoi oppositori”.

“Seguaci? Ma se l’unico che mi ascolta quando parlo è mio nipote di cinque anni! E dopo due minuti si stanca pure lui!”.

Zingaretti continua, come se non avessi parlato: “La situazione sta degenerando, andiamo verso la guerra civile. Sappiamo con certezza che nel governo è cominciata la lotta alla successione. Tutti i leghisti della prima ora si stanno ritirando in Lombardia e sembra stiano organizzando un colpo di stato a Milano. Il Presidente della Repubblica ha chiesto a un gruppo di responsabili di prendere in mano la situazione”.

“Ah, quindi voi... il PD...”.

Mi zittisce con un gesto, quasi scocciato per la domanda: “Ci stiamo lavorando... ci stiamo lavorando. Ma il Quirinale sta spiegando l’esercito e ha già allertato l’Unione Europea e la NATO, nel caso la situazione dovesse precipitare”.

Io comincio a piangere coprendomi la faccia con le mani.

Zingaretti riprende: “Allora, cosa è successo?”.

Lo guardo con gli occhi lucidi e stanchi; sarà la cinquantesima volta che lo racconto.

“Niente” dico, come se essere accusato di aver ammazzato Matteo Salvini possa essere una cosa che capita tutti i giorni. “Ero andato alle celebrazioni per il 25 aprile, perché non avevo i soldi per fare altro. Io e la mia ragazza. C’era Salvini che sparava cazzate sui partigiani. Allora non c’ho visto più e quando è tornato il silenzio gli ho urlato: magari muori ora. E lui è morto”.

Scoppio in un pianto disperato. Zingaretti mi poggia la mano sulla spalla, con fare paterno. Poi mi solleva il volto, mi guarda dritto negli occhi e con un sorriso rassicurante alla Montalbano mi dice: “Pensi di poterlo rifare?”

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