di Michele Giorgio
Sconfitti nelle grandi città,
scacciati dai centri più piccoli, senza più uno Stato e un’autorità
organizzata a dirigerli, i jihadisti dell’Isis comunque restano molto
determinati e pronti a colpire con il tipico «mordi e fuggi» della
guerriglia. Almeno 35 soldati siriani e combattenti alleati sono stati uccisi in attacchi messi a segno dai jihadisti negli ultimi giorni.
Con raid rapidi e micidiali, gli uomini dell’Isis hanno colpito non
lontano da Palmira e nel deserto di al Quriyah a est di Deir Ezzor. Si tratta della più grande operazione armata condotta dal Califfato da quando ha perso la cittadina di Baghuz,
la sua ultima roccaforte in territorio siriano, ad opera delle Sdf, le
“Forze democratiche siriane” (curdo-arabe) appoggiate e armate dagli
Stati Uniti.
Proprio delle Sdf e del loro ruolo, i media statunitensi sono tornati ad occuparsi in questi giorni.
A questa milizia il Pentagono ha assegnato il compito di detenere i
circa 9.000 sospetti miliziani dell’Isis catturati o che si sono arresi
durante e dopo i combattimenti. A questi si aggiungono migliaia di
mogli, molte delle quali vedove, e figli di jihadisti che assieme ad
altri civili vivono in condizioni precarie nell’enorme campo –
ufficialmente di accoglimento, in realtà di detenzione – di al Hol
(oltre 70mila persone, il 65% sono bambini e adolescenti sotto i 18
anni), nella provincia di Hasakeh a nord-est della Siria. Il
destino dei jihadisti e quello delle cosiddette «mogli dell’Isis» resta
un punto interrogativo. In gran parte sono siriani e iracheni ma tra di
loro ci sono anche foreign fighters, i combattenti stranieri dell’Isis.
Gli Usa spingono affinché questi detenuti, nelle mani delle Sdf,
rientrino nei paesi d’origine per essere processati e incarcerati.
Incluse le «mogli dell’Isis» che gli americani, spiegava qualche giorno
fa la Cnn, non considerano innocenti ma civili che avrebbero scelto
coscientemente di trasferirsi nei territori siriani e iracheni
controllati dallo Stato islamico.
Come Kazakistan, Macedonia e Marocco, il Kosovo ha annunciato ieri di aver rimpatriato 110 suoi cittadini dalla Siria, fra cui quattro combattenti e molte donne con figli che avevano seguito i loro compagni. Sono
almeno 300 i kosovari che si erano uniti ai gruppi jhadisti e qaedisti
che combattevano (e ancora combattono) l’esercito siriano e le
formazioni curde. Una settantina sono stati uccisi, altri 120 sono tornati in patria, molti sono stati arrestati al loro rientro. Restano pochi i paesi, a cominciare da quelli europei, pronti a seguire l’esempio di Pristina.
Danno come motivazione la difficoltà di perseguire i presunti membri
dell’Isis sulla base di prove incerte raccolte solo sui campi di
battaglia. E senza proclamarlo apertamente preferiscono che i jihadisti
restino dove sono adesso, nei centri di detenzione delle Sdf. Gli
Usa applaudono al Kosovo e ai quei paesi che si sono “ripresi” i
jihadisti e le loro famiglie ma frenano quando sono chiamati a fare
altrettanto. Nelle prigioni delle Sdf ci sono almeno 2mila
foreign fighters, di cui solo una ventina di cittadinanza statunitense.
Eppure l’Amministrazione frena. All’inizio dell’anno Washington ha
annunciato che una delle affiliate all’Isis, Hoda Muthana, di cui si è
parlato nei mesi scorsi, non sarà rimpatriata sebbene sia nata nel New
Jersey.
Intanto il campo di al Hol scoppia. La popolazione è
cresciuta di oltre 60.000 da dicembre e comprende il 43% di siriani, il
42% di iracheni e il 15% di cittadini di altri paesi. Le condizioni di vita sono insostenibili.
Il giornalista Barrett Limoges di Syria Direct, scrive di «caos e
disperazione» in al Hol e riporta la testimonianza di Anita Starosta,
un’operatrice umanitaria che di recente assieme ad alcuni colleghi ha
visitato il campo. «Ci sono siriani, tanti iracheni, un sacco di gente
dalla Turchia – ha riferito Starosta – abbiamo visto molti bambini
(stranieri) ma non europei che vengono inseriti subito nella sezione
internazionale». In quella parte del campo, ha aggiunto, «ci sono
tedeschi, belgi, francesi, britannici, americani, russi, sudanesi,
algerini. Circa 50 nazionalità. Non so dove altro esista un posto come
questo».
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