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23/04/2019

Sri Lanka: quattro scenari per una strage

Il governo dello Sri Lanka punta l’indice sull’estremismo islamico mentre continua a salire il bilancio delle vittime della Pasqua di sangue. Il giorno dopo la strage che ha stravolto lo Sri Lanka – oggi nel Paese è lutto nazionale – è infatti la pista islamica quella che sembra essere nelle corde del governo e della maggior parte di commentatori, analisti e di pezzi da novanta come il segretario di Stato americano Pompeo che promette guerra al terrore. Mentre il lunedi si chiude con coprifuoco e stato di emergenza – che consegna il controllo della sicurezza al presidente – e mentre la giornata sconta l’ennesima bomba vicino alla chiesa di Sant’Antonio a Colombo (dove resta lievemente ferito l’inviato di Repubblica, Raimondo Bultrini) si fanno i conti della Pasqua di fuoco: quando l’esplosione quasi simultanea di autobombe e kamikaze ha colpito quattro alberghi di lusso della capitale e tre chiese a Colombo, Negombo (poco più a Nord) e Batticaloa nell’Est.

Il bilancio cresce di ora in ora e ormai supera quota 300 morti. Diverse centinaia i feriti. In assenza di rivendicazioni, l’indice è puntato su un gruppo radicale locale, la National Thowheed Jamath, un’associazione minore estremista e nota al più per atti vandalici non a caso contro obiettivi buddisti (le due comunità si sono spesso scontrate con gravi incidenti come nel marzo scorso). Il ministro della sanità Rajitha Senaratne ha confermato ieri che i sette kamikaze apparterrebbero a questo gruppo anche se è difficile capire dal corpo martoriato di un attentatore la sua provenienza. Sono presumibilmente di questo gruppo anche gli arrestati che già in parte domenica sera erano stati ammanettati dalla polizia. Senaratne è andato oltre, accusando il presidente Sirisena (nell’immagine sopra) di non aver dato credito – e di aver nascosto al premier Wickremesinghe – le allerta dei giorni scorsi. Sirisena, presidente dal gennaio 2015, è anche a capo delle forze di sicurezza e forse ha sottovalutato l’allarme. Ma la vicenda riporta allo scontro interno alla politica locale tra presidenza e parlamento, tra Sirisena e Wikremesinghe. Forse è da qui che si può partire per disegnare almeno il contesto in cui le stragi sono avvenute e prima di avventurarsi nell’indicare questa o quella pista.

Il quadro politico locale

Maithripala Sirisena si presenta come l’uomo nuovo della politica srilankese quando a sorpresa si candida contro Mahinda Rajapaksa, il padre padrone del Paese. Rajapaksa (nell’immagine a sn) è l’uomo che ha represso le rivendicazioni tamil nel Nord e distrutto – con stragi che non risparmiano civili – la struttura delle Tigri tamil, gruppo secessionista autore di numerosi attentati terroristici (i primi, dopo i giapponesi, a utilizzare kamikaze). Rajapaksa è accusato di essere un autocrate che, circondato da fratelli e parenti, ha garantito un piccolo miracolo economico ma “venduto” il Paese alla Cina. Alla fine del voto, il dittatore – che ha perso nelle urne – tenta un golpe che fallisce in poche ore. Sirisena sale sullo scranno applaudito dal popolino e benedetto dalle ambasciate di Delhi e Washington. Ma qualche anno dopo, nell’ottobre scorso, sconfessa – sorprendentemente – il premier Wickremesinghe e al suo posto insedia proprio l’ex nemico. C’è un braccio di ferro, qualche scontro e qualche vittima. Poi la Corte suprema delegittima l’azione del presidente e Wikremashinghe torna in sella. Il tutto ha un sapore oscuro, con un balletto bizzarro di personaggi e una crisi – che come dimostrano queste ore – perdura.

La guerra secessionista tamil

Sulla sfondo resta il retaggio di una guerra durata quasi trent’anni e conclusasi non solo con la scomparsa delle Tigri ma con l’accaparramento delle terra tamil (induisti e cristiani) da parte di singalesi buddisti, per lo più militari. Sirisena ha promesso la riconciliazione ma i crimini di Rajapaksa e dell’esercito restano impuntiti. La ricorrenza dei dieci anni dal 2009 fa pensare a qualcuno che le Tigri o chi per loro siano di nuovo in auge. Ma è una pista che ha poco fiato anche perché proprio l’élite tamil è in buona parte cattolica. Utile ricordare che il papa, tre anni fa, andò a dir messa nelle zone tamil.

Intemperanze religiose

Il terzo scenario riguarda la convivenza di 23 milioni tra buddisti (70%), induisti (12,6%), musulmani (9,7%) e cristiani (7,6%). Convivenza difficile: sia per i tamil del Nord (da secoli in Sri Lanka) sia per i tamil del centro (importati dai coloni britannici per coltivare il tè). Specie contro musulmani e cattolici si sviluppano, già durante l’era Rajapaksa, organizzazioni buddiste identitarie violente. Sirisena cerca di ridimensionarle ma non riesce a evitare pogrom, violenze, vittime. Ricorrenti. Può essere una piccola banda radicale di una piccola minoranza la protagonista di una strage perpetrata con un’organizzazione perfetta e chili di esplosivo che, in un Paese militarizzato come Sri Lanka, non è facile procurarsi? Sì, dice qualcuno, se l’aiuto vien da fuori. Le indagini diranno. Metteranno sotto torchio forse anche i buddisti.

Il quadro internazionale ed economico

C’è infine un quarto scenario. I soldi. Colpire gli hotel 5 stelle fa paura ai turisti ma anche ai businessman che li frequentano con carta di credito aziendale. Sri Lanka è un perno strategico sulla Via della seta marittima che passa per il “Filo di perle” ideato dai propugnatori della One Road One Belt. I cinesi hanno investito in telecomunicazioni, infrastrutture e porti come la mega struttura portuale di Hambantota, fonte di polemiche per la cosiddetta “debt trap” che ucciderebbe l’economia locale. Quel progetto non piace a molti srilankesi (con Sirisena le joint venture con Pechino subirono una battuta d’arresto) ma nemmeno all’India e agli Stati Uniti che temono che Hambantota diventi un porto militare. Sommergibili cinesi con testate nucleari hanno già incrociato nei porti della “Lacrima dell’Oceano indiano”.

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